di Valerio Cuccaroni

 

[E’ da poco uscito per Biblion, nella collana Scriba diretta da Paolo Giovannetti, Poesia ibrida. Poesia visiva, videopoesia, poesia elettronica, pj set, di Valerio Cuccaroni. Il libro sarà presentato domani all’Università di Lisbona e il 7 all’Istituto Italiano di Cultura, con la proiezione delle videopoesie, entrambe prodotte da Nie Wiem, Tacete o maschi del collettivo Lunastorta, con testo di Leonora della Genga e voce di Franca Mancinelli, e In quanto a noi di Simone Massi, con testo di Eugenio Montale e voce di Wim Wenders (premio Nastro d’argento 2023 al miglior cortometraggio, finalista al premio David di Donatello 2024)].

Introduzione

 

Nuovi tipi di testualità si producono, nelle opere poetiche, dall’ibridazione del linguaggio verbale con quello musicale, performativo, visivo, informatico. Accanto al genere lirico, predominante nella modernità sino alla fine del Novecento,1 si è costituita, soprattutto grazie alla diffusione dei dispositivi audiovisivi e all’avvento di internet, la galassia della poesia ibrida.2 È una galassia in formazione, difficile da perimetrare, dato che «la poesia d’oggi vive in un sistema di valori diverso dal passato»3 e noi «viviamo in una situazione di trapasso in cui tutto sta cambiando».4

 

Tra le tante forme di ibridazione prenderemo in esame la genesi e la morfologia della videopoesia, della poesia visiva, della poesia elettronica e del PJ set, un ibrido tra poesia e DJ set realizzato non da un DJ (Disc Jockey) ma da un PJ (Poetry Jockey). L’intermedialità non è un fenomeno nuovo: nella modernità si ripropone la vexata quaestio del rapporto poesia-musica, che risale alle origini della poesia italiana, tra Scuola Siciliana e canzoni dantesche, cosicché nell’opera lirica «la lettera morta del libretto si anima a contatto con le note del compositore»,5 realizzando l’ideale romantico di convergenza tra musica e poesia nel teatro, oltre il tradizionale sistema dei generi, nel segno dell’accensione sentimentale, della popolarità, così come il romanzo lo realizzò nell’ambito della prosa. Questo genere ibrido, che in Wagner prende il nome di Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale), porta a compimento la rivoluzione moderna, iniziata a fine Cinquecento, nel segno dell’«antiregolismo»6 e della «stravaganza» dell’artista che lo obbliga «a trasgredir le regole ordinarie»,7 come affermò, con un paradosso familiare ai retori aristotelici, l’autore del dramma pastorale tragicomico Il pastor fido, Giovan Battista Guarini. «La poesia ricerca lo spettacolo, cede al gusto mondano»,8 in un moto che prosegue sino ai giorni nostri. Per Francesco De Sanctis, tuttavia, nel maggiore esponente della poesia per musica del Settecento, Pietro Metastasio, non si realizza un’ibridazione ma si trova «l’ultima forma dell’antica letteratura», che, sebbene non sia «oramai più che forma cantabile e musicabile», di cui l’ultima espressione è «il dramma in musica», non si rassegna «e vuol conservare la sua importanza, rimanere letteratura», sebbene non sia più fine, ma «mezzo» che «serve alla musica».9 Questo giudizio di De Sanctis andrebbe corretto tenendo conto che Metastasio riformò il teatro alla luce del Traité des passions di Cartesio e dell’Ars poetica oraziana, sostituendo il pàthos barocco con un èthos melodico rafforzato dalla motivazione antropologica, adottata in quegli stessi anni da Giambattista Vico, che ipotizzò «i primi poeti dell’umanità inclinati per natura al canto».10 La cantabilità di Metastasio aprì la strada, nell’epoca del Romanticismo, all’elaborazione di moduli poetici di più facile ricezione popolare, come le ballate di Giovanni Berchet e gli Inni di Alessandro Manzoni. Fu la via aperta da Metastasio, peraltro, e non il tentativo fallito di imporre la tragedia patriottica, alla quale pur si dedicò lo stesso Manzoni, a dotare il romanticismo italiano di un genere di ampia divulgazione e grande successo: il melodramma, in particolare nella versione elaborata a livello testuale da Temistocle Solera e musicale da Giuseppe Verdi. In effetti, fa notare Giulio Ferroni, «l’opera lirica è un’esperienza essenziale anche per la storia della letteratura», perché i libretti, una volta musicati, «non sono più semplici testi da leggere o da recitare, ma condensano un nuovo tipo di parola poetica»;11 inoltre il melodramma diffonde fra un ampio pubblico temi e motivi della letteratura del tempo. Con il suo profluvio di emozioni e drammi del cuore, il melodramma conferma il dominio del genere lirico nella cultura dell’epoca.

 

La convergenza tra musica e poesia, che si realizzò nel genere spettacolare del melodramma, giunse alle dichiarazioni programmatiche del movimento simbolista: «de la musique avant toute chose»12 prescrive Verlaine nell’Art poétique del 1873. In Italia avremo il fonosimbolismo di Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. La metrica libera o, per dirla con Mengaldo, «liberata»13 ha in parte derivato dalla musica quel ritmo che ha affiancato o sostituito gli schemi metrici della tradizione poetica italiana. Dagli organi di Barberia dei crepuscolari ai Movimenti di Montale, dall’Andantino di Caproni al Requiem di Patrizia Valduga il rapporto della poesia con la musica ha avuto un ruolo centrale nella composizione poetica per tutto il Novecento.

 

C’è chi, come Marco Santagata, si è addirittura spinto ad affermare che, a partire dagli anni Sessanta, «la migliore poesia italiana […] va ricercata all’interno della produzione musicale»,14 riferendosi al fenomeno del cantautorato. In effetti, antologizzando le opere dell’ultimo trentennio del Novecento, Alberto Bertoni ha notato che «la veste scritta del testo poetico occupa solo una porzione abbastanza ridotta del suo sviluppo storico», in particolare «la poesia del ’900 ha amato e saggiato in molti frangenti la sfida al modello chiuso e scritto del libro», quindi «ha saputo anche consegnarsi all’ascolto ampio delle manifestazioni orali e pubbliche della performance, del rap e del reading con musica»; in effetti «la poesia si è spinta oltre i confini del libro anche attraverso la diffusione della sua componente prima, il verso», sottolineando che «tutti ovviamente versificati sono i testi delle canzoni», per cui, conclude Bertoni, «è sembrato quasi dovere istituzionale per un’antologia che prende le mosse dagli anni ’70 di registrare la diffusione e anche la qualità testuale – in Italia – della canzone d’autore».15

 

Tuttavia, non manca chi nega che la canzone d’autore sia una forma di ibridazione tra poesia e musica. Contrapponendosi alle tesi emerse nel convegno Poesia e canzone d’autore in Italia, tenutosi nel 2007 all’Università di Siena, con la partecipazione di critici, poeti e cantautori come Paolo Giovannetti, Paolo Zublena, Lello Voce, Rosaria Lo Russo, Umberto Fiori, Samuele Bersani, Frankie Hi NRG Mc ed Enrico Ruggeri,16 Andrea Cortellessa ha ricordato che Fabrizio De André, per dimostrare che poesia e canzone appartengono a due «sponde» diverse, diceva di sé: «rifiutavo questa etichetta di poeta […] cercavo solo di gettare un ponte tra la poesia e la canzone».17 Per ribadire la distinzione tra canzone e poesia, Cortellessa cita l’auctoritas di Luca Zuliani, secondo cui le esigenze metriche impedirebbero ai versi delle canzoni italiane l’effettiva autosufficienza poetica.18 Valutazioni del genere si riscontrano in molti altri critici letterari, ma sono vere solo se si considerano poesia le sole composizioni testuali. Se invece per poesia si intendono tutte le manifestazioni in versi, si dovranno riconoscere all’interno del sistema distinzioni in base alla forma adottata. Salvatore Ritrovato, in un suo saggio su Poesia e forma-canzone, ha parlato di «interazione “metonimica” (nel senso che l’una può comprendere l’altra, e viceversa)»19 tra musica e poesia. Stefano Colangelo ha definito la canzone d’autore una terza testualità: la canzone, secondo lui, è «un luogo di crisi, di ripensamento per i modi dell’indagine interpretativa», una «crisi feconda, che chiede all’ascoltatore un esercizio in almeno due campi di pertinenza differente: il rapporto, innanzitutto, tra la musica e il testo, e l’interazione tra le due risorse», per cui «si può affermare […] che la canzone richieda all’interprete – a colui che la esegue, e parimenti a colui che la studia – una nozione “terza”, spesso instabile ed elusiva, di testualità».20 La poesia per musica potrebbe essere considerata, pertanto, tanto un’opera di poesia, quanto un’opera di musica: un genere «anfibio», come lo definisce Umberto Fiori.21 Resta un grado di indeterminazione che lascia la questione aperta, ponendo una sfida alla critica: se, infatti, la logica impone l’invalicabile principio di non contraddizione, le qualificazioni usate a ragione per identificare la forma della poesia per musica (metonimica, terza, anfibia) rinviano alla contraddittorietà insita nel linguaggio poetico, che rende ogni sua interpretazione non certa ma possibile. L’indeterminatezza della poesia ibrida è, quindi, un caso particolare della generale indeterminatezza della parola poetica. Dato che la poesia per musica non è riducibile né alla sola poesia né alla sua musica, le qualificazioni usate per identificarla sono pertinenti perché ne restituiscono l’irriducibilità a uno dei due o più linguaggi che la compongono. La metonimia è una figura retorica che al significato letterale del termine ne associa un altro, che è diverso da quello proprio del vocabolo ma convive con esso (nella metonimia bere una bottiglia, per esempio, il termine metonimico A, il contenitore bottiglia, ha un significato associato un altro termine B, il liquido contenuto nella bottiglia, quindi il significato della metonimia non è né A, perché una bottiglia non si può bere, né B, perché non è una quantità generica di liquido, ma C, il liquido contenuto in una bottiglia). La qualifica di terza per la testualità della canzone d’autore supera il principio di non contraddizione ponendo un terzo termine (oltre il termine A, che possiamo associare alla poesia, e il termine B, che possiamo associare alla musica, la terza testualità introduce il termine C, equivalente a A con B). Infine, l’etimologia stessa di anfibio rinvia alla coesistenza di una doppia (ἀμφί) vita (βίος), perché gli anfibi trascorrono la loro vita sia in acqua sia sulla terraferma, inoltre nella fase larvale hanno un aspetto dissimile da quello della fase adulta, alla quale si giunge tramite metamorfosi: se il pesce è una classe A di animali, il rettile è una classe B, l’anfibio, irriducibile a una delle due, appartiene a una classe C. La crisi in cui l’opera ibrida pone il critico letterario, costringendolo a confrontarsi con tipologie poetiche differenti rispetto a quelle tradizionali sulle quali ha affinato i suoi strumenti di analisi, conferma che il suo studio, condotto tenendo in considerazione l’indetermi­natezza dell’oggetto, è necessario. Non si tratta, infatti, di stabilire se la canzone d’autore sia la migliore poesia italiana del Novecento, perché i parametri di valutazione di una poesia per musica e degli Ossi di seppia sono differenti, essendo differenti le loro testualità. La critica della poesia ibrida richiede una preliminare analisi della sua tipologia indeterminata. Restringendo il campo di indagine, infine, a una nuova forma particolare non assimilabile alle altre tradizionali, testimonia la generatività della poesia a contatto con gli altri linguaggi, in generale.

 

Le ibridazioni degli anni Sessanta-Settanta non si sono certo limitate al rapporto incestuoso della poesia con la musica: il vasto fenomeno intermediale della poesia totale, promossa da Adriano Spatola, dal Gruppo 70 e altri,22 con l’obiettivo di estendere il dominio della poesia, l’ha ibridata con i linguaggi della fotografia, del cinema, della pubblicità e dei mezzi di comunicazione di massa, in genere.

Questo tentativo di espansione, tuttavia, negli anni Settanta si è dovuto confrontare con un parallelo restringimento del pubblico della poesia: in corrispondenza con una serie di mutazioni economiche, sociali e culturali, che da alcuni sono state identificate in un cambiamento di paradigma nel segno del postmodernismo,23 mentre si esauriva la spinta rivoluzionaria, sia a livello sociale sia letterario, la poesia entrò in una fase di «semi-clandestinità», per usare le parole di Alfonso Berardinelli nella sua introduzione all’antologia-inchiesta Il pubblico della poesia,24 curata con Franco Cordelli e pubblicata nel 1975. La comunità della poesia finì per apparire limitata all’enclave dei poeti e dei critici. E il ventennio rivoluzionario si chiuse con il ritorno all’ordine della Parola innamorata,25 a cui nel 1978 Giancarlo Pontiggia ed Enzo Di Mauro consacrarono l’omonima antologia. Le eccezioni non mancarono, tuttavia, come quelle dei superstiti del Gruppo 63 e del videopoeta Gianni Toti, che negli anni Ottanta proseguì nel solco dell’intermedialità tracciato dal Gruppo 70, dando origine alla poetronica.

 

Tra la fine del Novecento e l’inizio degli anni Duemila, con l’avvento delle gare di poesia ad alta voce del Poetry Slam26 e di internet,27 la comunità della poesia è tornata ad allargarsi al pubblico generico delle piazze e della rete. Accanto alla poesia lirica si sono imposte altre forme di poesia ibrida, tra cui la videopoesia, la poesia visiva, la poesia elettronica e il PJ set. Muovendo da questo complesso di problemi, i saggi che compongono questo libro rileggono opere e poetiche di autori paradigmatici (da uno dei fondatori della poesia visiva, Lamberto Pignotti, ai maestri e alle maestre della videopoesia, come Caterina Davinio e Umberto Piersanti, dall’autore del primo canzoniere di poesia elettronica della storia della letteratura italiana, Fabrizio Venerandi, al poeta jongleur Luigi Socci). I primi due sono apparsi su “Avanguardia”, rispettivamente nei numeri 77 del 2022 e 76 del 2021; il terzo su “Argo” (10/3/2022); il quarto su “L’Ulisse”, XXVI (2023). Tutti i saggi sono stati rivisti e riordinati.

 

Note

1 Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005.

2 L’ibridazione può essere intermediale, tra medium verbale e visivo, musicale, ecc., ma anche intramediale, all’interno del medium verba­le, nel momento in cui, accogliendo linguaggi altri, «dal carcere, forse ineluttabile, del proprio monologismo, insomma, il poeta può lasciarsi ibridare da soggettività che gli sono estranee, provando a scommettere sull’innesto di un diverso ordine», come sostiene Giovannetti nel suo saggio Cosa può insegnare la canzone alla poesia, in Nicola Merola (a cura di), Poesia italiana del secondo Novecento. Atti del Convegno di Arcavacata di Rende (24-27 maggio 2004), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2006.

3 Paolo Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila, Roma, Carocci, 2017, p. 85. Si veda anche Gilda Policastro, L’ultima poesia, Milano, Mimesis, 2021.

4 Ivi, p. 79.

5 Giovanna Gronda, Il libretto d’opera tra letteratura e teatro in Giovanna Gronda, Paolo Fabbri (a cura di), Libretti d’opera italiani: dal Seicento al Novecento, Milano, Mondadori, 1997, p. 15.

6 Andrea Battistini, Ezio Raimondi, Le figure della retorica, Torino, Einau­di, 1990, p. 138.

7 Giovan Battista Guarini, Il Verato secondo, Firenze, Filippo Giunti, 1593, p. 117-118.

8 A. Battistini, E. Raimondi, Le figure della retorica, cit., p. 137.

9 Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana (1870-1871), Milano, Mondadori, 1991, p. 744.

10 A. Battistini, E. Raimondi, Le figure della retorica, cit., p. 189.

11 Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1991, p. 273.

12 Paul Verlaine, Art poétique (1873), in OEuvres poétiques complètes, a cura di Yves-Alain Favre, Parigi, Robert Laffont, 1992, p. 793.

13 Pier Vincenzo Mengaldo, Considerazioni sulla metrica del primo Govoni (1903-1915), in Corrado Govoni. Atti delle giornate di studio, Ferrara 5-7 maggio 1983, Bologna, Nuova Cappelli, 1984.

14 Marco Santagata, Il filo rosso, Roma-Bari, Laterza, 2006.

15 Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), Castel Maggiore, Book Editore, 2006, p. 12-13. Il discorso è ripreso da Bertoni nei suoi saggi, pubblicati dal Mulino, La poesia. Come si legge e come si scrive (2006) e La poesia contemporanea (2012).

16 Cfr. Centro Studi De André (a cura di), Il suono e l’inchiostro. Cantautori, saggisti, poeti a confronto, Firenze, Chiarelettere, 2009.

17 Andrea Cortellessa, De André: il più grande poeta italiano del Novecento, “Alfabeta2”, 10 (2011).

18 Cfr. Luca Zuliani, Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani, Bologna, Il Mulino, 2009.

19 Salvatore Ritrovato, Poesia e forma-canzone. Considerazioni sull’opera di Paolo Conte, in Manuela Furnari et al. (a cura di), Paolo Conte. Transiti letterari nella poesia per musica, Urbino, Urbino University Press, 2023, p. 15.

20 Stefano Colangelo, Diavolo rosso: l’immagine e l’epopea, in Centro Studi De André (a cura di), Il suono e l’inchiostro, cit., p. 160.

21 Umberto Fiori, Scrivere con la voce. Canzone, Rock e Poesia, Milano, Unicopli, 2003, p. 23.

22 Cfr. Lucio Vetri, Letteratura e caos. Poetiche della «neo-avanguardia» italiana degli anni Sessanta, Milano, Mursia, 1992, in particolare il cap. 5, La «poesia totale».

23 Cfr. Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

24 Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli (a cura di), Il pubblico della poesia, Milano, Lerici, 1975.

25 Giancarlo Pontiggia, Enzo Di Mauro (a cura di), La parola innamorata, Milano, Feltrinelli, 1978.

26 Cfr. Dome Bulfaro, Guida liquida al poetry slam. La rivincita della poesia, Milano, Agenzia X, 2016.

27 Cfr. Valerio Cuccaroni, La poesia in rete, “Poesia”, XXIII (2010), p. 250.

1 thought on “Poesia ibrida. Poesia visiva, videopoesia, poesia elettronica, pj set

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