di Piero Salabè

 

[Esce oggi per La Nave di Teseo Mortacci mia, il primo romanzo di Piero Salabè. Pubblichiamo un estratto del primo capitolo].

 

1.

 

“Lo senti il profumo del rincospermo, Aič? Le strade attorno al perimetro ne sono invase. L’ha piantato lui.”
“Piccole stelle bianche… A maggio scoppia l’epidemia, ma il Policlinico non esiste più, lo sai.”
“Chiudi gli occhi, e respira a fondo. Non senti come ci chiama? È lui.”
“Davvero mi vuoi ancora con te?”
“A piedi nudi.”

 

 

Il tappeto azzurro del salone ha un buco. Un buco grande al margine destro che i tarli allargano allegramente, anno dopo anno. A nessuno importa, neppure a me. Per me basta che ci sia ancora questo tappeto, che mi ci possa sdraiare sopra e lasciare che le cose passino. Mi manca l’aria in mezzo alle foto ingiallite, alla carta da parati rigonfia, sotto il lampadario di Murano, accanto ai tavolini con le sigarettiere e i tagliacarte d’argento. Ma nessuno fuma più né scrive lettere. E il vaso cinese, quante volte si è rotto? Nessuno ha mai visto il cristallo di cui anche noi eravamo fatti. Quei visi che sbiadiscono ogni anno di più. Come si chiamava la splendida zia con la sclerosi? Mi sdraio qui nelle prime ore del pomeriggio, dopo pranzo nessuno viene, adesso che qui ci abita solo mia madre, salvo le visite di noi quattro figli. Tutti emigrati. Anch’io, il letterato, come mi chiamava papà, parola che ancora mi ferisce. Non sono cresciuto, sono solo invecchiato. Da una settimana, all’alba suonano gli operai. Stanno dividendo la casa con un muro di cartongesso. Sono mesi che in famiglia dicono di volere vendere, ma a Roma i prezzi non fanno che scendere. D’altronde, chi mai verrebbe a vivere in questa palude? Sdraiato fisso il soffitto e ascolto i rumori: le poche macchine che passano, un motorino, una madre che sgrida un bambino, il guaito di un cane. Poi nulla. Per due, tre minuti il vento alza lievemente la tenda, un tempo candida come un vestito nuziale, adesso sdrucita e opaca. Nessuno di noi sposato, nessun figlio in arrivo. Con noi tutto finirà. Adesso lo so, è questa mancanza d’aria che sono venuto a cercare, il tempo fermo. Un senso di dolce soffocamento. Una morte imminente che sembra non giungere mai, e che significherebbe davvero restare, farsi eterni. Non si può aspettare oltre per morire, mi dico. Altrimenti si avrà a che fare con un peso più vergognoso, la zavorra di una vita che prosegue. Non so se io non sia già morto. Per molto tempo ho creduto che così fosse avvenuto in una landa luminosa dei miei venti anni. Ma oggi ne dubito. Sarà per questo che torno. A Roma si viene solo a morire.

 

Era scomparso quattro anni fa. Dicevano fosse morto. Mandavano le foto del funerale, la bara sommersa dai fiori. Ma quando avvenne il presunto decesso, e anche prima, quando dicevano che stava per morire, io non c’ero. Non c’era nessuno di noi nella casa di riposo ai Campi di Annibale, sulle pendici del Monte Cavo. Nessuno era in quella stanza al piano terra quel giorno. Neppure gli infermieri che trovarono i suoi occhiali e l’orologio sul comodino accanto alla finestra spalancata. Tutti certi che papà avesse voluto togliere il disturbo nel modo più discreto possibile, come era nella sua natura, lasciandosi cadere in uno dei pozzi artesiani sparsi nei campi. Voragini insondabili. Ma perché allora mancava la borsa da medico che si era fatto portare nella casa di riposo? La polizia fece una battuta superficiale, esaminando anche i pozzi.

“Non possiamo controllarli tutti,” fece sapere il commissario incaricato. “Comunque a quell’età e in quelle condizioni non poteva certo sopravvivere a una caduta.”

Dopo due mesi, furono interrotte le ricerche.

“È stato il suo modo di tornare alla natura,” diceva chi non tratteneva un certo sollievo.

Sono passati ormai quattro anni, ma io non ci sto. Deciderò io quando sarà il momento di congedarmi. Capisco la stanchezza di chi lo accudiva, quella malattia che non finiva, ma sfiniva chi gli stava attorno. Volevano mettere un punto finale. D’accordo. Ma per me lui non ha fatto che fuggire, come le altre volte. Non sarebbe il primo professore scomparso. D’altronde era sempre in fuga.

“Se ne è andato.”

“Il Professor Luigi Pintor, medico stimato e ricercatore di fama internazionale, ci ha lasciato.”

“Uomo fino, anima di poeta, è mancato nell’affetto dei suoi cari.”

Stampate pure i vostri necrologi zeppi di errori, seppellitelo dove vi pare. A me, nessuno dice come io debba trovare mio padre. Tranne Aič.

 

L’ultima volta che l’ho fatta arrabbiare mi ha mandato a quel paese. Se n’è andata su due piedi, ma sapevo che sarebbe tornata. Mi piace litigare con Aič, farla infuriare, vederla piangere. Non posso avere migliore compagnia, è l’unica in famiglia a darmi ascolto. Quando eravamo piccoli vincevo sempre io, anche quando non vincevo. Non solo a calcio nel cortile, ma persino a braccio di ferro. Mi inventavo la regola supplementare che faceva continuare il gioco finché non avrei vinto io. E lei ci stava! C’è sempre stata. E pure adesso con la missione di trovare papà, ci sta. L’ho nominata ufficialmente “Compagna di Missione”. Aič, così onesta e fedele, quel suo sguardo da Calimero, con gli occhiali che le danno un tocco da professoressa e i capelli color pece che nessun detersivo Miralanza potrà mai rischiarare. Alessandro e Maddalena, il fratello e la sorella maggiori, dicono che la sto portando portata su una cattiva strada. Ma è stata lei a volerlo. Davvero quell’anno di differenza mi renderebbe più responsabile?

Adesso si sono messi in testa di vendere la casa. Maddalena non fa che eseguire gli ordini di Alessandro e ha iniziato a spostare le cose. Dicono che siamo folli, io soprattutto, campione a parole, fantasma alla prova dei fatti. Ma neppure loro erano là con nostro padre. Cosa hanno mai fatto per ergersi a giudici? A volte, quando una mente inizia a perdere colpi si dissolve un’intera famiglia.

Nostra zia qualche mese fa è andata in Questura a depositare una dichiarazione: “Io, Fernanda Pintor, avendo piena consapevolezza delle mie condizioni di salute, rendo noto di non intendere lasciare questa terra senza che il mondo sappia che mio fratello, Luigi Pintor, insignito del Sir Sharrington Prize e ricercatore di fama internazionale, è morto per mano altrui.”

Assurdo, proprio lei, rosa dall’invidia per papà. Si illude che piantando zizzania qualcuno poi finirà per filarsela. Una famiglia di vaneggiatori. Confesso, che ogni tanto mi assale il dubbio di aver coinvolto Aič in un miraggio, ma poi è proprio lei a rassicurarmi: “Non è morto.”

 

Secondo Aič nostro padre si era rifugiato temporaneamente nell’ospedale dove aveva lavorato per tutta la vita, il Policlinico Felisberto II. Era là che quando eravamo bambini si ritirava in cerca di solitudine. Forse aveva conservato la chiave di una stanza dove continuare a fare indisturbato i suoi esperimenti, non come a casa dove era sotto costante sorveglianza. Ma l’ospedale, nel frattempo, è stato chiuso, l’intero perimetro recintato da una palizzata bianca alta quattro metri. La scorsa settimana in quella zona è stato avvistato un anziano in stato confusionale. Era entrato nel Bar delle Scienze in Via Vesalio, proprio di fronte all’ingresso principale. Per via del camice, il barista inizialmente l’aveva preso per un medico in servizio in una delle cliniche spuntate dopo la chiusura del Policlinico. Non c’era nessuno ad accompagnarlo in quell’ora dopo pranzo. L’uomo al bancone, vedendolo accasciarsi su una sedia, era andato a chiamare il 112, ma al suo ritorno l’anziano non c’era più.

“È lui,” mi dice Aič.

“Che ne sai,” replico, “può essere chiunque.”

Indispettita, mia sorella esce dalla stanza. “Aič, ma dove vai…”

…io sono pronta, lui invece sempre a frenarmi, a contraddirmi… vorrebbe spiegarmi cosa sia la cosa migliore per me, ma non sa nulla di me, di quello che sento per papà… mi dice “pazza isterica”, lui che passa ore sdraiato sul tappeto azzurro a elucubrare non si sa cosa … Alessandro e Maddalena dicono che mi dovrei liberare di lui, che sono sua succube, ma in realtà è lui a venirmi dietro… la mia forza è grande, lui deve sentirla, ed è per questo cerca di tenermi sotto, mi vuole piccola, ma io non sono piccola …

 

Oggi sapremo meglio come muoverci, se papà in quell’ultima visita avesse finito la frase. Era annebbiato dai sedativi, imprigionato dalle barre di metallo ai lati del letto. La sua lucidità andava e veniva, mentre nello sguardo acquoso mi pareva di leggere una richiesta di aiuto: che fossimo noi, io e Aič, a liberarlo dalla morsa.

“Se mi volete bene…” disse.

Restammo in silenzio ad ascoltare.

“Cosa papà?”

Ma non concluse la frase e si addormentò. Aič gli accarezzò a lungo la fronte sudata, mentre io rimasi in attesa di parole che non vennero. Forse non si fidava più di noi, ed escogitava un piano. Nelle visite precedenti, infatti, era stato più loquace, capitava persino che si arrabbiasse.

“Non vi credete che sia finita qui!” ripeteva quando scorgeva nei nostri sguardi una punta di commiserazione. Temeva che non lo si prendesse più sul serio da quando, anni prima, aveva avuto l’infarto. “Nessuno mi ingabbia, posso fare ancora esperimenti, non si smette mai di essere scienziati…”

Cose che diceva a noi, in confidenza, mentre se a entrare era chi lo aveva dichiarato demente si metteva a farfugliare frasi insensate, inframezzando versi di Dante: “Amor ch’a nullo amato…” Quando lo visitava suo fratello maggiore, fingeva di non riconoscerlo. Con noi invece si lamentava di quelle presenze. Aveva scovato un suo modo per nascondersi e noi non avremmo certo fatto la spia. È anche per questo che io e Aič non crediamo sia morto.

Sin dai primi tempi in cui era costretto a letto, papà rifiutava il termine malattia degenerativa.

“La malattia non è che una trasformazione,” ripeteva e ogni tanto si faceva portare il telefono per chiamare un ex collega, Castellari, scomparso da anni.

“Ha perso il senno,” dicevano gli altri, “il numero che ha composto è inesistente. Parla con i morti.”

 

Camillo Castellari, il direttore dell’Istituto di malattie infettive, un luminare di cui si erano improvvisamente perse le tracce, era stato a suo tempo discusso per certe terapie poco ortodosse. La prima volta, tanti anni fa, ne sentii parlare in famiglia con toni scettici. Nessuno capiva perché nostro padre collaborasse con uno soprannominato il “medico della morte” che svolgeva ricerche in gran segreto. Papà lo difendeva: “È uno dei primi ad avere capito che l’accanimento terapeutico conduce a un vicolo cieco.”

Li accomunava l’avversione per il cammino che la medicina moderna stava prendendo, tutta concentrata sulle tecnologie per allungare la vita.

“Secondo Castellari è una degenerazione,” riferiva mio padre, “un nuovo Medioevo. E non ha tutti i torti, perché la fede irrazionale nella scienza forse è più deleteria dell’oscurantismo dei papi di cui ci siamo liberati cent’anni fa grazie al Policlinico.”

Lui e Castellari avevano condiviso la luminosa epoca del dopoguerra in cui la ragione scientifica si era fatta strada in una città terribilmente arretrata. Quando fu inaugurato all’inizio del Novecento il Policlinico fu salutato come una cattedrale nel deserto che passo dopo passo raggiunse  il suo culmine scientifico negli anni Cinquanta. Ma neanche un paio di generazioni dopo, di quell’idealismo del dopoguerra era rimasto ben poco nell’ospedale, strozzato dalla corruzione politica e da uno scientismo che perdeva d’occhio l’uomo. Nella biblioteca di papà avevo recuperato il manuale di Castellari sulle Cure in fin di vita. Sul risvolto di copertina c’era un ritratto del professore a braccia conserte. Mi sorprese la somiglianza con nostro nonno: baffi alla chevron, la fronte alta e stempiata, lo sguardo severo che emanava fermezza e contrastava con la fragilità sognante di papà. Quando nelle ultime visite gli chiesi di Castellari, mi raccontò che stava indagando sul vaccino contro la morte dell’anima! Pensavo che papà vaneggiasse, ma oggi mi pento di non avergli chiesto di più di quel medico.

A Roma era scomparsa tutta una serie di professori estromessi dall’università per raggiunti limiti di età. Era davvero assurdo pensare che si fossero rifugiati nel Policlinico chiuso, in una terra di nessuno, per portare a compimento le loro ricerche in santa pace, senza essere perseguitati dai detrattori di un tempo? Sono convinto che papà, non fidandosi ormai di nessuno, avesse messo in scena la demenza per preparare meglio la fuga. Sorrideva inerme dinanzi alle parole di chi lo veniva a trovare, in attesa di essere lasciato solo. Quando le visite si dilungavano lanciava uno sguardo desolato al badante. Solo il fruscio del pioppo davanti alla finestra gli regalava la calma.

 

José Gabriel per accudire nostro padre ha dovuto lasciare da sola la madre a Lima, nel popoloso quartiere Villa María del Triunfo. È grazie all’intermediazione della parrocchia di Sant’Emerenziana che è riuscito ad arrivare in Italia. L’altro giorno, su Radio Famiglia, in un programma sulla condizione dei badanti, ho sentito la sua voce. Era un’intervista anonima, ma l’ho riconosciuto.

“Quando mi chiamano, la media sono due anni. Il nostro mestiere è particolare, più grave è lo stato, meno faticoso è per noi; più lavoriamo, più allunghiamo la vita. Poi dipende dalle case, so di chi lavora in nero in minuscoli appartamenti di qualche impiegato abbandonato dai figli. I vecchi ci raccontano centinaia di storie ignote alle stesse famiglie. Magari inventate, fanno finta di svelarci dei segreti per farci sentire più importanti, quando notano nei nostri occhi che non ci interessiamo. O si vogliono vendicare di chi li ha lasciati con noi. C’è anche chi racconta di soldi che non ha, per farci venire l’acquolina in bocca. Veniamo chiamati quando i parenti non se ne vogliono più occupare. All’inizio siamo amatissimi, grazie a noi i famigliari scoprono una libertà tutta nuova, fosse solo nella stanza all’altro capo della casa. Penso a certe donne passate dall’accudire i figli, poi i genitori, infine il marito. I figli invece calano d’improvviso, toccata e fuga. C’è sempre uno che si considera accuditore massimo, a darmi consigli, a fare l’amicone, mettermi in guardia dagli altri. Poi magari non vogliono lasciarlo solo con me, mi offrono di accompagnarli in vacanza. Trovo sempre il modo di rifiutare, e allora pur di non lasciarci soli con loro, fanno i turni. Hanno paura che gli facciamo firmare qualche carta. È questo il loro amore per il padre, affari loro. C’è di peggio, ti assumono per fare compagnia e finisci a pulire i pavimenti. C’è chi in vita non è mai riuscito a comandare e adesso ci prende gusto. Sono cose che capitano solo a chi è alle prime armi o illegale. Io ho l’orecchio per le famiglie bene, racconto sempre che ho studiato Storia delle Ande fino all’ultimo esame. Ci credono. Quasi tutti si illudono di essere migliori, alcuni temono di essere peggiori, ne ho viste di famiglie. So vedere dietro ogni gesto, ogni parola, chi finge interesse e chi c’è davvero. Tanto a parlare della bellezza dell’invecchiare insieme, ma appena uno perde colpi la cosa viene delegata. Tutti lo fanno, i figli fanno a gara per mettere i soldi. Non sia mai che debbano sacrificare il loro preziosissimo tempo.”

1 thought on “Mortacci mia

  1. Continua scrivere è bello leggerti.
    Mi piace la tua lieve nostalgia mi sembra di esserci. Perdere i genitori è l’ok di lasciare andare il passato e incominciare a scegliere e crescere in un altro modo.
    Primo articolo che leggo leggerò sicuramente altro. Buon cammino.

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