di Ornella Tajani

 

[Un estratto dalle “Conclusioni” di Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell’opera di Annie Ernaux, di Ornella Tajani, da poco uscito per Marsilio]

 

Nel 2024 è apparso in libreria un testo dal titolo Les Soldes chez But, firmato da una tale Annie Ernox. Vediamone un estratto:

 

Légèrement exaltée, elle lui parle de son travail, lui dit que son «je» n’est pas un «je» bourgeois et narcissique comme ceux de Christine Angot et d’Emmanuel Carrère; son «elle» n’est pas un «elle» pour P.O.L., Grasset ou Actes Sud. Il est un elle singulier. Son «je» à elle, c’est le «je» de Rousseau. (1)

 

La vorticosa giostra di distinzioni pronominali mira evidentemente a sortire un effetto umoristico: il libro in questione è infatti un pastiche di Pascal Fioretto, come indicato al centro della copertina, in caratteri più piccoli rispetto al nome storpiato dell’autrice. Seguendo una ricetta classica di questa ibrida pratica letteraria, ancora vivace in Francia, Fioretto riprende temi e forme ernausiani portandoli al parossismo: nomi di supermercati, marche di vestiti, evocazioni di parcheggi o treni della RER affollano le pagine, insieme a insistite riflessioni sulla pratica di scrittura, che fanno il verso al metadiscorso; la modalità dell’autrice di parlare di sé alla terza persona, inoltre, consente a Fioretto una forma di derisione ulteriore, che travalica il gioco mimetico condotto dall’io e, attraverso la presa di distanza, si avvicina maggiormente a una vera e propria beffa.

La pubblicazione di un pastiche è un segnale inequivocabile di celebrità, perché il piacere della sua lettura risiede nel riconoscimento: solo i tic stilistici di un autore o di un’autrice famosi possono divertire. E, se è vero che c’è stato anche un Nobel a coronare il successo di Ernaux, il libro di Fioretto ci dice che i suoi libri hanno una cifra precisa, che la sua prosa è ormai decodificabile.

L’opera ernausiana ha fatto scuola nel mondo letterario francofono (2) e costituisce oggi un esempio inaggirabile per coloro che praticano forme autobiografiche, soprattutto se l’autore o autrice ha un’esperienza di transfuga di classe: la diffusione di racconti in prima persona che narrano un percorso di ascesa sociale ha motivato la creazione di un’etichetta da tempo abbondantemente presente nei media francesi, ossia quella di récit de transfuge de classe. Storia e limiti di queste narrazioni sono presi in esame da Laélia Véron e Karine Abiven nel già citato Trahir et venger, in cui si riconosce a Ernaux il ruolo di capofila: La Place può essere considerata l’opera fondativa di un canone (3). Le due autrici mostrano le ambiguità presenti in tale genere, diventato a tal punto appetibile da spingere alcuni autori a rivendicare origine proletarie inautentiche, a «proletarizzarsi» (4) – come se quella di transfuga sociale costituisse ormai una sorta di patente che legittima la presa di parola in prima persona e automaticamente «politicizza» il discorso condotto.

Il récit de transfuge de classe descrive i conflitti sociali vissuti dall’io narrante, si confronta con le ambivalenze del discorso meritocratico (spesso vero e proprio specchietto per le allodole) e insegue l’idea che l’esibizione di un’intimità sofferta rivesta necessariamente una portata politica. Come sottolineato anche da Véron e Abiven, però, è necessario fare un passo oltre lo slogan «le privé est politique» degli anni ’60 (5), elaborarlo, svilupparlo; è qui che spesso fallisce questo tipo di racconto, perché non basta dichiarare il carattere politico di un discorso per renderlo tale, né basta affermarne l’universalità perché tale discorso crei un sentire comune e condiviso.

Rispetto a questa etichetta, l’autosociobiografia, così come definita e affrontata da Ernaux, mi sembra possedere un maggiore spessore critico-letterario, riuscendo più compiutamente a realizzare il salto dal particolare al generale e trasformando in tal modo l’esperienza individuale in una riflessione di più ampio raggio. Potremmo dire che il récit de transfuge è un’autosociobiografia mancata: mentre nel primo si assiste a un ripiegamento della collettività verso l’io, perché chi scrive si propone esplicitamente come rappresentante di un dato gruppo o offre la propria storia come paradigmatica di una condizione, finendo spesso per accentrare l’attenzione solo su di sé, la seconda procede nel modo opposto, alla maniera appunto ernausiana; alla sua base c’è un progetto di descrizione, costruzione, condivisione di uno strato sociale che porta l’io transpersonale a farsi soggetto di una storia di classe. L’autosociobiografia appare meglio meditata da un punto di vista storico e sociale, sfuggendo al paradosso tipico in cui incorrono i récits de transfuge, spesso più circoscritti nella narrazione: quello, cioè, di spiegare come ci si è liberati da un sistema di diseguaglianze proprio mentre si sta descrivendo il pantano che le stesse diseguaglianze creano (6).

Al confine tra saggio autosociobiografico e letterario proporrei di collocare anche il recente bel libro Proust, roman familial della storica Laure Murat (2023) (7), che racconta un «tradimento» di classe di segno opposto: nata in una famiglia della grande aristocrazia francese, l’autrice narra la sua emancipazione, in un continuo ricamo con luoghi e personaggi della Recherche proustiana. La messa a nudo di vezzi e vizi aristocratici, l’analisi – non priva di sofferenza – del distacco dal proprio ambiente hanno una complessità, uno slancio verso il mondo maggiori di quelli che possiamo trovare in tanti récits de transfuge.

Tenere insieme, anziché separare, testi che raccontino percorsi sociali di diversa direzione – ascendenti, nel passaggio dal ceto popolare a quello borghese, o discendenti, nel caso più raro di chi abbia abbandonato il milieu aristocratico – mi sembra più proficuo sia sul piano letterario, perché consente di mettere a fuoco modalità e costanti di una stessa pratica di scrittura, sia sul piano strettamente politico, dove, in ogni battaglia per una società più equa, è essenziale riconoscere una comunanza di pensiero, di orizzonti, anche fra individui che hanno origini e storie differenti.

Nel caso del libro di Murat, l’empatia di chi legge non è mossa dalla mera identificazione nella protagonista della storia, ma dall’onestà e dall’acutezza con cui l’autrice rappresenta il confronto con le proprie radici familiari e, attraverso di esso, il rapporto di un io con l’alterità; dall’incisività con la quale il suo pensiero critico è messo al servizio della narrazione.

È questo che insegna l’autosociobiografia, e in fondo tutta la grande letteratura; ed è questo che, da quarant’anni a questa parte, fa Annie Ernaux con la sua opera.

 

Note

 

(1) Ernox, Les Soldes chez But. Pastiche de Pascal Fioretto, Lausanne, Éditions Herodios, 2024, pp. 33-34.

(2) E certamente non solo: anche a questo è stato dedicato il convegno “Effetto Ernaux”, di cui ho voluto riprendere il titolo in queste conclusioni – convegno che, insieme alle colleghe Anna Baldini e Giulia Scuro, ho organizzato all’Università per Stranieri di Siena nella giornata del 9 dicembre 2024.

(3) Véron-Abiven, Trahir et venger, cit., p. 70 e successive.

(4) Ibid., pp. 13-17.

(5) Ibid., p. 32.

(6) Ibid., 197-198.

(7) In un caso Murat si rifà esplicitamente a Ernaux, riprendendo la sua espressione «Le réel, sans les mots», utilizzata per descrivere il milieu d’origine. Murat commenta: «En l’écoutant, j’ai compris que j’étais issue, presque rigoureusement, du contraire: les mots, sans le réel», L. Murat, Proust, roman familial, Paris, Robert Laffont, 2023, p. 171.

 

[Immagine: Annie Ernaux nel 1988. ©Getty – Sophie Bassouls/Sygma].

 

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