di Gilda Policastro
Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro
Per arrivare alla Libreria Popolare, in via Tadino, si passa davanti alla galleria Mudima, la cui scritta enorme sulla vetrina ricorda il titolo del primo romanzo politico di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto. Si crea immediatamente un cortocircuito con l’incontro su Creatività e AI da cui provengo e in cui sono intervenuta proprio partendo da Tape Mark I, la poesia che Balestrini pensò per il calcolatore, primo in Italia dopo svariati esperimenti anglofoni. Quando entro in libreria ci sono sparute donne di varia età già sedute e alla spicciolata entreranno altri convenuti per la presentazione che si terrà di lì a poco. Bisogna bussare per entrare, perché la libreria nelle giornate di presentazione chiude al pubblico, come mi spiega il libraio: «Voglio concentrarmi sull’incontro e non essere distratto dalla normale attività di vendita».
Guido Duiella, come tutti i librai indipendenti, fa una gran fatica. Se le vendite di libri sono ovunque in ribasso, in una libreria che cura il catalogo e seleziona gli incontri, e che non può contare sul fatturato salvagente delle grandi catene, il gestore è un eroico resistente che vuole ancora tutto: tenere insieme qualità delle proposte e offerta commerciale, ovvero provare a venderli, effettivamente, i libri. Ma certo, non solo quello: la libreria conta su una comunità di affezionati, che hanno desiderio di incontrarsi, di parlare di quello che leggono, di confrontarsi con gli autori. Come dappertutto, certo, ma con una cura in più del ruolo del cosiddetto pubblico. Condividiamo un analogo disagio già solo per il termine di fatto subordinante, e ricordiamo en passant come Montale parlasse ironicamente di “recipienti”. Da qui parte il nostro dialogo.
GP: Trovo sempre più spesso, nei corsi di scrittura ma anche alle presentazioni, persone che magari scrivono, di sicuro leggono, e possono dire la loro con competenza, anche se non sempre con gli strumenti critici e il codice giusto. Questo non smentisce e anzi rafforza la necessità di una critica seria, che sia mediazione tra opere e lettori, ma personalmente credo molto nella costruzione del senso dal confronto collettivo e nel “circolo ermeneutico” come lettura dialogica, e perché no conflittuale, sull’opera. Provo sempre più disagio, dopo tante presentazioni sia in prima persona che da spettatrice, di fronte a questa figura di autore-personaggio-rockstar che siede al tavolo come fosse su un palco e guarda dall’alto in basso chi gli sta di fronte.
GD: Mi trovi d’accordo su entrambe le questioni. Parto dalla seconda, la necessità della critica. Ti ripropongo il paragone che uso con i lettori che vengono in libreria perché vogliono cimentarsi con la lettura di un genere fino ad allora non frequentato come la poesia o i racconti, brevi o lunghi che siano, o con un classico. Racconto loro che la lettura è una disciplina con diversi gradi di difficoltà e che, come tutte le discipline, richiede impegno, costanza e allenamento per raggiungere gradi di piacere sempre più soddisfacenti. Paragono quindi la lettura all’andare in montagna d’estate. Ci si può limitare a semplici passeggiate tra i prati o su dolci declivi, oppure prenderci gusto e, già più allenati, impegnarsi a percorrere sentieri che portano a mete più alte. Poi ci si vorrà cimentare, sicuri delle proprie forze, in trekking ancora più ambiziosi, tali da far apprezzare persino la fatica necessaria per raggiungere un laghetto in alta quota o un rifugio con ristorante. Salendo di grado, che cosa cambia per l’escursionista? Un orizzonte che si allarga sempre più e le scoperte lungo il cammino. Se però si volesse proseguire nella propria capacità di affrontare la montagna, allora sarà necessario, anzi indispensabile, munirsi dell’attrezzatura giusta e della competenza per saperla usare. Si salirà ancora e si apriranno orizzonti che si potranno raccontare a chi si è fermato più in basso, stimolando la sua immaginazione. Infine, però, bisognerà essere consapevoli che pur comperando e disponendo dell’attrezzatura necessaria, non è questa che garantisce di arrivare in cima alla vetta e finalmente spaziare su un orizzonte senza limiti, ché è cosa per pochi. Così la lettura: via via che ci rinforziamo come lettori, i nostri orizzonti si ampliano e il nostro gusto si affina, ma diventiamo anche consapevoli che per fare il salto da lettori a scrittori o critici, e quindi essere capaci di raccontare orizzonti più profondi o svelare strutture e sentieri nascosti nei testi, ci si debba attrezzare maggiormente. Non si tratta però di un obbligo e, in quanto lettori meno attrezzati, non ci collochiamo su un piano di valore inferiore agli altri più “forti”, dato che l’intensità del piacere che proviamo non è inferiore per qualità a quella di chiunque altro, così come la voglia di condividere questa esperienza.
GP: Sull’idea dell’allenamento, mi trovi concorde. Quel tipo di piacere differenziato può forse produrre l’equivoco dell’uno vale uno, ma è una questione che ci porterebbe lontano. Quello che mi pare molto interessante è soprattutto come dalla tua specola il contatto con i libri sia un percorso e, per quel che più strettamente ti pertiene, un’operazione non solo funzionale (alla vendita, nella fattispecie). Certo, il contatto più stretto col lettore dà un senso diverso al tuo lavoro, ma anche a quello autoriale, fuori dalle fanfare mainstream dell’ultimo capolavoro annunciato.
GD: Questo modo di vedere lettura e lettori fa certamente parte della mia personale deontologia di libraio, assieme ad altre regole come ad esempio quella di non dare a un lettore, per quanto possibile, un libro insulso, perché significa fargli perdere tempo, un bene prezioso, e sicuramente non aiutarlo a sperimentare il piacere della lettura. Egualmente non dare, pur di vendere, un libro bello ma complesso per qualche motivo, senza le debite avvertenze sull’impegno che quella lettura potrebbe comportare e senza, eventualmente, suggerire prima una lettura che possa essere in qualche modo propedeutica all’opera più complessa, o raccomandando di non abbandonare la lettura prima di tot pagine, perché tutto poi risulterà più chiaro e piacevole…insomma, anche fare il libraio non è cosa semplice, se non si vuole essere banali rivenditori di merce cartacea.
GP: Crediamo entrambi, mi pare, che sia possibile evitare di considerare i lettori una massa indistinta di consumatori, alla stregua di chi entra in un supermercato per la spesa del giorno. Nel concreto, forse, tu hai maggiori possibilità d’azione: penso alle presentazioni che organizzi in libreria, che danno modo all’autore di incontrare persone reali, non una massa. Persone con cui si può conversare, com’è capitato a me, e capiterà ad altri autori, immagino.
GD: Credo talmente tanto nel contributo che un lettore consapevole può offrire a un incontro da aver ideato un progetto che a breve finalmente partirà e che ho chiamato “Piccola accademia dei lettori”. Non è un gruppo di lettura, perché non è centrato sulle relazioni tra i lettori, ma su quella del singolo lettore con un suo autore, di cui ha letto almeno un libro e a cui io offro l’opportunità di incontrare appunto chi lo ha scritto, non per il firmacopie ma per porgli questioni e suggestioni da lettore. Organizzerò dunque degli incontri su un libro già letto dai partecipanti, con un massimo di 15 presenze, appunto per favorire il dialogo. Potranno partecipare i lettori che avranno qualcosa da dire o da chiedere sul libro letto (lo stesso per tutti) con un autore disponibile al confronto. Certo, l’autore rischia di avere di fronte lettori consapevoli ma poco preparati, e però basterà che ce ne siano un paio capaci di fare considerazioni non banali per rendere l’incontro utile anche per lui. Poche regole: si leggerà un libro, scelto da autore e libraio, si inizierà puntuali, l’incontro avrà una durata di 80 minuti, si terminerà all’ora prefissata, cellulari spenti, non si andrà via prima della fine. Tutti dovranno impegnarsi a fornire un proprio contributo critico: la parola ai lettori, dunque, mentre l’autore ascolta e interloquisce, rispondendo e discutendo, senza tema di esprimere il suo dissenso e non per ubbie umorali, perché non si sia sentito capito, ma dimostrando, se del caso, che il lettore è andato fuori strada. Per chi non avrà fretta di tornare a casa ci sarà un brindisi magari coerente con la narrazione del libro. Credo che inizialmente aderiranno in pochi, disposti però a non essere passivi fruitori, quel “pubblico”, appunto, che nei contesti abituali è libero al massimo di esprimere ciò che ha “sentito” leggendo il libro. Una cosa un po’ più complicata, più simile a un seminario che a un incontro, ma che voglio sperimentare, fiducioso nelle capacità dei lettori.
GP: Questa fiducia ti viene probabilmente da una grande passione per il tuo mestiere. Ci sarà in noi un po’ di insano idealismo. Magari chi entra in libreria o va ad assistere a una presentazione vuole effettivamente comprare un libro o ascoltare un autore di successo. E avere la firma sul libro (o un selfie).
GD: Ti confesso che ho fatto un po’ di fatica a depurare la mia mente dagli stereotipi che sono usati nell’apprendistato del mio mestiere. Oggi, per esempio, sono immune dal pensare che l’obiettivo principale da perseguire sia quello di “fidelizzare” colui che entra in libreria. Alle tecniche per fidelizzare ho sostituito la pratica dell’accogliere. Non vedo in chi entra in libreria un “cliente”, ma un “lettore”, debole o forte che sia. Voler fidelizzare il cliente significa “pesare” chi entra in libreria e valutarlo in base alla sua capacità di spesa. La mia pratica invece parte dal relazionarmi a chi entra in libreria come a una persona che legge e alla quale devo fornire un servizio “di qualità”, come consulente librario prima che venditore di libri. Liberarmi, nel mio piccolo, dai dogmi del marketing per permettere un incontro. A volte, nel dialogo con il lettore, questo si traduce anche nell’insistere affinché non acquisti i tre libri che ha portato alla cassa, bensì uno solo, argomentando in maniera persuasiva che lo faccio nel suo interesse di lettore. Paradosso che si può comprendere se vogliamo considerare il libro non come una merce, ma un prodotto diverso dagli altri, per le maggiori valenze che può avere nella vita di chi lo acquista.
GP: Non potrebbe trovarmi più d’accordo, quest’affermazione, perché ho sempre considerato respingente l’idea del libro-merce qualunque, che purtroppo è quella egemone come è egemone l’editoria, con tutti i suoi apparati, rispetto a una concezione della letteratura che abbia più a che fare col valore estetico che col fatturato, e dunque più con la critica che con il marketing. È un tema fisso delle cose che scrivo sui giornali ma ovviamente faccio la figura del giapponese che non crede a una guerra oramai finita. Dalla tua ottica cos’è cambiato rispetto a quando hai cominciato e, a proposito, come hai deciso che fosse questo il tuo mestiere, quando sei passato dallo scegliere i libri per te al consigliarli agli altri o guidare gli altri nella lettura come farai nel tuo nuovo esperimento?
GD: Fu quella notte di luglio 2007, a casa di un’amica, Paola, dove con altre amiche, Cristina e Carla, ci rifugiammo dopo la riunione dell’Associazione Fiorella Ghilardotti per tirar tardi chiacchierando. Carla disse: «Sapete che a settembre chiuderà la Libreria Popolare?». A quella libreria eravamo tutti legati, io per una frequentazione importante, sebbene remota, da amico dei librai e da lettore attivo nel sociale assieme a loro. Erano anni che l’avevo persa di vista, per vicende che mi avevano portato lontano da Milano. Ma quella sera reagii alla notizia dichiarando che non si poteva non fare qualcosa. Mai mi punse vaghezza di voler fare il libraio, neppure in quel momento: sono sempre stato bene nel mio ruolo di lettore, frequentatore di librerie, bancarelle ed edicole. A volte, però, non si è padroni del proprio destino. Fu così che mi feci presentare ai proprietari, convincendoli intanto a rinviare la chiusura e poi a valutare se ci fossero strade per rimetterla in sesto. Presentai le mie conclusioni e suggerimenti, ma mi resi conto che i proprietari (ovvero un sindacato – la storia dei primi 35 anni della libreria, ancorché significativa, sarebbe troppo lunga da raccontare) non avevano nessuna intenzione di fare qualcosa per non chiudere. Fu allora, nel luglio del 2008, che spinto dal mio demone proposi di rilevarla per fare ciò che credevo fosse necessario, con un forte senso di dovere verso la sua storia, perché non venisse chiusa. Così cambiai vita e divenni apprendista libraio, status dal quale non credo di essermi ancora emancipato. In questi anni molto è cambiato, nell’editoria e nel mondo delle librerie e anch’io potrei sembrare il giapponese nella giungla, ostile ai cambiamenti e incapace di adeguarmi a questi, ma non è così. I cambiamenti li ho visti e previsti; assieme ad altri colleghi ho eretto qualche barriera che ci proteggesse come librai indipendenti a Milano, ma l’oligarchia editoriale si dimostra sempre più forte e ci fa capire che sempre meno ha bisogno di librerie fisiche, a maggior ragione se indipendenti: servono vetrine come investimento pubblicitario verso i passanti, piccoli magazzini decentrati, commessi, e terminali per lo spaccio di libri. Io cerco, temo velleitariamente per mancanza di capitali, di mantenere viva la tradizionale funzione della libreria piena di libri e non di gadget, perché penso che ciò serva ai lettori e che fare di una libreria un punto di incontro vero tra autori e lettori corrisponda a un bisogno reale, seppur nascosto dalla narrazione prevalente a base di classifiche, ricette di marketing, spettacolarizzazione della lettura (a quando un reality con lettori a combattere per il miglior libro da portare in un’isola deserta?), finta convivialità nella formula aperitivo+ libro in un locale di tendenza, ristoranti camuffati da librerie, eccetera.
GP: Prima dicevi che tutto sommato sei rimasto un lettore e questo vale naturalmente anche per chi scrive. Ma dopo l’esperienza da libraio, è cambiato anche il tuo rapporto con la lettura? Per dirla in modo un po’ pop, tu che lettore sei?
GD: Sono sicuramente un lettore onnivoro, spinto non da una qual sorta di feticismo per il libro ma da una forte curiosità e da una certa capacità acquisita nel tempo di “gustare”, “assaporare” il testo che leggo e di collegare le diverse letture che faccio in scenari che le accostino o le richiamino a vicenda. Il testo, narrativo o poetico, che gusto di più è quello che mi sorprende per il sapore e l’intelligenza della scrittura, prima ancora che per ciò che racconta; per la capacità dell’autore di scegliere parole e costruire periodi e paragrafi originali, riconoscibili e distinti da quelli altrui, altrettanto belli (i pastrocchi insulsi li lascio perdere). Ciò significa che per me riesco a leggere poco, mentre per mestiere devo leggere e il più delle volte scorrere le pagine di molti libri per farmi un’idea, per raccogliere informazioni, lettura superficiale ma indispensabile: non sono un critico o un recensore. Ultimamente mi ritrovo a leggere per me più saggistica (anche accademica), spesso per ozio, come una sorte di cruciverba più evoluto: ad esempio sto leggendo un po’ alla volta uno studio di Diego Salvadori, Il giardino riflesso. L’erbario di Luigi Meneghello, non perché io creda che mi possa aiutare nella rilettura di Meneghello (sarebbe come indurmi a rileggere ogni pagina come se fosse piena di rimandi in pedice da non saltare assolutamente, impedendomi l’immersione libera nel testo, anche inconsapevole, ma che dà piacere). Lo leggo per il piacere di vedere un esercizio di intelligenza, l’acribia del filologo, il funambolismo degli accostamenti e così via, tutte cose che, come quando finisco un cruciverba, non mi serviranno a nulla, perché quel che conta è l’esercizio mentale che ho fatto per seguire e magari anche capire ciò che il testo racconta; sono testi che leggo, appunto, nei momenti di ozio. C’è poi un’altra saggistica che mi interessa, perché tratta di problemi che per qualche motivo mi colpiscono o coinvolgono e che mi stimolano ad andare oltre alla lettura del testo, per fare qualcosa in libreria, per la precisione. Avendo la fortuna di non essere un critico né un poeta ma semplicemente un portinaio (Giano è il mio emblema) che può offrire ai poeti uno spazio per presentarsi, molti di loro li incontro di persona. Allora, ciò che faccio è badare prima a questa umanità poetante, persona per persona, come se ognuno fosse l’unico poeta mai incontrato. Mi interessano anzitutto le persone, ma iniziata la lettura, la persona scompare e vale quanto dicevo sul piacere che provo o non provo a leggere, e allora come lettore qualsiasi divento arbitrariamente giudice: questo testo sì, questo no…ma sono giudizi inoffensivi: a chi gliene cale dei pensieri di un portinaio? Scrittori e poeti, in anni giovanili, li ho incontrati sulle bancarelle dell’usato, nelle città che mi capitava di visitare. A scuola nessuno mi aveva parlato di Tozzi o di Penna, ma i loro libriccini ammaccati mi sono venuti incontro, emergendo da mucchi di altri e facendomi scoprire cos’è vera letteratura e vera poesia.
GP: Quindi c’è anche una componente aleatoria, si diventa lettori “forti” come si dice oggi anche un po’ per caso, o trascinati da qualcuno che abbia contratto la malattia prima di noi…
GD: Come in geologia c’è, credo in ogni lettore, una placca tettonica di primissime letture, su cui poi si sono stratificate ere geologiche con sedimenti di quelle successive, puntellate da libri che hanno modificato il paesaggio interiore grazie a fatti casuali come eruzioni, sciami tellurici, erosioni e fenomeni carsici, o a una consapevole ricerca di minerali e fossili per comprendere meglio ciò che ci si apriva davanti agli occhi, in una biblioteca, ad esempio o nell’appendice bibliografica di un testo appena letto o nei rimandi di una recensione. Fu Cuore il primo testo ricevuto in dono, verso la fine della prima elementare, in sintonia con i sentimenti risorgimentali e nazionali della comunità esule a cui appartenevo. Ma il libro più importante, quello che mi ha dato la viva sensazione di non essere più solo un fruitore di libri per bambini e ragazzi in edizioni ridotte, e di essere invece diventato, come lettore, adulto, fu Che ve ne sembra dell’America di William Saroyan, in edizione integrale nella benemerita e da poco inaugurata collana degli Oscar Mondadori, gli unici libri a cui potevo aspirare per ragioni economiche e di cui avevo fatto provvista. Mi sentivo come poté sentirsi il viandante di Caspar David Friedrich.
GP: «Comperare una libreria lo si può fare per amore dei libri, per amore della libraia o per amore di una libreria, come ho fatto io», pare tu abbia detto. Qualche volta dell’amore ci si pente: a te è capitato?
GD: No, non mi sono mai pentito di un amore. Gli amori possono essere diversi (ce l’hanno insegnato i greci) in relazione all’oggetto e avere tempi e modalità differenti. Tra i millanta libri che ne hanno parlato, i Frammenti di un discorso amoroso di un tale Roland Barthes. Amori diversi, che declinano la nostra ampia gamma di esperienze, sono quelli che cito da un articolo di Valeria Meazza sul sito “Ultima voce”: póthos, eros, cháris, agápe, pragma, philía, thélema e persino mania, l’amore tossico. Se ne siamo capaci, gli amori che attraversiamo vivendo, anche quelli passati, non scompaiono nei flutti della vita; sono compresenti a quelli attuali e ci fanno sentire vivi, offrendoci un orizzonte di senso, per quanto sempre mutabile e irraggiungibile come ogni orizzonte. Dunque non sono pentito nemmeno dell’amore per questa libreria, oggi un po’ pragma (” l’amore che resiste, anche quando apparentemente non ha senso che resista”), un po’ thélema (“l’amore per il proprio mestiere, per il lavoro ben fatto”), amore che rinnovo ogni giorno quando la apro al pubblico.
Interessante e bello questo dialogo. Pieno di spunti da approfondire sulla lettura, il piacere di leggere, la grande differenza con lo scrivere. Rimpiango di non abitare a Milano o nelle vicinanze.
Chissà se con le nuove tecnologie non si possa provare a fare partecipare con collegamento “ a distanza “.
Lo spero vivamente, vi invidio e vi saluto affettuosamente, dalle terre del Lambrusco.
Che, come dice Camillo Langone, è l’unico che puoi bere sempre. Con qualsiasi piatto e in ogni occasione.
Un abbraccio,
Antonio Venturelli