di Giulio Aureliano Pistolesi
[E’ da poco uscito per peQuod La saggezza, di Giulio Aureliano Pistolesi (postfazione di Gilda Policastro). Ne proponiamo alcuni testi, seguiti dalla postfazione].
A ventiquattro anni quasi venticinque
A ventiquattro anni quasi venticinque
non la puoi più cantare
la gloria fiammante della solitudine,
perché è deviante e narcisistica (uso il termine
nell’accezione di Cristopher Lasch: cfr. G. Mazzoni, Sulla poesia moderna,
Il Mulino, Bologna 2005, p. 212) e soprattutto perché
dopo un po’ ci esci matto; rimangono le ragazze,
stando attenti beninteso a evitare quadri semplicistici
se non misogini, e il marxismo, cioè
il fatto che hai scoperto che le persone
fanno quello che fanno per ragioni diverse
dalla volontà estetica. Basta
per farne una poesia?
*
Tenere insieme tutto
Tenere insieme tutto, conciliarli
questi benedetti opposti – non so
se ci riuscirò mai. In compenso
mi sono aperto un profilo su Goodreads
apposta per la prosa, così la poesia
non si contamina e l’identità è salva:
magari lo psicologo non è d’accordo
ma io faccio come Pessoa: divide et impera.
*
L’area
C’è uno spazio, un respiro in cui mi distendo
brevissimo, un’assenza di controllo
vertiginosa, un’area senza ironia
- potremmo dire che è l’area della poesia –
(potremmo dire, alas
che è l’area della droga)
potremmo dire che è l’area della vita
purissima, non marcia
dalla nevrosi – potremmo dire
moltissime cose ma queste
non la fanno tornare, quando sparisce
sparisce sempre e non c’è rituale
per convincerla a stare. Neanche
se chiedi per favore.
*
Poesia che non doveva essere un necrologio ma che poi lo è diventata
In muta contemplazione di se stesso si è perso
il giovanotto brillante del liceo, quello ironico
che scriveva sul giornalino – lo piangono
sbigottiti i parenti e la Società dei Giovani Poeti
del Triveneto, l’ho inventata adesso
anche perché lo sappiamo: nella vita
io non ho mai parlato con nessuno –
*
Manifesto del sublime nevrotico
Chiamatelo così: sublime
nevrotico – canto avvelenato, attorcigliato
su se stesso – orfismo ironico,
perché no – mondo bello
del cervello contorto – Mondo
cane, ma con tutta la frutta possibile
perché le pere, stava scritto alla stazione
di Perugia, su un muro, anni fa.
*
Coming-of-age
Cervello mio cervello devo farlo
ti abbandonerò, ti metterò
sotto l’alta tutela di qualcun altro – adulto
possibilmente, anima poetante
per te è finito il tempo delle mele.
*
Ultime parole dell’eterno adolescente (davvero)
Ma ci rivedremo, ah ci rivedremo
io e voi, voi e io – saremo
di nuovo faccia a faccia, ritroverete
in me la vostra antica paura
la vostra nostalgia, sarò la speranza e
la fuga – sarò una poesia
pensata e non scritta, sarò la droga
evitata per prudenza – l’ombra
di tutti i vostri giorni, l’inconfessabile
mostro sotto le scale […] il cuore rivelatore
dice che, nonostante tutto, siete vivi.
*
POSTFAZIONE
di Gilda Policastro
C’è un poeta ligure che si chiama Filippo Balestra ed è un po’ più avanti negli anni e nell’esperienza letteraria rispetto a Giulio Pistolesi, i cui versi avete appena letto se vi siete alfine imbattuti in questo mio testo che lo post-senta (cioè lo presenta dopo, a conclusione del libro). Ebbene, Balestra è solito iniziare i suoi reading di cosiddette “poesie normali” con la frase-verso: «Purtroppo ho avuto un’infanzia felice». Pistolesi sembra inquadrabile in questa scia di “poesie normali”, non auratiche, non oracolari, non orfiche, ma nemmeno sperimentali e meno che mai di ricerca, come usa dire oggidì (in realtà da perlomeno vent’anni). Si tratta di poesie sempre molto brevi, a volte epigrammatiche, tranche di vita interiore e in progress, che spesso proprio come quelle di Balestra si interrogano in atto sui meccanismi del comico: all’improvviso qualche aspetto della realtà, che la poesia ha il privilegio di sintetizzare in una formula estremamente rapida, ci suscita (in modo ancora per certi versi inspiegabile) il riso. Avviene attraverso le parole e la loro scelta e disposizione, tramite il sovvertimento dell’aspettativa, o cos’altro. Di sicuro quando riescono, la poesia come le barzellette, allo stesso modo ne ridiamo. Pistolesi usa due strategie del comico, per dirla alla Luigi Malerba, o meglio due espedienti della comicità entrambi molto classici: l’inatteso (aprosdóketon, direbbe lui in corsivo e tra parentesi, citando direttamente la fonte colta come un liceale secchione – chi scrive qui condivide, anzi condivise, il problema), un imprevisto logico-espressivo- semantico che è di solito consegnato alla chiusa, e la rottura della quarta parete, si direbbe a teatro, ovvero l’inserimento nel testo di elementi metatestuali che convocano il lettore, lo fanno entrare nella costruzione del testo e del pensiero sottostante, lo chiamano a correo della marachella poetica – suscitando la risata, certo, ma non solo.
Non so come sia stata l’infanzia di Pistolesi perché praticamente non lo conosco, ma posso immaginarne, dai suoi versi, la vita di giovane uomo da come si autorappresenta il suo avatar “saggio” alle prese con due dei temi principali della poesia di tutti i tempi: la poesia stessa e le donne (le armi ci sono pochissimo, confinate in un atroce calembour su Gaza – atroce perché mentre scriviamo quel territorio è bombardato senza sosta, nell’ottundimento generale). Pistolesi è effettivamente un Malerba in versi, gioca con le cose che non sono cose ma per lo più appercezioni e avvitamenti, gioca con la sua idea di sé, soprattutto, e lo fa molto bene, quasi sempre in modo arguto, e giusto qualche volta in modo facile (tra le cose che so di lui è che ha scritto una tesi su Guido Catalano, che magari qualcosa gli ha lasciato, in termini di svagatezza). È però un rischio che deve correre, il comico. Anche se più correttamente l’io lirico della Saggezza si autodefinisce ironico ed è ironicissimo il titolo, come pure l’abbozzo di una definizione “filologica” di sé da Autodizionario – con riferimento a quello storico degli scrittori italiani pubblicato negli anni Novanta – che parte dall’uso dell’avverbio ovviamente:
[…] è da lì che si evince,
scriverei, tutta la carica demistificatrice,
anche se un po’ appannata, che connòta
(o cònnota?) questo autore così particolare (corsivo dell’autore, appunto).
Ma l’autoritratto del giovane poeta malinconico e la sua autoriflessione sul genere che viene praticando marchia in verità tutto il libro («ho capito/che cos’è che facciamo noi poeti»; «se non mi piango addosso/non è una vera poesia»), puntellandolo di pointe memorabili, spesso in virtù di violazioni e anacoluti («dove finisce/ la benedetta salute e dove inizia/ che devo prendere le medicine»), a sporcare felicemente il dettato all’apparenza piano e leggero: tra l’altro l’antagonismo che lo attraversa sembra essere quello tra prosa e poesia, cioè di genere, ma ce n’è anche uno generazionale, con figure che vorrebbero suggerire una qualche opposizione alla carriera prettamente letteraria. In realtà il poeta malinconico, che sente l’ironia come un passaggio obbligatorio per non cedere a uno sconforto forse prematuro, si affaccia assai garbatamente alla poesia, senza causare nessuno choc negli astanti, ma scortandoli per qualche ora in un viaggio nella vita ancora potenziale del quasi-non-più-ragazzo che a rimarcare la metabolé in fra-poco-adulto non si fa mancare psicologi, sostanze e delusioni (inflitte o subite). È un io svagato, sì, ma anche molto centrato, e le citazioni gli servono da bussola, oltre che da ipertesto postmodernista. Pistolesi ha avuto, forse, un’infanzia felice, ma di sicuro non ce la fa scontare: e anzi, a una qualche altezza l’infelicità gli ha bussato alla porta, parrebbe, e la saggezza gliela fa tenere a bada. Saggezza, o l’altro nome della poesia.
[Immagine: Mariah Robertson. 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 172, 2023. Photochemical treatment on RA4 paper. Foto di Charles Benton].