di Alberto Casadei
1. Il tempo materiale di Giorgio Vasta (2008)[1] presenta almeno tre livelli di lettura. Il primo è quello della storia ambientata a Palermo nel 1978. Il protagonista è Nimbo, un undicenne noto solo attraverso questo senhal, che allude alla sua natura angelico-profetica (nimbato, si legge, è “la parola che indica il santo aureolato” e quindi il nembo che sembra avvolgere questo personaggio segnalerebbe la sua “naturale sovrannaturale circonfusione”: cfr. p. 13). Assieme a lui agiscono due compagni di classe, Volo e Raggio, oltre a molti altri personaggi, di cui si dirà. Il secondo livello è quello del lavoro linguistico e metalinguistico: non solo Vasta è dotato di uno stile forte, ma l’uso del linguaggio, anzi addirittura la creazione di linguaggi sono continuamente presenti e tematizzati nel racconto. Il terzo livello è quello della lettura meta-fisica della vicenda, che in effetti comincia solo dopo una pagina di premessa, in cui si elencano elementi naturali (“C’è il cielo. C’è l’acqua, ci sono le radici…”), ma anche sociali e culturali, per concludere “Ci sono i nomi. / Ci sono io” (cfr. p. 5), ottenendo una sorta di breve ‘anti-Genesi’, comunque un discorso non incardinato nella realtà consueta. A esso corrisponderanno nel testo numerosi riferimenti biblici, e addirittura dialoghi di tipo fantastico-soprannaturale con animali ed altre entità non umane.
Come si comprende da questa prima diagnostica, Il tempo materiale non è un libro sul terrorismo[2], benché l’azione sia collocata nell’anno dell’omicidio di Aldo Moro: ma, si potrebbe aggiungere, ancor prima è quello degli scontri fra estremisti di destra e sinistra ad Acca Larentia, che infatti vengono ricordati proprio in avvio (pp. 10 s.). Un anno, il 1978, in effetti potente nella formazione di molti giovani dell’epoca, però non tale da spingere davvero tre preadolescenti palermitani a immaginare piccoli attentati, poi addirittura un rapimento con assassinio finale di un compagno di classe mentalmente disagiato, Morana (evidente la consonanza onomastica con il leader DC); d’altra parte Vasta ‘in carne e ossa’ aveva appena otto anni, quindi di sicuro colse appena vaghi echi di quanto stava accadendo. In realtà Nimbo, Raggio e Volo, il ‘capo’ e l’‘ideologo’ del gruppetto denominatosi Nucleo Osceno Italiano (NOI), rappresentano la categoria dei giovani che stavano arrivando all’età adulta quando ormai i giochi sembravano fatti: negli anni Ottanta si cominciava a vivere sulla base di quanto era stato impostato da altri, a partire dal 1945, e la consueta ribellione sembrava attuarsi solo ed esclusivamente nel presente. Come ha dichiarato altrove lo stesso Vasta (cfr. n. 7), la sua generazione ha dovuto interpretare solo il proprio tempo adulto, senza un passato da difendere e senza una chiara prospettiva per il futuro. Il momento in cui, con ostinazione e con velleità, un (pre)adolescente avrebbe potuto scegliere di agire era prima, per esempio il mirabile e orribile 1978. Ma a Palermo, in quell’anno, di certo non sono vissuti tre undicenni capaci di analisi e di azioni analoghe a quelle delle BR.
È chiaro quindi che il ‘realismo’ di questo romanzo, così minuzioso in tante descrizioni, p.e. nella topografia e nella toponomastica di Palermo (per ora uno sfondo indispensabile, come si vedrà meglio), vira di continuo verso il metaforico e l’allegorico (ma senza costruire una semplice allegoria), sulla base delle condizioni essenziali messe a fuoco da Nimbo o da altri. I nomi attribuiti ai genitori, lo Spago-madre e la Pietra-padre, e al fratello, il Cotone, corrispondono in effetti a un loro carattere fondamentale, che emerge più che altro dalle azioni concrete[3], specie nel caso di quello più presente in momenti importanti delle vicende, lo Spago. E cosa fa questa madre che è sottile, adattabile, magari stringente come appunto uno spago? Innanzitutto, va con Nimbo, nel primo capitolo a lui dedicato (datato 8 gennaio 1978), per portare una modesta razione di cibo a “gatti divorati dalla rinotracheite e dalla rogna” (p. 7): osservando quello più malandato, lo “storpio naturale”, Nimbo si rende conto dell’ineliminabile negatività della biologia, se ridotta alla mera lotta per la sopravvivenza, e questo implicito insegnamento verrà messo alla prova più volte nel romanzo.
Inoltre, lo Spago legge ai suoi figli, solo “per abitudine”, una Bibbia illustrata, dalla quale Nimbo comincia a ricavare una tendenza a superare il reale, a intenderlo in una prospettiva profetica (Giona e Ezechiele sono fra i suoi eroi), insomma a trascendere quella brutalità della materia vivente già esperita. E qui interviene un’altra componente che il protagonista mette subito a fuoco, la sua creatività “mitopoietica”, come gli viene detto da una maestra delle scuole elementari (cfr. p. 14): questa dimensione, la ri-configurazione del ‘reale’ attraverso il linguaggio e in particolare un uso acuto ed eletto delle parole, sarà propria di Nimbo, che peraltro in varie circostanze tenterà di applicare alla realtà suoi propri idioletti, alla lunga insufficienti per capirsi con gli altri esseri umani, a cominciare dai familiari, e soprattutto per raggiungere un’effettiva connessione tra sfera dell’interiorità e sfera del mondo nei suoi aspetti concreti.
2. Nimbo manifesta a più riprese un atteggiamento di disprezzo e condanna verso la società italiana, in particolare a causa dell’ironia corrosiva che impedisce di affrontare qualunque questione davvero importante, compreso il destino dei giovani e giovanissimi. E dei morti, a cominciare da quelli del terrorismo, come si deve parlare? Come fanno le BR nei loro comunicati, ossia con una lingua astratta, inflessibile, circostanziata, che sembra afferrare la struttura soggiacente alle azioni umane ma, alla prova dei fatti, risulta inadeguata e in pratica fuorviante? Il problema che si pone Nimbo, e poi ancor più di lui Volo, è quello di far corrispondere le azioni dei singoli a un’interpretazione generale della realtà: ecco allora le ipotesi su cosa progettare, su come organizzare azioni dimostrative, piccoli attentati, poi addirittura il rapimento del coetaneo più debole della classe, il Morana che è forse innocente per natura, e di sicuro non può diventare un capro espiatorio bensì solo una vittima di una logica spersonalizzante, attiva in tutti gli esseri umani capaci di ragionamenti utilitaristici[4]. Il rapporto a distanza con l’azione delle BR, e in specie con quanto è accaduto durante la prigionia di Aldo Moro sino al suo assassinio (del quale si dice pochissimo), serve al trio di aspiranti terroristi per vagliare la loro capacità di aggrapparsi a una dimensione che possa essere definita ‘realtà’: più che per le conseguenze dell’azione brigatista (che certo non viene giustificata), alla fine non ci riescono perché nelle loro ipotesi sul reale mancavano alcuni aspetti umanamente decisivi, dei quali soltanto Nimbo riesce a farsi carico davvero.
È comunque notevole che una delle iniziative più singolari dei tre undicenni sia quella di dotarsi di un codice linguistico privato, l’“alfamuto”, costituito da ventuno posizioni corporee, détournements di altrettante entrate in voga grazie alla cultura popolare, per esempio la postura quasi ‘a falco’ con cui Adriano Celentano si presentava nella copertina del suo “Yuppi Du” (1975). Il riuso di frammenti dei ‘miti d’oggi’ per creare un codice in grado di collegare i tre piccoli terroristi è ancora una volta emblematico: pure la sfera semiotica creata dalla cultura di massa, e pervasiva nell’immaginario e nelle menti di chiunque viva, poniamo, nella Palermo del 1978, potrebbe essere sconvolta dall’interno, se le si riuscisse ad attribuire una funzione diversa, per compiere distruzioni nell’ambito della società codificata con regole non volute dai giovani. A livello pratico, l’alfamuto, che dovrebbe consentire di controllare le troppe variabili del linguaggio comune (cfr. p. 193), elimina tutte le sfumature dei discorsi liberi e parlati, ossia rivolti ad altri con le parole orali o scritte, e si rivela inadatto a rappresentare davvero ciò che i tre compagni di classe avevano in mente di dire. D’altra parte, nel primo comunicato che Nimbo scrive ‘alla maniera dei brigatisti’ per rivendicare un’azione dimostrativa compiuta a scuola, la citazione conclusiva di una frase comica di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello (“Beato chi ci crede, noi no non ci crediamo”, dalla sigla dello spettacolo serale Noi… no!, del 1977-1978) non risulta affatto minacciosa e spia degli intenti del “Nucleo Osceno Italiano”, che sarebbe, appunto, il nuovo “noi”, anzi viene letta da tutti come una smentita comico-farsesca di quanto affermato prima, proprio il contrario di quanto si auspicava.
Nimbo, Volo e Raggio sono insomma piccole parodie viventi, credibili solo per gli aspetti del ‘realismo ristretto’ che li contraddistinguono, ma per niente in quanto personaggi che davvero abbiano portato il terrorismo brigatista nella società palermitana del 1978. A contrappunto, si colloca più volte l’azione di Nimbo, che mantiene codici suoi personali di lettura del mondo, per esempio attraverso il “corsivo” (cfr. p. 17) rappresentato dal filo spinato, sia nel suo valore d’uso, a dividere zone di diverse proprietà magari là dove ci dovrebbero essere distese illimitate di campi, sia nel suo reimpiego simbolico, per saggiare la resistenza delle cose o per unire destini lontani. Grazie al riuso ‘linguistico’ di pezzetti di filo spinato Nimbo cerca di entrare in contatto con Wimbow, la “bambina creola” e muta che lo affascina ma con la quale non sa come entrare in contatto. Per tutto il testo, lei rimane avvolta dal mistero nel suo cappotto rosso (un segno congiuntivo con la Beatrice novenne della Vita nova, il personaggio fiabesco di Cappuccetto e la bambina ebrea di Schindler’s list?), e Nimbo non sembra in grado di entrare nel suo mondo, almeno sino a quando il trio terroristico non decide che l’ultima azione dovrà essere il suo rapimento, da compiere mediante un inganno ordito in occasione del compleanno dello stesso Nimbo, il 21 dicembre.
3. Giungiamo così all’ultimo capitolo, quando ormai la lotta si esaurisce, perché il protagonista sceglie di inviare una lettera alla polizia per denunciare quanto compiuto (compreso l’assassinio di Morana), e presto Volo potrà dichiararsi “prigioniero politico”, per corroborare la sua ortodossia, mentre Nimbo si vorrebbe dichiarare “prigioniero mitopoietico” (cfr. p. 300). La formula non è in questo caso una parodia della precedente, ma indica un effettivo cambio di prospettiva: il preadolescente che pensava di essere un eletto, dalle facoltà profetiche esercitate attraverso la sua inventività linguistica, in effetti è rimasto prigioniero del suo stesso mito, introverso al punto da non avere parole adeguate per entrare in contatto con Wimbow, che ama senza riuscire a dichiararlo. L’analisi della condizione ‘reale’, separata da quella dell’interiorità con le sue tante sfaccettature, ha condotto a un primo distanziamento ideologico, e poi a un secondo linguistico: eppure, la bambina creola si è sforzata di avvicinarsi a Nimbo, portandogli un pezzo di filo spinato bianco e ripulito, da affiancare al suo arrugginito per formare un’unione (come in una torta nuziale: cfr. pp. 304 s.), e insomma ha capito il linguaggio del suo amico, prima di rendersi conto che è proprio lui che la vorrebbe ingannare se non rapire.
Ma sospendiamo per ora l’analisi della chiusa del Tempo materiale, che riprenderemo più avanti, e approfondiamo intanto l’ulteriore livello testuale, quello fantastico-soprannaturale. È questo aspetto che indica con maggior evidenza la componente in senso lato weird, secondo le categorie proposte da Mark Fischer. L’incontro iniziale con la biologia più depressa, con il male naturale leopardiano, giustifica la ribellione di Nimbo, che si concentra sullo stato delle cose nel suo habitat e nell’Italia rappresentata in mezzo a una tempesta che poteva stravolgerla: ma più in profondità questo autoproclamato profeta vorrebbe comprendere il senso dell’intera avventura degli esseri umani, e più di una volta instaura dialoghi tra l’onirico e il visionario con altri personaggi, specialmente animali come il gatto nato storpio, una zanzara che aveva punto anche Wimbow, ecc. Qui si coglie una componente importante del romanzo. Tra i modelli, si possono citare facilmente i testi in cui la ribellione o l’azione ‘fuori degli schemi’ dei preadolescenti determinano conseguenze forti, dal Vigo di Zéro de conduite (1933) al Truffaut di 400 coups (1959) e altri film, e forse ancor più a Jeux interdits di René Clément (1952). Tuttavia emerge pure un’aggressività più dirompente, violenta e ancestrale (peraltro dovuta a un ritorno allo ‘stato ferino di natura’), come nelle varie versioni di The Lord of the flies (1954) di William Golding.
Soprattutto, la mitopoiesi di matrice biblico-visionaria porta Vasta a dotare il suo testo di una componente più tipica della letteratura e della cinematografia ‘psichedelica’, da Burroughs a Cronenberg a Lynch ecc.: in queste parti, la metamorfosi del reale e il dialogo allucinato con entità non umane sono costanti. Questa dimensione rende instabile ogni altro tentativo di cattura del reale compiuto nel libro, perché di fatto solo in questi spazi di rivelazione profonda, tra conscio e inconscio, tra biologico e metafisico, si coglie un barlume di senso riguardo all’intera azione. Lo straniamento evidente rispetto al ‘realismo ristretto’ (questo non è un romanzo sul 1978, ma un romanzo che prende il 1978 come base metaforica) diventa adesso weird perché si comprende che il linguaggio stesso, mitopoietico sin che si vuole, però non basta a raggiungere la hyle, la condizione primordiale che agisce negli inconsci e poi, per pulsioni o per patologie, sconvolge persino le difese più raffinate che siano state costruite a scopi di controllo. In sintesi: il real-fittizio nel Tempo materiale non è solo una strategia narrativa ma dipende dal fatto che la realtà è in sé weird, indecidibile, anatra-lepre (come nella famosa immagine in sé doppia). Questa realtà è la vera ‘balena bianca’ da perseguire[5].
4. Dopo la lunga serie di diversioni e appressamenti, condotti nei vari ambiti sin qui notati, il romanzo giunge a una sua stretta nel capitolo conclusivo, Lander (21 dicembre 1978), di cui abbiamo cominciato a ricordare un punto essenziale, il tentativo frustrato di avvicinamento fra Nimbo e Wimbow. Adesso bisogna sottolineare che il “lander” di cui si parla è reale: si tratta di Venera, mandato dall’Unione sovietica appunto su Venere e sopravvissuto, in quell’atmosfera corrosiva, neanche due ore: però arrivato comunque, in un anno dalle “tredici lune”, a garantire una prospettiva ‘altra’ sulla terra. E da lì infatti guardano tutti i personaggi coinvolti, i più realistici e i più fantasmatici, che adesso sembrano costituire la reificazione dell’immaginario di Nimbo, il quale afferma perentorio: “Io ne ho bisogno. / Per finire” (p. 294). In altri termini, le azioni successive sono guardate da tutti coloro che il protagonista aveva tenuto a distanza o che erano entrati in dialogo solo con la sua psiche a livello onirico, ma che invece esistono e in qualche misura sono coinvolti, come osservatori (però si sa quanto gli osservatori siano fondamentali in un universo quantistico), in questa sorta di epilogo della vicenda.
Notiamo allora che questo è il tredicesimo capitolo del romanzo, e che nel film di Rainer Werner Fassbinder In einem Jahr mit 13 Monden, del 1978, si fa per l’appunto un elenco dei possibili effetti del raro fenomeno negli anni in cui avviene, specie quando si combina con un “anno della luna” come in questo caso: uno dei più evidenti è quello di favorire gli omicidi e i suicidi a causa dell’aumento di depressioni e patologie psichiche. Si potrebbe allora cogliere un ulteriore aspetto della costruzione del Tempo materiale: si è trattato di un anno in cui la realtà poteva essere rivisitata da una psiche non equilibrata, e in qualche modo l’azione, che sembrava il frutto di ragionamenti astratti e lucidi, era forse legata a uno stravolgimento dei cicli astronomici e biologico-umani. Ora, in questo capitolo dal numero che travalica quello consueto dei mesi, come in un riepilogo da finale del Settimo sigillo si riaffacciano i personaggi con cui Nimbo ha costruito la sua realtà, che ora deve implodere per poter uscire dai vincoli ferrei che la stringono[6].
Siamo quindi a un effettivo ‘scioglimento’ aristotelico del racconto. Intanto, la madre-Spago, del tutto involontariamente, rende consapevole Nimbo dei trucchi del linguaggio, perché gli chiede di passarle del “panìco” adatto a un canarino, mentre il ragazzino conosceva soltanto il suo “pànico”: un cambio di accento e il mondo diventa altro. Ma quando poi proverà a spiegarlo a Wimbow, che ha paura di essere imprigionata nella stanza della festa di compleanno fasulla, l’effetto sarà minimo, come quello dell’accostamento di fili spinati (cfr. pp. 307-309). A questo punto, Nimbo deve abbandonare le sue pretese di profetismo visionario, accettando che il tempo e lo spazio, ossia i princìpi della realtà umana consueta, si trasformino per accogliere la vita sua insieme a Wimbow: il sogno visionario diventa adesso una semplice fantasticheria sugli anni a venire, addirittura in una prospettiva di lunga durata biologica (cfr. pp. 306-307).
Addirittura l’intera opera si potrebbe riassumere come un lungo tentativo di entrare in sintonia con un tempo ‘altro’, quello “materiale”, che non è tanto l’aggettivo di sintagma burocratico-lavorativo, bensì quello derivato dalla ‘materia del vivere’. In questo tempo, la biologia sarebbe comprensibile in modo diretto e al di fuori delle parole, che non bastano a causa della loro natura da piccoli insetti: “Cosa ne è stato del tempo profondo che avevo immaginato, il tempo morbido, liquido, il tempo materiale [unica occorrenza nel testo] che mi avrebbe dissetato? Perché al suo posto ci sono le parole, migliaia di frasi, questa ordinata strage di insetti? Perché ancora balena il linguaggio quando vorrei solo entrare nel silenzio, nel tuo [di Wimbow] silenzio, e piangere, smettere di sentirne solo il bisogno e piangere?” (p. 306).
La postura dell’adolescente che voleva amare, e invece sfornava parole adatte a mitizzare ogni aspetto della realtà, diventa adesso quella della debolezza: Wimbow, dopo aver superato la paura di un’aggressione, aiuta Nimbo a svestirsi dei suoi stessi travestimenti per “creare e allevare” (lei “creola”) un silenzio generativo, così come due ormai adolescenti potrebbero creare nuova vita. Il tema della continuazione dell’esistenza, persino nella morsa di una biologia malvagia come quella percepita sin dalle prime pagine, è l’ultimo a emergere nel romanzo, e giustifica sia l’ipotesi d’amore che sembra realizzarsi, sia il pianto che finalmente rivela un’interiorità perturbata al posto delle sole parole-diaframma (cfr. pp. 309-311). È a questo punto che l’intera ‘storia nera’ si placa e si potrà aprire una nuova fase, forse una visione del mondo straniata in altri modi.
In effetti Vasta non ha poi proseguito sulla via qui descritta e ha invece proposto racconti e saggi o interviste con alto grado di narratività a sfondo autobiografico, proponendo le sue analisi del presente e della cultura pienamente mass-mediatica: è indubbio che molte delle sue riflessioni si possano considerare politiche nel senso più ampio del termine, e spesso riguardano proprio l’evoluzione socio-culturale della sua Palermo[7]. Comunque, al di là delle prossime tappe strettamente narrative che si annunciano, resta vero che Il tempo materiale configura una visione weird della realtà perché appunto l’ha rappresentata, a livello storico e meta-storico, nella sua natura mutevole e anamorfica, se si va oltre le mere azioni esteriori di un preadolescente mitopoietico.
Note
[1] Si cita dall’edizione originale, Roma, Minimum Fax, 2008. La bibliografia su Vasta comprende già numerosi contributi, fra i quali si segnalano almeno le recensioni e i saggi di Raffaele Donnarumma (https://www.allegoriaonline.it/300-giorgio-vasta-qil-tempo-materialeq), Romano Luperini (in “L’immaginazione”, 257, dic. 2010), e di Giacomo Raccis (https://www. La balenabianca.com/2013/11/15/appunti-per-uno-studio-del-tempo-materiale1/ -2). Per un inquadramento più generale, si veda L. Marchese, Autenticità, in “Narrativa”, 41, 2019, pp. 91-104. Sul libro Giorgio Vasta è tornato, in dialogo con Enzo Mansueto, nel volume AdolescenceS, a cura di Marie Thérèse Jacquet, Macerata, Quodlibet, 2021, pp. 147-162. Una bibliografia completa e ulteriori analisi saranno proposte nella tesi di dottorato di Alessandro Cenzi, in corso di preparazione presso l’Università di Palermo, del quale si veda intanto Under the surface. Archaeology of memory and renovation of meanings in Giorgio Vasta’s “Il tempo materiale”, in In my end is my beginning, a cura di A. Benedetti et al., Venezia, Ed. Un. Ca’ Foscari, 2024, pp. 159-173.
[2] Sul tema, si veda in particolare Gabriele Vitello, Gli “anni di piombo” nella narrativa italiana del nuovo millennio: “Il tempo materiale” di Giorgio Vasta, in Negli archivi e per le strade, a cura di Luca Somigli, Roma, Aracne, 2010, pp. 317-329, dove si sottolinea la natura di “testo palinsestico e allusivo” del primo romanzo di Vasta (e si propongono confronti anche con il successivo Spaesamento).
[3] Non possiamo qui seguire tutte le implicazioni delle microstorie, ma anche Pietra e Cotone, meno presenti, sono poi posti in primo piano in alcuni snodi: per esempio, l’aborto spontaneo di Spago ha segnato profondamente Cotone, che elabora il lutto attraverso mediazioni ‘immaginose’, come un panino-feto che, pur imputridito, va mangiato, quasi ritualmente, e per una volta lo fanno assieme i due fratelli (cfr. p. 163).
[4] In effetti l’assassinio di Morana serve a dimostrare ai tre la “nostra capacità di compiere il male” e che “noi sappiamo uccidere” (cfr. pp. 250 e 257). Come è già stato notato, non si può definire Morana un capro espiatorio alla Girard; semmai, si condensa in lui l’‘ottusità della materia umana’, la sua assenza pur nella presenza, che non viene accettata in un progetto ideologico-utopico. Per altre considerazioni e bibliografia, si veda il contributo di Simone Giorgio in https://www.centropens.eu/archivio/item/15-la-lingua-e-la-colpa-il-tempo-materiale-di-giorgio-vasta.
[5] Su questi aspetti Vasta è intervenuto a più riprese, e in particolare in Il gioco dell’ota, in “Linus”, 10 ottobre 2018, pp. 23-40, un “microbestiario dell’incertezza” riguardo alla realtà, che spinge lo scrittore a cercare sempre l’elemento ambiguo e incongruo dentro l’aspetto esteriore ben conformato.
[6] Il film di Fassbinder offre probabilmente altri spunti significativi soprattutto per le scene iniziali e finali (anche qui, con l’arrivo di quasi tutti i personaggi coinvolti), ma pure per alcuni dialoghi ‘sulle cose ultime’ della protagonista Elvira/Elwin, in particolare con un aspirante suicida per impiccagione.
[7] A commento della situazione personale e generazionale effettiva, all’epoca della scrittura del Tempo materiale, si veda l’intervento di Vasta su “La Repubblica” del 10 giugno 2009 (disponibile anche negli archivi online del quotidiano), in cui si legge: “Attraversando gli anni Settanta Ottanta e Novanta, siamo cresciuti nella percezione non semplicemente della fine del nostro presente quanto del presente come fine, obiettivo e conclusione, il tempo nel quale tutto si genera e contro cui tutto si arresta. Diversamente da quanto è accaduto agli scrittori del dopoguerra, quando la meditazione sul presente si connetteva in maniera imprescindibile a quella sul passato e a un impulso verso il futuro, la coscienza acuta del presente ha determinato in noi un’incapacità prospettica. Scorniciati dalla storia, in caduta libera dentro un tempo immobile, abbiamo dovuto trasformare il limite in vantaggio, l’incapacità in risorsa, facendo della nostra esitazione – intesa come il modo in cui si reagisce all´incertezza – la prospettiva dalla quale osservare il mondo”. Lo sguardo analitico-esitante diventa quello su vari caratteri della società italiana e non solo p.e. in Spaesamento (Roma-Bari, Laterza, 2010) e in altre opere successive. Ma più in generale, e nell’intento di superare la distinzione sfondo-personaggio, si veda Palermo. Un’autobiografia nella luce, con le foto di Ramak Fazel, Milano, Humboldt, 2022, dove la prospettiva del ‘vedersi vedersi’ diventa dominante. Sul piano della rinnovata riflessione sui linguaggi, compreso dello storico sindaco Leoluca Orlando, si veda Michele Perriera-Giorgio Vasta, Come in sogno. Il racconto di Palermo, a cura di Marco Marino, Palermo, Glifo edizioni, 2023, specie pp. 207-217.