di Alessandro De Cesaris

 

C’era una volta il coding

 

Ricordo ancora la sensazione che provai quando scrissi il mio primo programma in BASIC. Si trattava di un algoritmo elementare, ma inserirlo nel compilatore e vederlo girare mi diede uno strano senso di potere. Mi sentivo parte di un’aristocrazia, di una nuova classe sacerdotale che custodiva un segreto straordinario ed esclusivo. Saper balbettare qualche istruzione in quel semplice linguaggio creava lo stesso, odioso senso d’appartenenza a un’élite che qualche mese prima mi aveva dato la conoscenza dell’alfabeto greco, misera arma con cui chi studiava al Liceo classico cercava di compensare la totale incompetenza nel campo delle formule matematiche.

 

Per chi ha iniziato a usare gli strumenti elettronici negli anni ‘90, la programmazione ha rappresentato un segno distintivo delle tecnologie digitali, ovvero il totale scollamento tra uso e conoscenza. Non si trattava di un dettaglio, ma di un modo di essere soggetti: la figura dell’Utente – forma di soggettività che nasce ben prima delle tecnologie informatiche, ma che con queste trova la sua massima espressione – si separa una volta per tutte da quella dell’Esperto: possiamo imparare a usare uno smartphone, ma non possiederemo comunque le conoscenze necessarie a capire davvero come funziona. Oltre che un problema tecnico, si tratta chiaramente di un problema politico: quali sono gli a priori tecnici nascosti in un dispositivo? Quali scelte sono state già fatte al posto nostro, senza che possiamo davvero modificarle?

 

Già nel 1995, nel suo bestseller Being Digital, Nicholas Negroponte pensava alle interfacce grafiche come un momento di passaggio nell’interazione tra esseri umani e computer. Certo, le icone e le altre immagini sui nostri schermi facilitano l’uso dei nostri dispositivi, ma per Negroponte questo non era sufficiente: occorre arrivare a comunicare con le macchine come con gli altri esseri umani, in modo naturale.

E così, dopo lo sviluppo delle interfacce vocali, siamo arrivati al prompting. Niente più coding: possiamo finalmente dare istruzioni ai nostri dispositivi utilizzando il “linguaggio naturale”, ovvero l’italiano, l’inglese, la nostra lingua d’elezione. Si tratta di una pratica per certi versi inedita, alla base di software come ChatGPT (i cosiddetti Large Language Model) o Midjourney e DALL-E (i software “Text to image”). Una pratica che permette di porre molte domande, e di porsi diversi problemi sul modo in cui la tecnologia sta trasformando il nostro modo di agire e di interpretare la realtà. Proprio da alcune di queste domande e da alcuni di questi problemi parte il libro di Niccolò Monti, Prompting. Poetiche e politiche dell’intelligenza artificiale (Tlon, 2025), che si presenta come una breve e agile incursione in un territorio che offre molto da pensare.

 

Prompti, partenza, via

 

Il libro di Monti offre uno sguardo sintetico – circa 80 pagine – sul passato da cui il prompting arriva e sul futuro verso cui esso sembra andare, presentandolo al tempo stesso come una tecnologia e come una pratica. Come tecnologia, perché la storia del prompting è la storia dell’intelligenza artificiale e più in generale dell’automazione, ma anche dei sogni e degli immaginari legati all’idea di una macchina intelligente. Come pratica, perché l’irruzione nella sfera pubblica di questi software, non a caso detti generativi, pone nuove questioni di carattere etico ed estetico. Qui si trovano le poetiche e le politiche dell’intelligenza artificiale cui fa riferimento il sottotitolo del saggio: politiche, perché Monti spiega molto chiaramente che la questione dell’intelligenza artificiale riguarda l’utilizzo delle risorse energetiche, la distribuzione delle informazioni, la legittimità dell’uso dei dati. Al di là dell’immaginario immateriale delle tecnologie digitali, questi software richiedono l’impiego di risorse energetiche ingenti, e la loro messa a punto è possibile solo in seguito al processamento di una quantità straordinaria di dati. Chi controlla la natura e la provenienza di questi dati? Chi stabilisce la sostenibilità dei costi energetici per l’utilizzo su scala mondiale di una tecnologia così dispendiosa?

 

Poetiche, perché non è facile stabilire che cosa questi modelli generativi effettivamente generino: nelle parole dell’autore, «cosa accade nel momento in cui un atto di creazione è mediato da un atto di computazione?». Quando interagiamo con un modello generativo, stiamo interagendo con un oggetto tecnico o con un soggetto tecnico? Possiamo intendere ChatGPT alla stregua di un pennello, o abbiamo a che fare con una nuova forma di intelligenza produttrice, alla quale riconoscere diritti?

Queste domande, più che richiedere risposte, rivelano un dilemma persistente nel dibattito contemporaneo sulle tecnologie informatiche, e in particolare sull’intelligenza artificiale: dobbiamo intendere queste tecnologie come strumenti o come media? Si tratta di mezzi impiegabili per raggiungere dei fini, o di ambienti tecnologiche che riformano la nostra stessa idea di cosa è naturale e cosa è tecnico, di cosa significa agire e produrre?

 

Monti affronta questo coagulo di difficoltà a partire da tre parole-chiave: spazialità, autorialità, creatività. Spazialità, perché il tema politico fondamentale alla base del prompting e dei software generativi è la questione dei dataset, ovvero delle enormi moli di dati che questi modelli, tramite il prompting, permettono di attraversare costruendo architetture e collegamenti inaspettati. Autorialità, perché il dibattito sul prompting ripropone una questione accesa nella nostra cultura almeno fin dai tempi di Platone: chi è il soggetto dell’arte? In altre epoche si è sostenuto che l’artista non è il vero soggetto creativo: lo è il Dio che ispira, oppure la società con le sue condizioni materiali e culturali di produzione, oppure l’opera è semplicemente determinata, quasi algoritmicamente, dai criteri che stabiliscono la forma di ogni genere compositivo. Oggi l’obiezione si ripropone con la tentazione quasi metafisica di porre un nuovo tipo di soggetto, quello macchinico, accanto all’utente che lo interroga per ottenere un testo o un immagine.

Infine c’è la questione della creatività. Qui Monti sottolinea l’importanza di uscire dal modello mimetico, ovvero di interpretare le operazioni di questi modelli generativi come se fossero un’imitazione, una copiatura di ciò che fanno gli esseri umani. Si tratta di un immaginario riproposto continuamente nel dibattito, e che tuttavia risulta fuorviante. La risposta è quasi sibillina: «La creatività umana non viene copiata, bensì automatizzata».

 

Il Promptismo è un Umanismo

 

Proprio intorno a questa parola, “automatico”, si avvolge uno dei nodi più interessanti e problematici del libro di Monti. Nella sua preistoria culturale del prompting, l’autore evoca la storia di quello che potremmo chiamare il “sogno automatico”, il desiderio cioè di far scaturire la produzione dell’opera da un processo non controllato coscientemente dall’artista. Pervasiva nelle avanguardie artistiche, in particolare nel surrealismo e nel futurismo, questa idea ha reso possibile un nuovo sguardo al mondo delle macchine, che coglieva in esse il segreto di un inedito potenziale creativo. In una formula: «automatico e creativo non si escludono».

Ma cosa significa, qui, automatico? Come rileva già lo stesso Monti, nel caso dei surrealisti il riferimento immediato è ai territori inesplorati dell’inconscio. Nel caso dei futuristi, invece, si tratta di un desiderio di emulazione, una fascinazione per la potenza e la velocità della macchina che costituisce forse il contraltare di quello che qualche anno dopo Günther Anders avrebbe chiamato “vergogna prometeica”. E poi c’è la nota ambiguità del termine “automaton”, parola che in Greco fa riferimento al caso, ma che arriva poi a indicare l’essere della macchina. Questa ambiguità viene raccolta in pieno dalle tecnologie dell’intelligenza artificiale, al tempo stesso meccaniche e imprevedibili.

 

Eppure, l’analogia sembra fermarsi qui. I surrealisti speravano di mettere a punto un processo puramente creativo, non viziato dall’adesione a regole formali o dall’abitudine della vita desta. Già qualche anno dopo gli oulipiani – Raymond Queneau, Georges Perec, il nostro Calvino – contestavano loro che la creatività non si oppone alla regola, ma nasce da essa e da un suo uso consapevole. E qui, forse, si nasconde uno dei frantendimenti più pericolosi all’interno del dibattito sul prompting: l’idea che esso consista in una delega cognitiva e operativa completa, che esso sia una sorta di “lasciar fare” privo di attrito alla macchina ciò che dovremmo – o vorremmo – fare noi.

Eppure, chiunque abbia provato a promptare, a dare istruzioni a uno di questi software per ottenere un testo o un’immagine, sa quanto deludenti possono essere i risultati. Il libro di Monti comincia con l’evocazione di un episodio recente, la prompt battle organizzata da due docenti universitari in un quartiere di Dresda. La conseguenza più immediata di questo racconto è che il prompting è una pratica, una vera e propria tecnica che si può apprendere e dominare. Una prompt battle è possibile perché si può promptare meglio o peggio. Torna in mente l’affermazione già citata di Negroponte, che immaginava un futuro in cui si potesse “conversare normalmente” con le macchine. Un’affermazione intrisa di ottimismo neoliberale: come se la conversazione fosse mai stata una cosa facile, normale, immediata.

 

Certo, il prompting ci semplifica la vita. Più che uno strumento, secondo alcuni, andrebbe concettualizzato come un vero e proprio collaboratore, un soggetto tecnico con cui interagiamo e che svolge parte del nostro lavoro. In questo senso, è stupefacente come il dibattito sulle tecnologie dell’intelligenza artificiale rifletta l’impensato delle nostre società. Continuiamo a chiederci se le macchine possono essere soggetti perché preferiamo non pensare a tutti i casi in cui i soggetti si comportano come macchine. La nostra eredità culturale ci ha abituato a trovare sconveniente pensare agli esseri umani come mezzi, ma la storia dei “collaboratori cognitivi” non comincia certo con ChatGPT: dagli schiavi alle mogli, dai maggiordomi agli assistenti universitari, la nostra cultura offre infiniti esempi di soggettività gregarie, diminuite, che servono da protesi per vere e proprie forme di soggettività aumentata. L’introduzione dei modelli generativi potrebbe essere letta come una nuova fase in questo lungo percorso, con i suoi limiti, i suoi pericoli e le sue potenzialità tutte da esplorare e negoziare. I due problemi affrontati da Monti, quello estetico e quello politico, si intrecciano così intorno alla solita questione dell’essere umano e del suo rapporto con la tecnologia, in un gioco di rimandi che sembra frustrare qualsiasi tentativo di stabilire rapporti univoci.

 

In effetti, dopo i meme, i deepfake e l’antropocene, il prompting sembra un buon candidato per la prossima ondata ossessiva di studi nel campo delle scienze umane. In un panorama che si promette complesso, Prompting riesce nel difficile compito di fornire alcune coordinate fondamentali di riferimento, che consentano di articolare i problemi e di individuare le linee possibili d’intervento all’interno di un dibattito che si promette tentacolare.

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