a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia
Per il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia, oggi risponde Mario De Santis.
Quello della poesia e dell’autenticità è un tema che riguarda tutti gli atti creativi, ma vorrei dire “gli atti” in genere. Etica e forma letteraria vi si intrecciano, ancora una volta. Credo sia in corso una sorta di “crisi della presenza”, come la chiamava Ernesto De Martino, ma stavolta sul piano globale. Nel 1948 l’antropologo coglieva per l’appunto questa crisi in una civiltà in dissolvenza (la contadina mediterranea) nel suo spaesamento e i traumi derivati privati e pubblici. Non ultimo le guerre. Meno gravi del conflitto mondiale, anche la società europea dei nostri anni vive tuttavia alcuni choc, temporanei, ma non sono meno importanti i cambi di paradigma e non minore il timore d’essere a un punto di svolta.
Porsi il problema dell’“autenticità”, in un mondo dominato non solo dalla post-verità (inaugurata con il verissimo attacco ma pensato come “cinematografico”, dell’11/9), ma addirittura dalla scalata al potere di soggetti (Trump e Musk e non solo) che la praticano e sono proprietari dell’algoritmo che la determina, rende il tema urgente.
Ma siccome Trump e Musk sono i primi a proclamare un’autenticità a cui tornare (l’America grande di nuovo, analoghi all’ideale della vita “völkisch” dell’AFD) bisogna continuare a sospettare dell’autenticità, farne un vaglio continuo.
Dell’autenticità dei nostri pensieri e visioni si occupa la scienza medica, la psichiatria, le neuroscienze: cosa è la “coscienza” ? Se ne occupa anche la biologia, insieme alle neuroscienze. La radice evolutiva che approda alla coscienza. Qui bisognerebbe introdurre il processo di omeostasi, ovvero il continuo percepirsi e adeguarsi che la vita fa di sé stessa e con sé stessa, come analogo e precedente a ogni forma etica ma ad esso collegato nella storia evolutiva, mettendo in connessione studi etnoantropologici come quelli di Ian Tattersall o neuroscienziati come Antonio Damasio.
Invece in filosofia siamo arrivati alla messa in discussione ogni idea di verità, che viene messa “tra virgolette” secondo il filosofo Maurizio Ferraris, citato nell’intervento precedente da Davide Castiglione che avverte come la “caduta delle condizioni di verità accelera il crollo della coesione sociale”. Il rischio c’è, non c’è dubbio. Le verità tuttavia, come nell’esempio dei populismi, arrivano a diventare anche drammaticamente false, spesso incontrando un bisogno diffuso di affermazioni assolute, un bisogno di autenticità definitiva, un prodotto masscult fatto con mix di new age, meditazione para-psicoanalitica superficiale, mode motivazionali del “sé autentico” e un pizzico di Socrate, dimenticando che dietro l’imperativo “conosci te stesso” c’era già una mancanza di fondamento di ogni conoscenza (“so di non sapere” ).
Ovunque se ne scrive, anche in poesia, rigurgitando confessioni e autenticità. Poeti- profeti, eteree presenze di monachesimo buddista, saggi della vita rurale, tutti rigettano la disidratazione di ogni simbolico nelle parole e praticano la loro poesia autoproclamata “vera, autentica”. Restando alla poesia, personalmente credo resti valida l’eredità del XX secolo, in più – gettando via sterili posizionamenti da legioni di critici militanti – considero fratelli Pagliarani e Sereni.
In un certo senso quello che sto scrivendo può concordare con chi sostiene “l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction” come da sollecitazione (si fa riferimento a Siti e ancora a Ferraris). Dal mio punto di vista tengo fermo (una delle poche cose) l’avvertimento di Wittgenstein, che la verità sia un “gioco linguistico”. Però lascio alle poetiche la possibilità di poter essere forme storiche, dunque temporanee, di posizionamento. Non asserzioni dimostrabili (semmai solo più o meno convincenti, suggestive, seducenti). Wittgenstein era all’opposto di ogni dissoluzione etica, avvertiva il non-fondamento dei giochi, ma esortava a giocare e riformulare continuamente le regole. Perciò si può praticare anche una poesia che – lirica e antilirica insieme – sia questo prodotto multiforme e storico, storicizzato di continuo. Nel praticare stesso della poesia c’è questa pur mobile e celibe pratica di una riformulazione continua delle “condizioni di possibilità” del discorso che non si attesta mai in una forma ma si rigenera di continuo, ben oltre i generi. Ben oltre la letteratura, direi. È una fede nell’umanità senza umanesimo, nell’ora estrema in cui il suo compito più tragico è prevedere e preparare insieme la sua estinzione.
L’umanità è arrivata a formulazioni filosofiche e dimostrazioni scientifiche che sembrano un controcanto rispetto alla diffusa sensazione di ricerca di miti fondativi nella cultura di massa. È il ‘900 della relatività quantistica, della decostruzione, ma che viene mentre si affermano totalitarismi, compreso quello speciale – sulla scia di Arendt – del consumismo globale. Il XX secolo è però l’apice della “individualità moderna”, modello medio di un riconoscersi anche collettivo, in quell’”agire comune”, magari per classi sociali – in poesia era l’everyman eliotiano – che oggi si evolve in una “era del singolo” (Francesca Rigotti ne scrive in un saggio Einaudi). Una “singolarità” che assume forme diverse: di esasperato egotismo, indifferente alla comunità, narcisismo di chi si crede unico. Nome-cognome-brand di sé. Narcisismo molecolare, nell’intermedio della semiosfera digitale social. Microcosmi egoisti in lotta per un piccolo spazio di visibilità (mi ricordano i poeti, che vanno a nozze con i social). Rivendica libertà assoluta “interiore” e “privata” (monade) diventa “identitario”. Io sono vero e mi riconosco in chi è “vero italiano”. Vero americano, sovranità dell’autenticità
Oppure vivo il mio identitarismo biopolitico – in molteplici declinazioni (è quel “plus” che segue ora l’acronimo LGBTQ ma che riguarda tutti: ci crediamo veri in un plus di autenticità).
E se provassimo a riformulare la questione così: è “autentico” tutto quello che non può dirsi da solo come tale. Essere un “autentico sé”, necessita di riconoscimento non solo “dell’altro” ma, fuori dai genitivi, anche “dall’altro”, un moto a posteriori di relatività che reintegra una diversa “coesione” in una rete collettiva di reale concretezza. Scrivere poesia tenendo conto di questa condizione di costellazione in relazione.
Anche se si parte dallo sfuggire ogni ricaduta in un punto di origine, del soggetto, di un discorso, di una genesi del linguaggio, di un’autenticità della parola o di un sistema di segni espressivi, resta la necessità per ogni arte di essere “espressione”. In qualche modo dentro la poesia vedo la necessità di praticare quella che Bachtin indicava come una delle caratteristiche del romanzo: la polifonia. È un’indicazione di massima, non ho indicazioni né tanto meno vorrei scivolare in asserzioni prescrittive.
L’ authentĭcus, in greco αὐϑεντικός, derivato di αὐϑέντης (che vuol dire “autore”) ha a che fare con un significato traducibile, secondo la Treccani, in “avere autorità su sé stessi”. L’autentico insomma ha un germe di autoritarismo in sé. Il germe dell’ Homo Deus, come Harari chiama il percorso evolutivo della civiltà Sapiens. Allora l’autore-poeta si deve fare attore del controcanto e della contraddizione a tutto ciò.
Ci viene oggi in aiuto la forza metaforica delle scienza, qui in particolare la fisica quantistica: non c’è “materia ultima”, un “ultimo atomo” come sognava Lucrezio. La materia indagata al fondo – suggeriscono per dare idea delle loro conclusioni gli scienziati divulgatori come Rovelli – rasenta il non-materico, se non nella relazione energetica che la tiene, insomma un quasi-nulla. Relazione è comunque la parola chiave della materia scrive Rovelli nelle sue Brevi lezioni. (Lacan citato da Di Corcia e Borio nel questionario è assimilabile: non desidero solo per me, perché desiderio è “desiderio dell’altro”).
In generale, come ha spiegato la filosofa Adriana Cavarero su “La Lettura” di recente, serve evitare – anche in questa decostruzione salutare delle soggettività, che esplodono – di cadere in un’enfatizzazione delle differenze infinite, della molecolarità infinita che collassa e paralizza. Come poeta ho sempre guardato, almeno fino all’ultimo libro, a questo necessario passaggio. Adesso, ho un progetto che abbandona l’ambivalenza che c’è sempre anche nella poesia, e che riscontro alla fine anche dove è più aperta possibile (penso all’ Eavesdropping ) in quanto collocata al centro di uno spazio tipografico e nonostante sia “orecchio origliante”, finisce per essere post-soggetto post-lirico anche se sua macchina imitativa.
Dunque indago un passaggio verso la “prosa” – che non definisco, nel tentativo di raggiungere e mostrare nel e con il linguaggio le dimensioni di relazioni “plurali”.
Non fantasticare da umanisti di salite (Dante/Petrarca) verso “l’autenticità del Sé”, agente il desiderio o né di discese (Baudelaire, Rimbaud) verso queste autentiche esistenze antagoniste. La scrittura che evolve dalla poesia (lirica) dovrà cercare altre forme del desiderio di essere-qualcosa, ma credo vada riformulato e smontato il postulato che ci fa ruotare sempre intorno a questo soggetto ingombrante, “il più infame dei pronomi” (Gadda) anche quando è nella sfera del “Non-Io”. (Oltretutto non per vezzo da post-colonialismo da salotto, ma geo-culturalmente non si può non tenere conto che tutto quello detto finora è dentro “la Vecchia Europa” e la sua idea di “coscienza del sé”. Se allarghiamo l’orizzonte ci dovremo confrontare sempre più con altre culture).
Restringendo però il campo, in quello della poesia italiana – salvo voci nuove, di generazione di trentenni e poco più – è terminata , dopo il 900, l’abitudine di far attingere il discorso della poesia fuori dalla letteratura. Oggi abbiamo questa necessità, di ornare alla storia, alla scienza.
L’autofiction è piena di soggettività, ma in qualche modo ha raggiunto il segno apicale di estrema crisi della soggettività stessa, quella occidentale europea, nel momento in cui essa diventa però irrilevante. Anzi, proprio il proliferare nel sottobosco di tanta poesia confessionale è il sintomo di questa “crisi”, per chiudere sul concetto con cui ho aperto. Dall’esperienza narrativa e artistica che chiamiamo “autofiction” trarrei l’esempio per una biopolitica soggettiva, un mettendosi in gioco, dentro la storia (fuori dall’ombelico), con il rimbalzare, relazionarsi del singolo-particella dentro “Lo sciame” (cito un titolo di Byung-chul Han, ma anche un mio titolo del 2015) collettivo, evolutivo dell’umano, in questa fase storica.
Bisogna lavorare dentro i saperi che ci aiutano a capire questa “intersoggettività”. Che forma letteraria assumerà poi la scrittura del “poeta” (ma come scrive oggi il poeta? Ancora in versi?). Personalmente al momento cerco di portarla fuori dalle dicotomie (lirica/antilirica prosa/poesia ecc.). Ricordo, giovane studente di Lettere, quando lessi la svolta su “Alfabeta” di una “etica della forma” posta da Antonio Porta (spiazzando tutti, era la prima intuizione di un cambio sociale del ruolo della letteratura). Senza guardare necessariamente a “Invasioni”, ma terrei quel senso di fuoriuscita da una poetica dominante. Forse anche fuoruscita dal versificare. Estetica, etica e revisione di un agire intersoggettivo vanno di pari passo, sì. Al momento non scrivo più “poesia” e considero esaurito il percorso che fino ad ora ho praticato. Sto cercando altro.
[Immagine: Mariah Robertson, 364, 365, 366, 367, 368, 369, 370, 371, 2023 (particolare)].