Labronico miracolo in quell’estate del ’57
di Michele Cecchini
Ci sono due giovani missini fermi lungo il ciglio dell’Aurelia, all’altezza di Santa Marinella. Alzano un braccio per chiedere un passaggio alle macchine in transito. Fa un caldo cane, in questi primi giorni di agosto del 1957.
Così il mio papà accosta. Carlo, che è seduto accanto a lui, abbassa il finestrino ma non dice niente e lascia fare al mio papà.
“Dove andate?”, chiede la faccia che è quasi entrata dentro l’abitacolo.
“A Livorno”, risponde il mio papà.
“Noi verso la Liguria”, fa la faccia.
“Se volete…”
“Va benissimo”, rispondono i due in contemporanea, seguiti da un ‘grazie’ che si stacca singolo.
I due giovani missini salgono e si mettono uno di qua e uno di là da me sul sedile posteriore. Un bambino di otto anni può non sapere cosa vuol dire missino, e infatti non lo so. Però ho capito che è un affare serio. Ora lascio correre la macchina di papà ma non il racconto: questa cosa dei missini la lascio in sospeso e ci arrivo dopo. Intanto mi preme dire del panorama della costa tirrenica e delle strade. C’è l’Aurelia solamente, con i suoi alberi, le sue case a ridosso, il traffico a rilento. La percorriamo per andare davvero a Livorno io, il mio papà e Carlo. Mia madre e mia sorella ci aspettano lì. A Livorno ci andiamo a fare una cosa parecchio importante: la villeggiatura
I due ragazzi missini guardano dai vetri e abbracciano i borsoni che tengono sulle gambe e non dicono niente.
Io penso che loro abbiano pensato che quei due lì davanti sono padre figlio. Mio padre è un uomo di 41 anni, veste sportivo, con una camicia chiara. È bello, un po’ abbronzato. Gli occhiali da sole. Lo rendono splendido. L’uomo che gli siede accanto, Carlo, è un anziano vestito sempre un po’ scuro, ma di tutto punto esagerato: completo scuro, camicia bianca, cravatta. È grassoccio, pelato e un po’ imbranato. Emana un odore intenso di acqua di colonia, che a me non dispiace perché grazie a quell’odore lo so nei paraggi. Carlo infatti mi sta molto simpatico per quel suo modo che sembra burbero e invece è divertente. Solo che non è mio nonno. Anche se il mio papà ha verso di lui le stesse attenzioni di accudimento che dà al mio nonno quello vero. Carlo io lo chiamo zio ma non è neppure zio. Si è guadagnato questa parentela per simpatia.
Insomma, i due giovani si sbagliano. Mio padre e Carlo sono amici e basta. Diciamo pure che mio padre va in soccorso a Carlo quando Carlo ha bisogno, il che accade di frequente. Anche oggi, per dire, non era prevista la sua presenza, ma mio padre è andato sotto casa sua lo stesso, sapendolo sofferente, e lo ha convinto a venire con noi. Ho aspettato due ore in macchina prima che tutto fosse pronto: non solo Carlo, ma la sua valigia e la sua casa per essere chiusa. Mio padre mi ha detto che Carlo soffre per colpa di un libro ma questo questa storia non mi è chiara. Però lui stesso – Carlo, intendo – quando è salito in macchina ha detto a mio padre: “Per fortuna sei venuto a rapirmi”. Detto così, c’era da spaventarsi. Valli a capire i grandi. E tutto questo per un libro, poi.
Di Carlo mi fanno simpatia anche le goccioline che gli abitano sotto l’attaccatura dei capelli grigi sull’ammasso di ciccia che gli deborda dal colletto della camicia. Quelle goccioline devono essere presenti anche sulla fronte, che io non gli vedo, però ogni tanto se la asciuga passandoci il fazzoletto a tergicristallo. E ti credo che sudi, così bardato. Ho caldo anche io, nonostante i pantaloncini e la canottiera.
Quello di strofinarsi è l’unico segno di vita che Carlo dà di sé, perché da quando sono saliti questi due, si è ammutolito. Forse non si sente bene, forse si è scocciato: due cose che gli capitano spesso e forse sono collegate.
I due ragazzi, alle considerazioni di mio padre sul tempo, rispondono. Così dalla conversazione escono fuori dettagli poco interessanti, sollecitati dallo sbirciare di mio padre dallo specchietto retrovisore. Quei dettagli – quanti anni hanno, da dove vengono – io di certo non li trattengo ma li lascio scorrere via dal finestrino socchiuso. A questo proposito, mio padre dice a Carlo: “Puoi abbassare un poco? Così circola un po’ d’aria”. È curioso come a chiederlo sia quello in camicia a quello vestito pesante. Ma gli adulti sono strani a questa maniera. Carlo esegue senza fiatare. La sua voce i due ragazzi ancora non l’hanno sentita. Lui si esprime solo a colpi di sudore.
Mio padre poi attacca un pippone culturale su Livorno, il posto dove stiamo andando. “Ci siete mai stati, voialtri?”. I due ragazzi sanno benissimo che c’è sempre un prezzo da pagare per un passaggio, così tirano fuori un no che non vuol dire nulla, né curiosità né disinteresse.
Ma ormai il mio papà ha messo la quarta pure all’argomento. Sicché gli racconta che Manzoni, quando andò a risciacquare i panni in Arno (a me questo dettaglio pare ridicolo, perché saranno fatti suoi di questo Manzoni), si fermò anche a Livorno, lamentandosi del casino che c’era per strada. Invece Alexandre Dumas padre disse che Livorno era una città tra le più pallose, e se ne andò a Portoferraio. Boh, anche qui i grandi valli a capire.
I due credo che abbiano staccato la spina e ogni tanto si limitano a rispondere in automatico per dare soddisfazione a papà e incoraggiarlo a tirare avanti il discorso in modo da finirlo il prima possibile: “Eh, infatti…”, “Ah, ecco…”, “Toh, d’altronde..”. Ogni tanto si guardano tra loro con rassegnazione reciproca e rammarico, come dicessero l’uno all’altro: “Ma proprio noi dovevano capitare questi due?”. In realtà è solo il mio papà che non demorde a ragionare, perché Carlo rimane zitto e in campana e se ne guarda bene.
Finiti gli aneddoti culturali, mio padre la butta sul personale. Racconta che a Livorno ci vive mia zia Jenny. Noi alloggeremo non da lei ma in una pensione poco lontano, anche se la casa di mia zia Jenny è una villa molto bella che per fortuna lei se l’è ripresa perché gliela avevano sequestrata i fasci. Ed è lì che succede qualcosa. Perché quello che papà dice sui fasci è un dettaglio che non scorre via come tutto il resto ma si incaglia lì, dentro l’abitacolo, e non c’è verso di farlo uscire.
Allora viene fuori la faccenda dei missini e del MIS, che chissà perché si dice così, visto che sotto la fiammella appiccicata sul borsone di uno dei due ragazzi c’è scritto MSI. Ad ogni modo, passare dalla casa della zia al governo di quel democristiano di Zoli è un attimo.
Mio padre ha cominciato a discutere sempre più animatamente, finché è andato su tutte le furie e della strada Aurelia non gliene è fregato più niente. Rimaneva di continuo girato verso di noi, anzi verso di loro, che non dicevano più “Toh, d’altronde…” ma gli rispondevano per le rime, come nemmeno mamma ha mai osato. La situazione è diventata così grave da sbloccare persino lo zio Carlo. Finalmente ha aperto bocca, con un tono anche lui parecchio risentito: “Uè, Giorgio, pensa a guidare va…”, col suo marcato accento lombardo che mi fa molto ridere.
Il mio papà prima non lo ha considerato proprio, poi siccome Carlo ha insistito perché si è spaventato, allora gli ha detto che doveva dirgliene quattro, a questi due. Un po’ qua e un po’ là, e io incastrato nel mezzo ad ascoltare.
La cosa si è conclusa quando è venuto fuori che questi due stanno andando in Liguria ad un raduno di ragazzi missini quanto loro. Mio padre, che non voleva sentirsi corresponsabile di questo raduno, all’improvviso ha accostato e li ha fatti scendere. Poco importa che non fossimo a Livorno ma solo qualche chilometro dopo Grosseto.
Quando sono scesi, insieme a loro se n’è andata tutta l’aria pesante che si era raggrumata dentro l’abitacolo, e siamo tornati a respirare. Il più sollevato di tutti era lo zio Carlo, che aveva scongiurato un attacco di panico sudando l’inverosimile.
Così ora è il mio papà a rimanere zitto, per masticare l’arrabbiatura. Si interrompe solo per raccomandare a Carlo di togliersi la giacca e allentarsi la cravatta. Penso che se fossero ancora qui, quei due ragazzi avrebbero pensato che ora Carlo è il figlio. Cioè mio fratello più grande.
“Ma figurati”, fa Carlo al mio papà. “Io sudo freddo, di paura. Sono stati giorni infernali”.
Ancora la storia del libro. Carlo si lamenta che ha avuto troppo successo. Che forse ci faranno un film. E io che pensavo che queste cose dovessero far piacere, anziché sudare.
Il mio papà gli dice che ne parleranno anche con Pier, anche lui in arrivo a Livorno.
“Pure del suo libro si parla molto. Magari vi consolerete a vicenda”, dice papà.
“Quando arriva?, gli chiede Carlo.
“Tra un paio di giorni”.
“Viene da solo?”.
“No, con la sua mamma”.
“Io sono l’unico, qui, da solo”, conclude Carlo.
La malinconia tremenda di questa frase rimane lì appesa come il corno che il mio papà tiene allo specchietto retrovisore, finché non percorriamo un tratto di montagna a picco sul mare. Si chiama il Romito, e sono una serie di curve spaventose.
Carlo rompe il silenzio, finalmente, dicendo che per fortuna ci siamo liberati di quei due, perché queste curve sarebbero state incompatibili con la litigata e di sicuro saremmo finiti giù da uno degli strapiombi. “Roba da farci un film”, aggiunge.
Ed è così che trascorriamo questo agosto del 1957: in villeggiatura alla pensione “Aurora” di Antignano, un posto appena fuori Livorno. Carlo no, lui ha preferito sistemarsi in una stanza per conto suo, poco lontano, ma solo per dormire, perché per il resto stiamo sempre insieme. A parte al mare, ovviamente. Carlo ci viene poche volte, sempre vestito di tutto punto. Non si leva nemmeno i mocassini e rimane sotto l’ombrellone. Una volta sola ha fatto il bagno e per tutti è stato un momento indimenticabile.
Lui preferisce i lecci all’ombrellone. Gli piace stare la sera sotto quelli del giardino della nostra pensione. Ceniamo, giochiamo a carte e i grandi chiacchierano di tutto fino a tardi, anche dopo che siamo andati a letto. Carlo ci fa ridere da morire con le sue burlette, che tira fuori serio serio. Forse si è rasserenato, dopo il disastroso successo del libro. Anche se ogni tanto si chiude nella sua stanza dicendo di sentirsi poco bene. Pure il mio papà per qualche giorno è stato preso da malessere, ma credo che il libro per lui non centri nulla, perché lo sta scrivendo proprio in questo periodo.
Ogni tanto papà e gli altri prendono la macchina e vanno a trovare degli amici a Quercianella o a Castiglioncello. Una volta sono andato con loro. Siamo arrivati fino a Grosseto. Per un momento ho pensato che il mio papà volesse cercare quei due missini e proseguire a litigata, invece siamo andati da un altro Carlo. Ci ha fatto vedere la biblioteca, un posto in cui non ero mai stato. Hanno parlato a lungo di un certo Luciano, uno che lavorava lì, poi andato a Milano sempre per colpa dei libri ma poi l’hanno licenziato. Ormai ho capito che i libri sono una cosa estremamente pericolosa.
Carlo ne aveva fatto uno con questo Luciano, che parlava di minatori e io mi chiedevo cosa ne sapesse di minatori uno che lavorava in biblioteca e questo Carlo che anche lui tanto minatore non pare. Forse per scrivere di qualcosa non occorre farlo. Chissà. Ma parlava di queste cose proprio con passione.
Ecco, io per raccontare questo piccolo episodio legato alla letteratura italiana ho scelto il punto di vista di un bambino. Come avrei potuto altrimenti. Perché in questo episodio ci troviamo davanti a dei punti luminosissimi, a dei fari, a dei fuochi. Del resto, lo dice anche il nome della località in cui quest’episodio si svolge: Antignano – da ‘ante ignem’, davanti ai fuochi. Quelli di segnalazione per le navi dirette a Porto Pisano.
I due ragazzi del Movimento Sociale chissà se seppero mai di aver percorso un tratto di Aurelia in compagnia di Carlo Emilio Gadda e Giorgio Bassani, in quell’estate del 1957. I due scrittori stavano effettivamente andando ad Antignano in villeggiatura. Anzi, come disse Gadda, a “riposare, meriggiare, inconcludere”.
Bassani stava ultimando “Gli occhiali d’oro”, Gadda aveva davvero da smaltire il successo del “Pasticciaccio”, uscito pochi mesi prima. Un successo che gli aveva provocato disagio e scoramento: “Sono diventato una specie di Lollobrigido, di Sofio Loren senza avere i doni delle due impareggiabile campionesse”, scrive in quei giorni.
La presenza di Bassani lo rassicurava. Il quale Bassani alloggiava con la famiglia (la moglie Valeria, la figlia Paola e appunto Enrico, all’epoca di 8 anni) alla pensione “Aurora”, una vecchia villa ottocentesca da dove il Granduca Leopoldo II lanciò la moda del bagno in mare. Che Gadda fece davvero una sola volta.
Oltre a Bassani, il Pier cui si fa riferimento è Pier Paolo Pasolini, che insieme alla madre Susanna, decise di trascorrere in compagnia dei due amici quell’agosto. Chissà se aveva da smaltire anche lui gli effetti collaterali della recentissima uscita di “Le ceneri di Gramsci”.
Insomma, un piccolo miracolo. Tre fuochi della letteratura riuniti per un mese sotto i lecci di Antignano. Ogni tanto da lì si recavano a Quercianella da Natalia Ginzburg e a Castiglioncello da Suso Cecchi D’amico. Quando nel testo si parla della gita a Grosseto, il Carlo che incontrano è Cassola. Parlano ovviamente di Bianciardi, che con Cassola aveva pubblicato l’anno prima “I minatori della Maremma” e in quello stesso anno “Il lavoro culturale”.
Sono passato quasi 70 anni da quell’estate del 1957. Da noi, a mo’ di sdebitamento per qualche grazia ricevuta (tipo i ragazzi dopo aver superato l’esame di maturità) c’è l’usanza di recarsi a piedi fino al santuario di Montenero. Una salita diversi chilometri. Io invece questa mattina ho deciso di andare a piedi ad Antignano. Dall’Ardenza (per rimanere in tema di fuoco), dove abito, 3 km, oltretutto pianeggianti.
Qui mi trovo con il mio amico Tiziano Arrigoni. Devo alla sua generosità l’aver appreso di questa storia. È stato Tiziano a fornirmi tutte le informazioni utili alla stesura della presente, piccola cronaca in cui ho compensato la carenza di dettagli con un po’ di fantasia, ma neppure troppa. Tiziano, da vero segugio, ha scovato indizi, lettere, testimonianze, ricostruendo scrupolosamente ciò che avvenne qui in quell’estate. Perché lo abbia fatto non lo so, come nemmeno saprei dire perché la cosa mi incuriosisce così tanto, al di là della località livornese e di ciò che mi lega alle opere di questi autori. Forse il fatto che sono tre personalità tanto diverse diverse tra loro, o forse perché sono abituato a pensarli individualmente, ciascuno perso nella solitudine delle proprie carte.
Tiziano mi porta dove c’era un tempo la pensione “Aurora”. La strada ha sempre lo stesso nome, via Fratelli Del Conte. L’edificio è quello. Ma è un’abitazione privata. Sbirciamo zitti zitti nel giardino e i lecci ci sono ancora, eccome. I lecci tanto cari a Gadda.
Tiziano mi conferma che l’aneddoto dei due giovani del Movimento Sociale è vero. Giulio Cattaneo, in un suo libro su Gadda, scrive testualmente: “Andò in villeggiatura con Bassani, spaventandosi però un giorno in macchina poiché Bassani guidava litigando con due giovani missini seduti dietro, voltandosi continuamente nella foga polemica”.
Adesso che siamo sotto a questi lecci, io e Tiziano pensiamo alla meraviglia di questi dettagli e ci sforziamo di inalare l’aria buona di letteratura che ancora traspira da questo giardino, sperando di ricavarne tutti i benefici. Rimaniamo in silenzio e in ascolto, nella speranza di intercettare l’eco di quelle conversazioni sotto i lecci. Quei fuochi segnalano anche a noi la rotta da tenere.
Mentre ce ne andiamo, Tiziano si raccomanda che dal mio testo emerga per bene Livorno. In effetti, tra quel passaggio della 1100 di Bassani e il successivo della Lancia Aurelia di Bruno Cortona de “Il sorpasso”, in mezzo ci sta un’altra 1100, quella di Pasolini, che nel 1959 passa da Livorno e la descrive così: “Livorno è la città d’Italia dove, dopo Roma e Ferrara, mi piacerebbe più vivere. (…) Si ha poco l’impressione di essere in Italia. Intorno, nelle fabbriche dei cantieri verso il Nord, ferve un lavoro che non ha un’aria familiare, e per questo è tanto più amica, rassicurante. Livorno è una città di gente dura, poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante. (…) Pei grandi lungomari disordinati, grandiosi, c’è sempre un’aria di festa, come nel meridione: ma è una festa piena di rispetto per la festa degli altri”.
Un’ora dopo che ci siamo lasciati, mi arriva un messaggio sul telefono da Tiziano. “Mi raccomando, Livorno. Ti mando anche questa frase di Alberto Arbasino mentre era in America: ‘Long Beach pare una enorme Livorno, così orizzontale che guardando avanti per ogni boulevard non si vede niente’”.
Penso che sia un’ottima immagine con cui concludere. Davanti, di fuochi non ce ne sono. Meglio guardare in alto, ai lecci.
[Immagine: Carlo Domenici, Porto di Livorno]
Che regalo! Grazie. Come ci mancano quei fuochi nel freddo di questi faticosi passaggi d’epoca.
E chissà Livorno, oggi. Bisognerà che ci passi.
Gentile Michele Cecchini, ho trovato particolarmente appassionante e cristallina la prima parte di questo articolo, quella sotto forma di racconto. Immedesimandoci negli occhi straniati di quel bambino di otto anni, giustamente ignaro, ho avvertito come fatti di carne quegli autori di solito così noiosamente libreschi, che qui emergono con i loro sudori, i loro umori, i lori impacci, le contraddizioni, l’immersione fisica nelle preoccupazioni del loro tempo personale, e contemporaneamente nel tessuto della più grande Storia. Purtroppo mi ha spiazzato il cambio repentino, la rottura dell’incanto narrativo della seconda parte. Sarei molto entusiasta di vedere rimaneggiato e ampliato questo racconto; come lei stesso dice, è un’ottima sceneggiatura da film: sarà la suggestione della visione, in questi giorni, di “Adolescence”, ma la scatola chiusa e asfittica dell’automobile, il personalità incendiarie dei personaggi, il conflitto che monta piano a piano – prima raffrenato nel rispetto dell’ospitalità, e poi sempre più roboante – mi sembrano perfette macchine narrative, per raccontare una storia sia la storia intima del bambino, sia la storia privata dei due grandi autori, sia la storia politica e sociale dell’Italia di quel tempo (e che paurosamente estende la sua ombra ancora al giorno d’oggi). Potrebbe uscirne un ottimo racconto o una altrettanto ottima sceneggiatura: la voce del bambino che narra (guardando in camera, o fuori dal finestrino), le voci che si intrecciano degli altri personaggi, il ritmo rapido e forsennato che cresce sempre più, la tensione, la violenza, i sogni e le speranze. Insomma, ne potrebbe uscire qualcosa di veramente buono. Questo è quanto mi sembrava genuino dirle, in questa assolata domenica mattina. In fede, MP