di Mattia Bettoni
[E’ uscito da poco per Arcipelago Itaca Proiezioni ortogonali, libro d’esordio di Mattia Bettoni (postfazione di Massimo Gezzi). Proponiamo una scelta di testi, seguiti dalla postfazione di Gezzi].
Coro ammutolito (con tendenze cacofoniche)
1
Con le unghie raschio una ferita, fuoriesce del catrame, lurido nostro del noi sottocutaneo
che cerco di scrollarmi di dosso. Scavassi più a fondo, grattassimo ancora un po’ di carne,
troverei di nuovo il punto di avvio, ancora, ancora, ancora.
Togliamo ogni venatura un po’ criptica (ridendo) e dico di morti, amicizie, colpe a capogiro
che ritornano rovistando tra le piaghe un’altra volta. Mi confondo comunque
con voi, maglia di catena che congiunge
strade secondarie e campi inariditi
insegne pubblicitarie e lampioni senza luce
ronzio di fine mondo, suono che si scuce.
*
da ALTEZZE, ORTOGONALITÀ
A Fulvia
È tardi, è troppo tardi,
è troppo tardi per me,
gravato dal mio carico
ho fatto quel che potevo
Forugh Farrokhzad, Mi fa pena il giardino
Hai lasciato guance erose dalle lacrime della tua assenza. Hai lasciato una voragine poi coperta, almeno una. Hai lasciato il tuo corpo alla terra, sincero, biologico. Hai lasciato un angolo d’azzurro, un rantolo di nuvole sfocate sopra le case dagli argini incerti.
Me lo hai indirettamente insegnato ma in fondo di dio non sapevo nulla, e nemmeno ora ne so qualcosa. Mille poeti pieni di polvere hanno cercato di insegnarmi che esiste ma che non si interessa più di nessuno. Ho maturato l’idea che se esistesse in fondo sarebbe un tranquillo e onesto esponente del liberismo economico, nulla di più.
*
A Domenico
La conta dei morti riparte dalle palliative
proiezione ortogonale priva di segno osservi
fissi cave pupille dentro di me
racconti di San Fedele e dei contrabbandi
in Val d’Intelvi, della leva obbligatoria
della miracolosa pastiglia «eh, sai è una nuova
che forse aiuta a guarire» dici lo stesso – anche se
sappiamo già che il tuo pallium non è liturgico
ma degenerativo e (se) funziona, funziona
solo per te – mentre ascolto, soppeso le parole
me ne sto appeso in corsia gli ultimi minuti
chiudo la porta alle mie spalle.
*
da UNA CODA
I
Distraggo lo sguardo, seguo una traccia
salendo due rampe di scale (forse il mio purgatorio)
mi accorgo che mentre il dolore svanisce
qualcosa si fa spazio in noi
e indebolito si spegne in accozzaglia di sogni
(… «Leggi troppa poesia» dice ironica, «vedi barbagli
e ti graffi coi cocci»).
II
Aspetto, alle dodici, fuori dalla biblioteca.
La panchina in cemento solida nel transito di anime,
i silenzi suggeriscono che non passerai
mentre il Cassarate finge di uscire
dai suoi argini e non capisco
chi si trova sulla sponda giusta, chi tra noi vive
chi muore, chi rinasce. Non lo so. Attendo
ancora un po’ poi ne riparliamo.
III
Di nuovo scale, mobili questa volta,
e mi chiedo perché scendi se non puoi tornare
— ovviamente, sono mobili — qui con me
sulla cima. Ancora parli e dici «Ti aspetto,
vieni a trovarmi che beviamo qualcosa»:
dirò che va bene, che se lavora resto poco
e che se anche di me resta poco
tanto vale buttarsi o regalarsi a qualcuno.
IV
Un furgone giallo
porta luce alle sette e venti invernali, puntuale
accosta puntando i fanali alla mia casa
ammiccando forse per errore. Nella cartella
un altro pasto a cui rinunciare, in testa
giusto qualche parola per tenermi insieme
in mano una colazione che ti cedo
e andiamo.
Seconda favola
il cane trema nei muscoli, nel pelo
Giovanni Raboni
La coda del cane che siamo diventati,
xilofoni di vertebre martellati, tintinnanti.
Vladimir P/M non nella neve, non rivoluzione
ma nel moto del proiettile più e più volte
ricostruito, il suo percorso che non dice
nulla, trapassa storie fino a noi
azzera il tintinnio in muto di voragine.
*
Dalla finestra, in alto, rigidamente appostate appaiono
esili zone di confine inghiottite da piante invasive
residui minimi di collassi antropici, ecco
c’è anche una parete, un muro dove sbattere il cranio
per lo sforzo di comprendere, o di arrendersi.
È possibile osservare con attenzione facce grigie,
cosa le tormenti, poi, non sembra più un mistero,
si potrebbe indagare la loro angoscia
ma chiudendo le persiane ricordo che è
il risultato di ciò che siamo: paesaggio-
ibrido-non-distrutto, non qui.
*
da UN’ALTRA VOLTA
Occasioni confezionate
2
Due rampe di scale mobili separano esili sagome
in una trappola tesa dal museo.
Dondolarsi tra una cornice e l’altra non vale a nulla
se ci si ritrova intrappolati tra paesaggi di rupi
e scorci montanari (forse Segantini o Hodler).
Dalla vetrata qualcuno osserva caleidoscopiche
le periferie che si arrampicano incespicando sui monti
sommarsi al riflesso di corpi lontani,
avvinghiati, inturgiditi dal freddo.
Un germano reale ne distorce altre proiezioni
riflesse a tela di ragno sullo specchio del lago
mentre a viale Cassarate le macerie (come ad est)
riposano accatastate dopo una notte al pianto delle ruspe
che da sempre reprimono ogni dissidenza
piallando senza remore ogni forma di dissenso.
*
La sala montata del treno batte imperterrita questo tempo
osservo dal finestrino lo sbiadirsi di granito e cemento grigio
tra i palazzi della periferia direzione Porta Nuova
mentre sul fondo di riflesso scherzoso appare un lembo della tua sagoma
a rimarcare le lunghe distanze percorse insieme.
La sala montata del treno ribatte continua
il mondo è scandito da minimi istanti quasi privi di punteggiatura
e se il resto oltre al vetro scompare di netto fregandosene
ripercorro la gamba nuda che conosco fino al pube.
Mi dai la mano, ti sento, sorridi, ci sei.
*
Postfazione
di Massimo Gezzi
Conosco Mattia Bettoni da più di dieci anni: da quando, in un giorno del 2013, entrai per la prima volta in una classe del Liceo cantonale di Lugano 1. In primo banco, se non ricordo male, c’era proprio lui: un ragazzo un po’ arrabbiato di sedici anni dai capelli lunghi e lo sguardo curioso, affilato, che nel corso delle settimane e dei mesi, in una classe non proprio semplicissima, si appassionò alla letteratura, specialmente alla poesia, scoprendo che nelle parole dei poeti più apparentemente disillusi (Leopardi, Montale) c’era in realtà un combustibile che lo riguardava e gli dava forza. Da allora Mattia ha percorso una lunga strada che lo ha portato dapprima all’Università di Friburgo (la Friburgo svizzera dove insegnò Contini) e poi all’Università della Svizzera italiana di Lugano, come assistente di Fabio Pusterla. Parallelamente agli studi, Bettoni ha cominciato a scrivere, come capita spesso a chi, da ragazzo, avverte il clic che raccontavo, ma non ha pubblicato quasi nulla sino ad oggi, sino a questo libro d’esordio compiuto e meditato che adesso, grazie a Danilo Mandolini, possiamo leggere.
Bettoni ha lavorato con pazienza e rigore: ha scritto, ha atteso molto, ha lasciato che le poesie prendessero o perdessero la loro forma, ha scelto, demolito e riedificato: le Proiezioni ortogonali che ha disegnato in queste pagine, dunque, sono il frutto di un lavoro attento e di una costruzione a tratti persino iperconsapevole, caratteristica che contraddistingue buona parte della poesia prodotta dalla nuova generazione di poeti-studiosi (spesso poeti-dottorandi). Eppure, allo stesso tempo la poesia di Bettoni si distingue da quella algida e cerebrale di alcuni suoi coetanei per un suo tratto precipuo: la centralità dell’esperienza del soggetto che guarda e scrive, che attraversa la «stratificazione urbana» e la «città dormiente» e la interroga, la perlustra, la provoca anche velenosamente alla ricerca tenace, e non per forza vittoriosa, di un senso.
Il tentativo di Bettoni è coraggioso e a tratti spietato: è una voce poetica, la sua, che non vuole e non sa mentire né sulla dimensione del microcosmo o della biografia personale, né su quella sovrapersonale e politica. Due pennellate di nero incorniciano questo libro: quello incipitario che zampilla da una ferita raschiata con le unghie da cui «fuoriesce del catrame, lurido nostro del noi sottocutaneo», con quel corsivo mirato che sottolinea la declinazione al plurale del «più lurido dei pronomi» di gaddiana memoria (l’io, per Gadda; per Bettoni e la sua generazione invece il noi); e il nero che si accumula sui muri di una stanza, negli anni, in un testo della seconda sezione ispirata a Majakovskij: «Quel nero è la storia, / la nostra, / che si deposita molecola su molecola sulla bianca vernice degli anni». Da dove proviene questo nero? Da due consapevolezze radicate e speculari, a mio modo di vedere: la prima è quella, dolorosa, della «fine, mia nostra», testimoniata e persino subita più volte, come dimostrano neanche troppo obliquamente i testi dedicati ad amici e cari suicidi, annunciati in filigrana dal Coro ammutolito che apre il libro («e dico di morti, amicizie, colpe a capogiro / che ritornano rovistando tra le piaghe un’altra volta»). È un mondo fragile e insidioso, quello della «città dormiente / dove nessuno sentirà il tuo grido»: un mondo di lamiere e catrame, di indifferenza e dimenticanza reciproche («Non serve più attendere siamo arrivati sul fondo / ci siamo dimenticati / non si può dire cosa»), di nevrastenia e risate svanite negli anni, come certifica un testo molto intenso intitolato Altre zone di limite, dove a un orologio che annuncia lapidariamente «l’ora esatta per tutta la vita» viene contrapposto, come simbolo positivo e liberatorio, «l’orologio privo di lancette» della sequenza iniziale del Posto delle fragole di Bergman. Lo sguardo e il pensiero di Mattia Bettoni attraversano questa realtà, ne testimoniano il carattere tendenzialmente annichilente, senza riuscire a conquistare, sulle orme di un Sereni pure più volte evocato, il contrappeso della gioia capace di scardinare per un istante la ripetizione dell’esistere, di strapparci di dosso «la camicia di forza che ci stringe»: «Ripetere / è allora la forma di espressione più frequente, / una proiezione ortogonale che invade / lo spazio del possibile reiterandosi un’altra volta ancora», afferma un testo-chiave della raccolta.
L’altra consapevolezza, speculare alla prima, riguarda il macrocosmo, in particolare la dimensione della storia e della politica che fa da sfondo alle nostre vicende individuali. Anche qui, la poesia di Bettoni non risparmia e non consola, perché nasce dalla coscienza che «ammazzare / è ancora il nostro business più proficuo», che le ruspe «da sempre reprimono ogni dissidenza / piallando senza remore ogni forma di dissenso» (e chi vive in Ticino capirà perfettamente a quale episodio Mattia faccia riferimento, ovvero la demolizione a colpi di ruspa del Centro Sociale Il Molino da parte dell’Amministrazione comunale di Lugano nel maggio 2021). Mattia sa che la storia è «costruita su cadaveri» e il suo sguardo, fortinianamente, non vuole rimuovere questa verità, fissando al contrario le rovine della nostra civiltà come un Angelus Novus, con una voce ora melodiosa ora spigolosa, modulata da un verso che sa allungarsi e accorciarsi a fisarmonica, lambendo da una parte la misura breve del settenario (vedi per esempio la bella Ho raccolto spighe di tempo…), dall’altra, occasionalmente, l’orizzontalità della prosa riflessiva.
Ma se l’escatologia e la politica non riescono a sfondare la parete dell’eterno presente da cui chi dice io (o noi) si sente schiacciato, cosa può autorizzare la speranza, per citare il titolo di un saggio di Italo Testa che Bettoni ha convocato in epigrafe? Una «zona di limite», parrebbe, «un appiglio» che ci si augura di poter rinvenire da qualche parte in questa realtà: non per fuggire, come augurava Montale al suo “tu” sulla soglia degli Ossi, dal reliquiario del presente, perché da quello non c’è scampo. Semmai per provare a resistere, a spezzare le lancette del tempo: ad accorgersi che, insieme al disastro e nonostante «la gravità di un sistema pieno di falle», una presenza, delle presenze possono apparire e indicare un senso: «Mi dai la mano, ti sento, sorridi, ci sei». È con loro che si dovrà provare a spazzare via le rovine della storia e a trasformare l’«assenza di» dell’ultimo, (anti)sereniano testo in un’ipotesi di futuro, per la vita e per la scrittura.
[Immagine: Berenice Abbott, New York at Night, 1932 (particolare)].