di Roberto Cotroneo
[Esce oggi per Feltrinelli La nebbia e il fuoco, il nuovo romanzo di Roberto Cotroneo. Ne pubblichiamo in anteprima un estratto].
Quando è accaduto che sono spariti gli uomini capaci di trasmettere senza esibirsi? Coloro che amavano le parole ma ne avevano pudore. Persino timore: il “provare vergogna per tutte le parole del mondo” di Silvio D’Arzo nel suo Casa d’altri. Un antico testo indiano dice: “Il mondo è come l’impressione che lascia il racconto di una storia”. Ed è per questo che rimango qui a raccontare soprattutto quello che non so. Arte desueta ormai, nel mondo di oggi, fatto di narrazioni, di grandi storie. Qui ho solo l’“impressione” di una storia che si smarrisce, e lascia le impronte sulla neve. Generano un disegno, ma solo chi ha voglia di guardarlo dall’alto, a distanza, è capace di leggere quelle linee, quelle tracce, o soltanto di seguirle, come un gioco.
Riprendendo D’Arzo: “Le parole mi fanno vergogna”. Un tempo si partiva e si ritornava. E partire era partire. Era un luogo, un momento, un’ora. Si salutava o non si salutava, ma la partenza poteva seguire a un ritorno. E anche il ritorno era un luogo, un momento, un’ora. Oggi nessuno parte e nessuno torna. Si è tutti nell’innominabile attuale.
Ho ignorato le nostalgie, non ho compreso le inquietudini di troppi uomini e donne che ho conosciuto. Sempre per questo vizio di non chiedere, di restare nella nebbia accontentandomi
di presenze sfocate, di corpi evaporati nella caligine. Alessandria aveva un talento nel mostrare i suoi passanti in procinto di tornare a casa in quell’ora del pomeriggio in cui tutto finisce senza neppure essere iniziato davvero. C’è un modo di camminare nelle persone che tornano a casa, come una fretta lenta, hanno lo sguardo che non si posa su nulla. Attraversano quel reticolo di strade come in difesa, trattenendo le emozioni e i rimpianti come si trattiene il respiro. Separando i giorni dalle passioni. Ci vuole un reagente per separare passioni e vita quotidiana. Il reagente è il sarcasmo. Togliere poesia è una dote rara. Tremenda. È una pratica chirurgica.
Tra il 1959 e il 1961 un giovane di una frazione di Alessandria, Valle San Bartolomeo, si era fatto notare in tutta Italia perché giocava a calcio in un modo emozionante. In un tempo in cui i calciatori erano tutti forza e potenza, lui usava cervello e fantasia. Il mondo dei fantasisti nel calcio era ancora di là da venire, ma allo stadio Moccagatta Gianni Rivera aveva già dimostrato, ancora sedicenne, che sarebbe diventato una leggenda del calcio, il Golden Boy, il campione dei campioni, Pallone d’oro nel 1969. Era un centrocampista, allora si diceva mezz’ala, si muoveva dietro le punte, ma riusciva a immaginare il gioco che sarebbe venuto. Vedeva il futuro e lanciava la palla agli attaccanti con una precisione sorprendente e una leggerezza che nessuno aveva mai visto prima. Gianni Brera, che era uno scrittore prima di essere un cronista di calcio, lo aveva soprannominato “l’abatino”, per i suoi modi lievi, antiretorici, se mai è esistita una retorica del calcio. I tifosi dei grigi (la maglia dell’Alessandria è proprio grigia, come quasi sempre il cielo sopra lo stadio) a ogni colpo di genio commentavano sarcastici: “Accademia!”. Ovvero, Rivera era uno che stava a perder tempo a fare il prezioso. Quando invece l’ammirazione era tutta per i centravanti di sfondamento, per quelli concreti, quelli che andavano in rete. La poesia si studia a scuola. Credo che il diminuire non vada confuso con lo sminuire. Diminuire è prudenza, una forma mimetica, serve a difendersi, come il camaleonte quando cambia colore per non farsi vedere. E in questo processo mimetico mostra tonalità meravigliose che ci lasciano ammirati. Come i lanci di Gianni Rivera. Ma i camaleonti ad Alessandria possono mimetizzarsi soltanto nel grigio.
La dilatazione, la conservazione di ogni dettaglio di questi ultimi trent’anni di archiviazione digitale cancellerà dalla nostra memoria quello che è accaduto prima. Ci saranno migliaia di chilometri di archivi delle ultime decine d’anni e poco o niente del tempo precedente. Ormai il 1945 pesa, nell’equilibrio delle fonti che conserviamo, un miliardesimo del 2000.
Non ho alcuna certezza che dopo il 1993, data della seconda e ultima lettera che mi mandò, Aldo avesse letto, o anche solo conoscesse, i libri che avevo scritto e pubblicato dal 1994 fino al 2002, anno della sua morte. C’erano tre romanzi nel computo, e anche tre saggi. E per quella vergogna delle parole che ho sempre avuto ne sono persino sollevato. Si trattava di dare voce alla storia. E dare voce lascia sempre un residuo di emozione. Su quel residuo sto scrivendo questo libro. Ma so bene che non si tratta di un residuo.
Possibile che io ricordi pochissime immagini dentro la classe? E che le parole che Aldo diceva siano entrate così in profondità nel mio modo di pensare la letteratura e la vita da impedirmi oggi di prenderle, isolarle, spostarle, farne un’immagine raccontabile?
Mi muovo per frammenti.