di Daniele Poccia
La successione di episodi micro e macro-politici che definisce l’attuale frangente storico, tanto a livello globale che locale, è fondata su un disastroso equivoco tecnocratico. Non è mai esistito uno scenario mondiale, in cui ogni evento comunica potenzialmente con ogni altro. Non ha alcun senso credere che ciò che succede negli USA, o nella Repubblica Democratica del Congo, abbia per ciò stesso ricadute immediate e avvertibili in qualsiasi altra parte del Pianeta. Ammesso e non concesso che se ne possa parlare come qualcosa di unitario, anche la semiosfera digitale, in cui ha preso forma effettivamente un abbozzo di parlamento universale (per quanto caotico e sterile in termini decisionali), è sempre e soltanto un’eco chamber, una tra le tante.
È la centralità recente del paradigma computazionale ad aver sdoganato l’immagine – questa sì veramente inedita, quanto a precisione e pervasività – di un’esistenza umana permanentemente interconnessa, a un numero di livelli crescente. Da quando i nostri dati sono diventati la materia prima più ambita dalle infrastrutture del neoliberismo scatenato, l’interesse per il circostante percettivo, relazionale e comunitario ha cominciato infatti a scivolare sullo sfondo delle nostre preoccupazioni quotidiane, decretando in maniera più o meno avvertita il declino della partecipazione pubblica. Sono sempre di meno coloro che credono ancora nella capacità delle persone di costruire non solo un contro-potere, rispetto ai gruppi egemonici che sul piano internazionale controllano l’economia e la cultura, ma anche semplicemente le condizioni alle quali una vita collettiva, basata sull’incontro inter-corporeo e sullo scambio discorsivo, possa ridivenire possibile, per quanto aggiornandosi al complesso tecno-scientifico e mediatico contemporaneo.
In questo quadro, la diffusione delle psicopatologie nella loro ormai variegatissima fenomenologia (ne è testimonianza la proliferazione delle diagnosi che caratterizza l’ultima edizione del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders) assume la portata di un vero e proprio registro mutevole dei tempi. Se Jacques Lacan aveva potuto scrivere che “l’inconscio è il discorso dell’Altro”, intendendo dire con ciò che il disagio psichico è il risultato del processo trans-individuale interminabile e precario con il quale viene elaborato il confine tra informazione e rumore, oggi è necessario constatare come questo ‘discorso’ abbia preso una duplice piega, in cui l’Altro è al contempo un altro io e l’altro dell’io. Il soggetto contemporaneo è insomma dilaniato dall’istanza di una spersonalizzazione insinuante che va di pari con un esposizione sempre più grande alle spine del pensiero intrusivo e paranoico. Informata da un lato dalla vague apocalittica che nutre l’immaginario attuale, dall’altro dalla interiorizzazione di quell’immagine di compresenza almeno virtuale che è penetrata nel cuore di tutti, e che fa a botte in maniera sempre più catastrofica con l’inesistenza fattuale di una trama di rapporti reali tra i corpi delle persone, l’esperienza umana si è tramutata insomma in una sorta di continua sfida con la propria indeterminazione congenita, volta innanzitutto a ridefinire senza sosta il confine tra normalità e patologia, come tra sé e non-sé.
Alla vigilia della pandemia di Covid-19, nel 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva diramato infatti, insieme al suo World Mental Health Report, una serie di numeri circa l’epidemiologia dei disturbi psichiatrici. Con cifre da capogiro – 280 milioni di depressi, 40 milioni di bipolari, e 300 milioni di persone affette da una qualche variante del disturbo d’ansia (per menzionare soltanto i disturbi più tristemente noti) – è cominciata allora a diventare chiara una situazione che, per molti versi, fotografa gli effetti di una simile espulsione della politica dalla sensibilità umana del XXI secolo. La politica, infatti, si basa su una fiducia tutt’altro che scontata nel potere delle parole, e dunque della teoria, di trasformarsi in azioni, e dunque in prassi, così come sulla capacità correlativa di tradurre i fatti in interpretazioni, una fiducia che, a fronte del frazionamento a scopi commerciali che colpisce ogni genere di organizzazione umana, si è progressivamente tramutata in una sorta di accorata e reiterata ammissione di impotenza. La fiducia di senso opposto nell’interconnessione permanente in cui saremmo immersi senza eccezione sembra insomma aver avuto l’effetto contrario a quello sperato, soprattutto negli anni dell’entusiasmo per i presunti prodigi dell’intelligenza collettiva (gli anni ’90 del Novecento): la sensazione di essere vincolati a un processo avviato irreversibilmente verso l’auto-distruzione di specie è diventata in questo modo la Stimmung più diffusa della nostra epoca. Sembra allora che la saldatura sul piano sincronico delle coscienze non potesse non avere il suo necessario contraltare in una frattura interna alle coscienze stesse, condannate oramai alla contemplazione muta delle proprie difficoltà montanti di cooperazione diacronica. La vittoria politica schiacciante del capitalismo è stata insomma consustanziale a una prelazione dello spazio sul tempo, che ha avuto tra i suoi effetti collaterali la messa ai margini di tutte quelle realtà che avevano basato e che continuano a basare la loro agenda di rivendicazione sul dispositivo della rappresentanza, e dunque della vertenza, dipendente tutto sommato dalla struttura lineare che mette in relazione un dominante a un dominato, nel gioco del loro riconoscimento reciproco.
Alla fin fine, infatti, per animali che come gli esseri umani non sono capaci di separare una volta per tutte l’informazione dal rumore, a chi il mondo si presenta in forma di caos incipiente, e su due fronti, il fronte interno dell’«eccesso pulsioniale» e il fronte esterno di un «profluvio di stimoli» (Arnold Gehlen), per costoro si tratta sempre di ricominciare daccapo lo sforzo di ordinamento del mondo, e di farlo tuttavia senza dimenticare di averlo già fatto, serbando memoria dei tentativi passati, e allargando il novero dei beneficiari del processo in questione – una possibilità che appare attualmente sempre più difficile da praticare. La nostra epoca si presenta insomma più che mai come una seconda preistoria, in cui ci troviamo a riscrivere daccapo l’alfabeto delle nostre coordinate psico-emotive, ma senza più l’entusiasmo dell’esordio, senza la straordinaria inventiva mitologica e rituale degli inizi.
Una specie che si crede malata sul piano psichico, allora, si scopre malata, senza mezzi termini. Nel dominio dell’autocoscienza il pensiero è azione, infatti, la teoria è prassi, e non si può fare altro che diventare ciò che si crede di essere, anche cercando con tutte le proprie forze di non cedere a tale sommovimento clandestino. In questo caso più che mai, insomma, la profezia si autoavvera perché si auto-inficia, o si auto-inficia perché si autoavvera. La ‘politica’ rischia allora di assumere l’andatura, allo stesso tempo, di una deriva entropica senza speranza e di una manovra di distrazione che si confonde da sola.
L’inizio di un cambiamento socio-politico rilevante ha avuto spesso, d’altro canto, la forma di un esplosione improvvisa, che si declina poi in un secondo momento come ritorno all’ordine più o meno altrettanto repentino. La storia della Modernità, da questo punto di vista, è una lunga sequela di delusioni, coronate ogni volta da una fase di rituali nostalgici o auto-punitivi, oltre che da svolte chiaramente restaurative e repressive. Prima la rivoluzione, insomma, e poi il duplice castigo per chi ha osato cambiare la Storia – un castigo che ha luogo tanto sul piano dei rapporti di forza, puntualmente rovesciati all’indomani dei fallimenti rivoluzionari, quanto nella sfera simbolica delle appartenenze, trasformate spesso per gli ex-combattenti per la libertà in motivo ora di marginalizzazione, ora di rapida conversione reintegrativa.
Quando nondimeno questo processo squisitamente dialettico è giunto ad esaurimento – perché, appunto, l’aspettativa di trasformazione dello stato di cose presenti è stata clamorosamente battuta sui tempi dal ritmo disruttivo della mutazione tecnocratica – quel meccanismo a lungo misconosciuto è precipitato direttamente nel cuore delle persone. La modernità è diventata allora un fatto interiore, che esplode innanzitutto nello spazio mentale di chi per un motivo o per un altro è costretto ad accettare il nuovo ordine costituto, basato sul rinnegamento di ogni intenzione esplicita di cambiamento complessivo. Per paradosso, allora, nel momento in cui l’eccezione diventa la regola – quando la tecnica sopravanza di gran lunga la politica, incapace ormai di proporsi come tecnologia di governo delle altre tecnologie –, ogni progettazione della trasformazione diventa automaticamente reazionaria (si pensi alla versioni destrorse dell’accellerazionismo e al lungotermismo).
Ma se la pandemia psicopatologia documenta una deriva per certi versi desolante, che coincide con una presa d’atto della solitudine inerme dei soggetti contemporanei, per il resto è anche lo scoperchiamento di un nesso antico quanto la Storia, e forse quanto l’Homo sapiens: il nesso che esiste a livello inconscio tra pensiero concettuale, e quindi in un certo senso ‘filosofia’, e costituzione materiale del gruppo sociale al quale l’individuo sente di appartenere, e quindi con gli apparati tecnici che sempre rendono possibile una certa organizzazione intersoggettiva. La devastazione dello spazio urbano – che di questo nesso è l’oggettivazione più esemplare –, la sua trasformazione in un rendering iper-sorvegliato dai percorsi preordinati dalla macchinazione telematica, è la massima dimostrazione della perdita di adesione al reale al quale rinvia immancabilmente ogni dinamica comunitaria umana. Il paradosso insomma della pseudo-globalizzazione in cui siamo immersi è di dare ad intendere di poter essere cittadini del mondo senza però essere gli abitanti di nessun posto, senza in breve poter partecipare alle decisioni sul destino del proprio territorio e delle forme di vita relative. La distruzione delle città come luogo in cui la resistenza di contesti informali di vita comune rendeva ancora possibile la convergenza delle opinioni, sul limite del loro continuo dibattimento polemico, porta alla luce come ogni forma di potere istituzionale si basi in ultima analisi sul consenso, e come la manipolazione coercitiva dello stesso, via le inalterabili strutture del dominio digitalizzato, non può non avere esiti altrettanto calamitosi, in contrasto a ben vedere con i propri stessi fini (donde la vittoria di tutte le antipolitiche sovraniste e populiste).
Nel frattempo, infatti, l’esibizione del proprio travaglio interiore sui social media frequentati dai più giovani ha acquisito progressivamente le caratteristiche di una vera e propria rivendicazione di status. La rappresentazione mediatica della sofferenza è diventata così parte integrante della comunicazione ‘globalizzata’ e ha assunto un peso a dir poco decisivo tra le molte tecnologie dell’esistenza a disposizione. Sintomatico è allora che i dati dell’OMS – resi pubblici alla vigilia di un evento che ha avuto luogo in una sorta di mondovisione iper-sincronizzante, e ha impattato quindi come pochi altri sul malessere delle persone (la pandemia di Covid-19) – non siano più stati aggiornati da allora. Sintomatico è che l’intervento terapeutico dedicato – farmacologico, in primis – si sia rivelato da quel momento una pratica pressoché universale, che coinvolge più o meno tutte le categorie di persone, dagli influencer ai carcerati (non lo si può non arguire indirettamente).
Che si patisca lo stress da iperlavoro o da overload informazionale che coinvolge ormai tutti coloro che possiedono un dispositivo connesso, che si venga rimpinzati di benzodiazepine per calmare gli altrimenti ‘bollenti spiriti’ che scuotono chi espia le proprie ‘colpe’ nei confronti della società, il quadro epidemiologico testimonia chiaramente di una svolta nel sentire collettivo, che fa della psicopatologia una vera e propria emergenza globale. Se tutto ciò non vale come una attestazione affidabile della salute della specie la si può intendere perlomeno alla stregua di un segnale fin troppo chiaro sullo stato in cui versa il suo millenario sforzo di auto-comprensione – uno sforzo che si rivolge adesso alla sua stessa problematizzazione tematica, alla sua messa in crisi sempre più spietata. È lo strumento stesso del comprendere – non il cervello, e nemmeno in senso stretto l’intelletto, ma l’anima come sede del sensus communis – a risentire infatti di questa «disabilità» (così l’OMS) che, nel colpire la sfera delle relazioni, appare come indipendente da agenti patogeni di tipo microbiologico, da lesioni tissutali, così come da valori oggettivi facilmente accertabili.
Scopriamo allora che, mentre non c’è mai stata sulla Terra una consapevolezza così diffusa e così articolata circa i mali prodotti dall’azione umana (relativa ai disastri dell’industrialismo sul piano ecologico, alle dinamiche distruttive del neoliberismo nei diversi contesti sociali e culturali, e alle derive neofasciste che pullulano ovunque sulla schiuma della paura di massa conseguente), il cataclisma cognitivo sembra essere dietro l’angolo. Gli analisti della più diversa estrazione cominciano quindi a discettare, in toni più o meno apocalittici, su quanto sembra avere tutti i crismi di una reazione mondializzata al disastro in cui versa questo nuovo millennio, vittima di una conclamata cecità strategica, quanto agli effetti dell’intervento antropico, e di un’arroganza prometeica senza precedenti, in totale contrasto con un esercizio non episodico del pensiero critico. La domanda che sorge spontanea, di fronte a un disorientamento psicoaffettivo così diffuso, è chi ne benefici davvero in ultima istanza, al di là di un gruppo oligopolistico di produttori di presidi neurolettici (le cosiddette Big Pharma), tra le cui fila niente esclude ci siano proprio alcuni degli stessi destinatari di quella peculiare produzione. Nel corso della storia dell’umanità, infatti, non c’è mai stata nessuna condizione negativa che non avesse una qualche ricaduta vantaggiosa per qualcun altro. Nessuno, in nessuna epoca, è mai stato solamente la vittima di una sistema di controllo che non avesse anche un ritorno – economico, politico, simbolico – per una qualche altra categoria di esseri umani. Nessuna forma di dominio, salvo questa, è mai stata insomma fine a se stessa. Proviamo a chiederci quindi quale sia la portata ultima di questa deriva psicopatologica, proviamo a comprendere di che cosa ci parla la sofferenza che aleggia ovunque, nelle scuole come nei consigli di amministrazione delle aziende, nei Paesi predati dalle nuove forme di colonialismo e di imperialismo come nelle periferie delle metropoli esplose.
È in questo quadro, a prima vista desolante, che il malessere psichico svela il proprio legame originario e originante con il lavoro della teoria, e in particolare della filosofia, in quanto occupa metonimicamente il luogo dell’attività teorica in quanto tale (o come avrebbe detto il Marx dei Grundrisse, del «sapere sociale generale» da cui dipende ogni attività produttiva). Quello che succede, insomma, è che la messa a lavoro dell’intera umanità, sotto forma di sfruttamento digitalizzato, dà la stura su scala inedita a una nuova ‘sensibilità’ – a un nuovo orizzonte divisivo di senso – basato non più sull’arruolamento di competenze precise, ma, come è stato fatto notare più volte, su un esproprio esplicito del saper-pensare di tutti e di ciascuno che non ha precedenti nella Storia. Ognuno si ritrova allora a svolgere senza eccezioni il mestiere del teorico suo malgrado.
L’emergenza psicopatologica è dunque un’emergenza antropologica, o forse ancora di più un’emergenza ontologica, in cui è il significato condiviso dell’essere a ricevere un nuovo contesto di (de)significazione e, in ultimo, di pluralizzazione. È la decisione concernente il bene comune, nella sua vocazione atavica a fissarsi a un significante-padrone valido per tutte le circostanze della vita e della Storia (dio, la razza, o il denaro, per citare i più monolitici), a rivelarsi come votata strutturalmente al fallimento. La socializzazione della sofferenza psichica va di pari passo insomma con la scaturigine sociale della stessa, e la sua matrice archetipale si rivela essere da sempre l’introiezione delle questioni-limite che intrattengono la vita umana. Le malattie dell’anima, insomma, assurgono a fattispecie del legame sociale, e più precisamente, si mostrano essere da sempre la tematizzazione inconsapevole di ciò che rende una società tale, e cioè differente da altre società. Quando questa differenza diventa labile, quando il contesto di socializzazione si fa almeno immaginariamente globale, e i segni dell’appartenenza culturale si ricollocano su scala specie-specifica, ogni processo di soggettivazione rischia di perdersi lungo le innumerevoli spire della sua incessante messa in questione. I problemi che una volta riguardavano sistematicamente piccoli gruppi assumono così, oramai, la misura di problemi universali, mentre le soluzioni a disposizione continuano a presentarsi come meri sussidi locali, parziali, invariabilmente partigiani.
La divisione sociale del lavoro cognitivo in cui consiste la psicopatologia cambia faccia, così, e da tassonomia micrologica diventa una tavolozza di sfumature di condizioni di «disforia» (concetto sul quale ha insistito mirabilmente Paul B. Preciado) senza né una norma né un’eccezione prestabilite. La disforia – che sia dell’umore in generale o di genere – è la chiave di volta dell’intera architettonica psichiatrica attuale, della sua pretesa di scandire praticamente la totalità delle condizioni umane all’interno di una griglia differenziale di disturbi, invisibili agli occhi, ma gli uni definiti in rapporto agli altri, e tutti rispetto ai disturbi dei corpi, e ai loro sintomi. La disforia è la regola immanente del suo funzionamento e l’eccezione alla regola, allo stesso tempo: ogni situazione dolorosa o di sofferenza è di fatto disforica. Difficile insomma negare come ogni sintomo abbia sempre un tratto intrinsecamente sussultorio, e quasi allucinatorio, e quindi potenzialmente trasformativo, oltre che invalidante. Nel sintomo, ciò che si è abitualmente entra in contrasto in qualche maniera con ciò che si desidera, e l’attuazione dei compiti sentiti una volta come spontaneamente raggiungibili (o raggiungibili dalla maggior parte dei propri simili) recede nella zona d’ombra di ciò che deve essere realizzato attraverso uno sforzo supplementare, se non addirittura per mezzo di un qualche genere di presidio artificialmente disposto (un farmaco, per esempio). Basta sapere questo per rendersi conto come la psichiatria e il sapere-potere bio-medico tutto affondino le loro radici nella dimensione patica dell’esperienza vissuta da cui ogni sapere sul corpo non può non esordire. È proprio quel dolore che la stessa medicina mira a eradicare – nel paziente, è ovvio, ma anche nello sguardo medicale, per proteggersi dalla sua evidenza empatica – che permette di disarticolare la coincidenza dello sguardo stesso con il dicibile sulla quale si basa la clinica moderna (lo ha mostrato Michel Foucault), così come il nuovo tipo di assoggettamento infra-percettivo al quale lavorano ormai la Salute Digitale come la psichiatria globalizzata, in quanto basate entrambe sulla valorizzazione di indici inconsci (la rete dei dati fisiologici, nel primo caso, e le anomalie sintattiche del linguaggio e del comportamento nel secondo). La disforia di genere porta alla più chiara espressione tutto questo, poiché il passaggio dal genere assegnato alla nascita al genere esperito dal soggetto avviene appunto attraverso un capitale richiamo alla dimensione esperienziale più intima, unica fonte autorevole in merito. Per parlare del dolore è necessario infatti passare attraverso una deviazione fondamentale, quella del proprio io, quale sede immancabile della sua manifestazione, e dunque della sua intera esistenza reale, una dimensione destinata a rimanere per sempre segreta e personale, contestabile e contestata.
È la stessa contrapposizione tra nevrosi ‘integrata’ e psicosi ‘disintegrata’ a essere diventata obsoleta, allora, e a crollare clamorosamente in questo nuovo paesaggio affettivo e sociale trans-epocale, perché non progredente più in modo unilineare, ma essenzialmente reticolare, rizomatico, tendenzialmente aleatorio. La disforia è l’elemento mobile che attraversa tutte le altre categorie ed etichette con cui si prova a colmare il divario tra patologia e normalità, e attraverso le quali ci si sforza di far sì che la prima sia solamente una variante quantitativa, per eccesso o per difetto, della seconda. La disforia è il Cavallo di Troia che la psichiatria non sa di aver imbarcato sulla sua galera mondiale, poiché disattiva la presa del potere sul corpo, che vorrebbe tramutarlo in un macchina perfettamente funzionante, e lo restituisce alla sua capacità di sentirsi sulla cresta di un’autonomia sempre problematica, e sempre da problematizzare, soprattutto.
Questa divaricazione si declina allora come pandemia psicopatologica, rispetto alla quale il sintomo disforico occupa simultaneamente la parte della parte e la parte del tutto. Quando ci si ammala nell’anima c’è insomma come un mandato collettivo da cui un soggetto viene ‘investito’, nel duplice senso della parola “investire”: esso ne è incaricato obtorto collo, a causa di una serie di incontri più o meno traumatici in cui si è trovato a rimanere bloccato precocemente nella sua vicenda interpersonale (non più solo familiare, oramai, ma anche e soprattutto mediatica), e ne è travolto, poiché è la sua intera vita a tramutarsi allora in una dipendenza esiziale dall’Altro che lo ha messo a lavoro e che nulla ha da invidiare all’alienazione economica classicamente intesa. La sua perdita di controllo sul proprio «saper-fare», prima di tutto «noetico» (Bernard Stiegler), lo condanna così a una espulsione più o meno conclamata dal novero di coloro che hanno accettato invece di essere pacificamene espropriati di altri saperi, prima di tutto pratici. È il saper-pensare, appunto, che diventa in queste circostanze oggetto diretto della messa a lavoro e dunque della valorizzazione digitale. Tanto più cresce allora la possibilità di prescindere dal lavoro manuale, in conseguenza dell’automazione montante, tanto più lo sfruttamento del lavoro intellettuale di tutti e di ciascuno si rivela indispensabile e feroce, generalizzando così una condizione una volta liminale, riservata a un numero relativamente ristretto di individui per ogni gruppo sociale. L’estrattivismo cognitivo al quale sono improntati i settori più avanzati del capitalismo neoliberista, nella misura in cui trasforma ogni gesto in un complesso gesto-rappresentazione-analitica-del-gesto, ha dunque come conseguenza la messa al bando progressiva della normalità sotto ogni sua figura e, dunque, la creazione di un esercito di psico-dissidenti potenzialmente sempre più esteso. È il confine stesso tra normalità e anormalità a farsi labile, e a divenire sfuggente, dato in carico a ciascun individuo, come un compito a cui assolvere vita natural durante. Il malato psichiatrico è l’emblema del lavoratore cognitivo, di colui che nel regime post-fordista di produzione viene incatenato alla sequenza brutale delle pratiche estrattive, orientate oramai innanzitutto alla sollecitazione senza esitazioni del «sapere sociale generale», ovvero di quel General Intellect che sta da sempre dietro ogni performance umana, anche strettamente materiale, e che riluce come la sorgente base di ogni attività monetizzabile (ogni lavoro si rivela intellettuale, insomma). La condizione del disagio psichico si universalizza quindi sempre di più, nel mentre che la generalità delle prestazioni lavorative (la loro ripetibilità ad infinitum e la loro sussumibilità economica) diventa la posta in gioco determinante della nuova fase tecno-scientifica in cui ci troviamo, centrata appunto sul dispiegamento eccezionale degli apparati computazionali (e in particolare delle intelligenze artificiali pseudo-generative). Computare significa ricondurre tutto alla natura maneggevole quanto astratta di un ‘insieme di insiemi’ (Gottlob Frege), ovvero del numero in quanto è iterabile identitariamente a piacere. La computazione ha il solo scopo di fissare il vero, senza renderne più possibile la modificazione, disattivandolo come vero che si espone alla prova alterante e altalenante dell’errore altrimenti incarnato in corpi interagenti e plurali. Ma la singolarità di ognuno è appunto il fatto del proprio non ripetersi: o la si agisce e la si impersona fino in fondo, rischiando il sovrappiù di senso della follia, o la si perde realmente di vista nel mare magnum dell’insensato.
D’altronde, sotto l’epidermide di consapevolezza della specie ha luogo da sempre una battaglia del senso contro il non-senso e della ragione contro la sragione, la cui manifestazione superficiale prende per lo più il nome di “filosofia”. La filosofia è da sempre una lenta e omeopatica erosione del continente della follia a favore di una ‘normalizzazione’ regolata dei suoi stessi effetti caotici (degerarchizzanti), anche nel senso matematico della parola. Normare è sempre uno sforzo di totalizzazione dell’esperienza, e di estrazione di una regola netta e riconoscibile, di un riferimento ultimo a cui sottomettere le esperienze nel loro pluralismo altrimenti impenitente. La filosofia, in un certo senso, ha sempre praticato una strategia di estrattivismo dolce, dal volto umano, mirante a riunificare il campo dei saperi e dei poteri dispersi in cui si diramano le nostre esistenze individuali. E la follia ha sempre spostato il margine del significativo, per quanto accusata sistematicamente di tracimare oltre le Colonne d’Ercole dell’effettivamente sensato.
Oggi più che mai la funzione riepilogativa una volta assolta dalla filosofia si è generalizzata ed è stata incorporata nella macchina comunicativa globalizzata, sotto forma di procedure di profilazione, di targetizzazione, e di riduzione a un denominatore commerciale comune, che formano il processo attraverso cui il senso, nel suo proliferare indefesso, è incanalato entro percorsi decidibili, e costretto così a seguire un andamento preordinato, senza più poter essere oggetto di una negoziazione condivisa. L’ideologia funzionalista incorporata direttamente nell’architettura dell’informazione trasmessaci dai dispositivi digitali che ci attorniano ubiquitariamente è quindi la prova provata di una vittoria di classe, quella dei detentori dei mezzi di produzione (dei proprietari dei mezzi della distrazione cognitiva di massa).
Ma sappiamo anche in modo sempre più esplicito che la teoria, se enunciata sotto specifiche condizioni di luogo, di tempo e di stile, ha effetti profondissimi, riferibili a una sorta di dimensione esperienziale apicale – di spiritualità laica o addirittura di psichedelia discorsiva (su questo aspetto di liberazione di un potenziale esperienziale nuovo è l’illuminante la riflessione recente di Jianwei Xun sull’ipnocrazia). L’exploit psicopatologico del contemporaneo è quindi non soltanto un caso di interesse scientifico (psichiatrico, psicologico o socio-antropologico), o un problema di gestione terapeutica (d’igiene pubblica), ma un un’insurrezione silenziosa che non ha termini di paragone, quanto a numeri e diversificazione fenomenica, rispetto a ogni altra presa di partito più o meno esplicitamente rivendicata dai consessi umani, nel passato come nel presente. Quando funziona, la teoria, ha la potenza insomma di un’azione destrutturante, e più precisamente degerarchizzante, che mette le persone nella condizione di riconfigurare un certo codice simbolico in uso sino a quel momento per discernere l’informazione dal rumore, e di farlo, soprattutto, in direzione di una pluralizzazione incipiente degli stessi usi della vita. La teoria o la psicopatologia, appunto.
La finalità interna della pandemia psicopatologica, quindi, non è tanto la realizzazione urbi et orbi dell’imperativo del nuovo – caratteristico dell’Ipermodernità sincronizzante e auto-abolitiva in cui siamo immersi – ma l’invito alla rigenerazione del diverso. Si tratta in breve di contrapporre a una deriva prettamente entropica la capacità di abitare una pluralità di modernità che possibilizzino il futuro e il passato, innanzitutto, e li sollevino dalla propria normatività univoca, restituendo il presente alla sua non-insindacabilità. La psicopatologia ri-rende il tempo inattuale nella sua marcia altrimenti inarrestabile, lo restituisce alla possibilità di essere reimmaginato nel suo significato, spezzando così il circolo vizioso di una novità coatta che occlude e contraddice se stessa, perché si impone come un imperativo invariabile. Unico organo del corpo che può morire e rinascere, la psiche è infatti l’elemento in cui il tempo subisce una battuta d’arresto, grazie innanzitutto ai prodigi dell’immaginazione. Nell’esercizio dello psichismo non ordinato alla pura corrispondenza con le cose del mondo, i corpi riacquistano la propria capacità di divergere gli uni dagli altri (di desincronizzarsi) e di incrementare in questo modo il tasso di variazione dei propri comportamenti. Una psiche vissuta come strumento primigenio dell’incontro è, in breve, l’unico antidoto alla omologazione mortifera, perché biologicamente disfunzionale, alla quale siamo esposti di più ogni giorno che passa.
La psicopatologia si configura dunque come la teoria della sconnessione tra teoria e prassi, la teoria di ciò di cui la filosofia si è sempre fatta carico di ridurre gli effetti, in quanto pratica riflessiva di secondo ordine, in quanto riflessione sulla riflessione quotidiana sulle nostre difficoltà pratiche. La psicopatologia assurge a vera e propria fucina teorica della politica – della teoria come politica. L’ontologia, da pratica instaurativa di un orizzonte di senso condivisibile, si rivela insomma compiutamente nella sua funzione di raccolta retrospettiva del senso istituito, mentre le pratiche istituenti – dalla scienza all’arte, dalla politica all’amore (Alain Badiou) – continuano a innestarsi nel reale per disattivare la pretesa di farne un solo uso possibile (pretesa per lo più a fondamento della digitalizzazione). L’ingiunzione iper-moderna ad attingere sempre e solo il nuovo, e a scardinare il già dato attraverso il sempre inedito, sensibilizza quindi i soggetti ad abitare l’intervallo in cui le parole si scuciono dalle cose, e le cose si svestono delle parole, per esporre entrambe alle loro disseminazioni multidimensionali, multicentriche, irriducibilmente intrecciate e inesauribilmente sovrapposte. Se lo strumento chiave di questo nuovo dominio, il DSM, si presenta quindi come un palinsesto di gestione del deragliamento naturale del processo evolutivo della cultura, come un imbuto in cui incanalare a priori ogni pratica di dissenso, incapace di manifestarsi con altri mezzi, bisogna allora accentuare la vague disforica del momento. Bisogna transitare dalla credenza che la Modernità abbia sempre e solo un significato possibile alla rivendicazione di tante modernità possibili, divergenti e convergenti allo stesso tempo, convergenti perché divergenti.
Per questo motivo la pandemia psicopatologica che infesta il presente – il nuovo fantasma di Dioniso che si aggira inquietantemente sullo scenario di una globalizzazione presunta riuscita – porta all’ordine del giorno un’esigenza cruciale, relativa al bisogno di un spazio di discussione sulle nostre scelte comunitarie, e al limite di confronto apertamente filosofico, mai prima d’ora altrettanto forte. Se l’essere si rivela costitutivamente non univoco, nessuno, proprio nessuno, può decidere del suo destino, senza passare al contempo attraverso un confronto altrettanto plurale e altrettanto interminabile circa il suo senso. Il contraltare di una desoggettivazione così preponderante che rischia altrimenti di consegnarci alla pura accettazione dello status quo (nel caso in cui si faccia ancora appello alla panoplia delle istituzioni pericolanti) si trova allora nella ricerca concreta di «circostanze» fisico-relazionali di cui «prendersi cura» collettivamente (prendo a prestito questa idea dallo straordinario lavoro della Cooperativa Passepartout di Roma). Nulla esclude più insomma che la presa in carico generalizzata di questo fenomeno possa elicitare un nuovo senso d’appartenenza post-classista, trasversale a ogni altro tipo di identificazione umana (di genere, di etnia, di cultura). Se una «classe dei pazienti» (Andrea Sartori) è concepibile, in breve, è perché incarna ormai solamente la classe dei senza classe, la classe di coloro che non hanno nulla «in comune» (Tommaso Ariemma), la cui articolazione è affidata alla possibilità di una mediazione sempre rinnovata, che vada al contempo dal basso in alto e dall’alto in basso dello scacchiere sociale, di traverso a tutte le altre classi e a tutte le categorie. Se ogni sintomo è virtualmente disforico, e non esiste se non una certificazione indiretta e derivativa della condizione disforica, non mai empiricamente accertabile, se chiunque è sempre nella condizione di dirsi e di essere riconosciuto come un ‘malato’ che può partecipare all’elaborazione comune, è perché in ultima istanza siamo tutti davvero sulla stessa barca. Ci rendiamo conto così di avere un bisogno furibondo di filosofia, di una filosofia che sia cura dei luoghi comuni, nel senso materiale e non della parola, affinché in essi e grazie a essi la nostra interminabile conversazione su come vogliamo vivere ridiventi di nuovo possibile. La stessa comprensione sociale del senso dell’essere, più o meno inconscia, più o meno decentrata e inscritta nelle infrastrutture psichiche e tecno-culturali del senso comune, può cominciare allora ad acquisire stabilmente un’andatura evolutiva, ab origine proteiforme: può tentare di farsi costitutivamente plurale. E la filosofia, da pratica puramente ricostruttiva, può sperare di risaldarsi alla carica dissenziente delle altre pratiche istituenti di verità.
Confrontandoci costantemente con l’esistenza di una frattura insuperabile tra il pensiero e il mondo, e quindi con il processo che traduce senza sosta le idee nel mondo almeno quanto dovrebbe fare l’opposto (ovvero portare il mondo nelle idee), ci si ritrova oggi a dover ricostruire il più possibile dei ponti tra le persone e i loro modi di vita. Questi ponti innanzitutto discorsivi e co-relazionali, vale a dire dati in presenza reale e non in differita (come accade invece con qualunque forma di comunicazione non orale), sono insomma l’unica risposta reale a disposizione alla virtualizzazione e quindi alla distruzione della politica. Intensa non come dottrina ma in quanto prassi interrogativa transindividuale, che non avalla a priori nessuna visione del mondo particolare ma elicita un confronto spassionato intorno alle proprie idee di società, la filosofia appare più che mai come portatrice di una speranza post-apocalittica, nel senso di una vera possibilità di globalizzazione, non tanto culturale, non certo tecnologica, ma innanzitutto pratico-politica. In fondo, una buona assemblea non promette mai altro.