di Federica Gregoratto
L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto
Ogni forma di desiderio è necessariamente desiderio per qualcosa che manca, non credi? Perché se non mancasse, non potresti desiderarlo. Così Socrate, tormentando Agatone e tutta la compagnia del Simposio platonico.
William Lee desidera, infinitamente, un drink, uno shot di eroina, un corpo di ragazzo, una nuova prospettiva sul mondo. L’alcool, nei bar della notte di Messico City, non finisce mai, la droga non è difficile da trovare, e anche, mettendo mano al portafogli, i ragazzi di vita, le alture mozzafiato, e le spiagge, il mare, nei viaggi al sud, e nella foresta.
William Lee è il protagonista della novella “Queer” di William S. Burroughs (scritta tra il 1951 e il 1953, pubblicata nel 1985), riadattata ora da Luca Guadagnino in un film con lo stesso titolo. Una “checca”, secondo il titolo in italiano nella traduzione del racconto di Katia Bagnoli (“Diverso”, invece, il titolo di quella di Giulio Saponaro), un termine poco corretto ma adeguato a esprimere il distacco odioso e disgustato in cui Lee abita quel suo corpo affatticato, invecchiato, desiderante nello strazio. L’interpretazione di Daniel Craig è più che buona, contorce su se stessa e decostruisce la mascolinità del suo vecchio James Bond, distillando forse il vero significato di quell’aggettivo oggi troppo di moda – tossica, la mascolinità, eccome. Ancor più lo è la malinconia devastante e irrisolvibile di colui che, diverso, deviante, non potrà essere mai accettato e amato da altrə, figuriamoci da se stesso.
La dinamica del desiderio non ha mai fine, è questa la sua croce (lo spiega Platone, e poi Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, e la maggior parte delle sue interpretazioni). Non è difficile accaparrarci gli oggetti desiderati, ma quando il desiderio si placa, poi non può che ritornare vorace, ancora e ancora. Il soggetto attraversa una piccola morte (desidero, dunque sono, se il desiderio svanisce, chi sono?), poi ritorna in vita, desiderando ancora e ancora. Ma che vita è, quella del desiderio? In bilico sulla morte, è la vita della dipendenza. William Lee è un tossico, ha bisogno necessariamente di un nuovo kick, ma desidera anche smettere, si accaparra una nuova ricetta di oppiacei da un medico solo promettendo, forse in malafede, forse no, che smetterà.
Che cosa desideri, veramente? È forse la domanda più importante che possiamo porci, e che un(’) bravə analista, un(’) amante o amicə disperatə e preoccupatə ci impone, nei momenti cruciali in cui una trasformazione si profila, ansiosamente, si ritrae. É una domanda in fondo impossibile: i nostri desideri non sono mai davvero nostri, il tu interpellato è già stato da sempre (in)formato nell’intreccio di aspettative, obblighi, rappresentazioni famigliari, culturali, sociali, politiche.
Luca Guadagnino ha costruito la sua carriera cinematografica sulla rappresentazione del desiderio. La sua bravura è sempre stata quella di mostrare che il desiderio è costitutivamente irrealizzabile, ma allo stesso tempo sono le strutture sociali (conservatrici, borghesi, omofobe, ecc.) che lo rendono tale. In film come I am Love (2009), A bigger splash (2015), e soprattutto, Call me by your name (2017), Guadagnino è stato molto bravo a mostrare la croce e delizia di quella tensione verso ciò che non possederemo mai, che ci sfugge nel momento stesso in cui abbiamo fatto quel viaggio in auto, o in treno, che non dovevamo, detto l’indicibile, ripescato la bella statua, stritolato o accarezzato la pesca nella mano. In questi film, la negatività del desiderio apre uno spazio di futuri possibili, che oltrepassa l’estetismo decadente (un po’ noioso) in cui l’assenza soffocante del politico rimanda a una politica a venire – queer, deviante circa i desideri che ci sono concessi e che possiamo, dobbiamo, rappresentarci. Nella bella e toccante serie We are who we are (2020), la dimensione politica si articola invece coscientemente e coscienziosamente nei leggeri, disperati tentativi delle giovani protagonistə di chiedersi, radicalmente: non tanto, chi siamo, che cosa desideriamo, ma piuttosto, cosa possiamo essere e diventare? Che cosa possiamo desiderare? Le risposte mancano, si fanno desiderare. Nonostante sia costruito come un lunghissimo spot pubblicitario, che cavalca l’onda della moda tennistica del momento, Challengers (2024) è però il vero capolavoro del desiderio guadagniniano: desideriamo sempre a tre, il mio desiderio dell’altrə è il desiderio provato dall’altrə, per un altrə. Forse allora desideriamo sempre ciò che non credevamo, possiamo credere di desiderare? Desideriamo e, per farlo, dobbiamo consciamente e inconsciamente porre ostacoli che ci impediscano di ottenere ciò che crediamo di volere – forse allora quello che desideriamo davvero è… fallire?
Queer sorprende perché pone una domanda più radicale, deviante, anche rispetto ai desideri queer: che cosa c’è, dove arriviamo, se attraversiamo e andiamo oltre il desiderio? Che cosa succede quando proviamo ad abitare la realizzazione del desiderio? La risposta è, per dirla con il vecchio Freud, unheimlich: ci riporta a casa (da heim) e contemporaneamente totalmente altrove (un), attraverso un’improbabile foresta in cui ci si perde ma dove ci si potrebbe ritrovare, ma a quale costo. Al di là del desiderio, una gioia, quasi impossibile, anche da rappresentare, se non con l’aiuto del psichedelico (di cui Guadagnino fa un uso smodato ma intelligente, ironico ma non privo di rimandi psicanalitici che richiederebbero un’analisi a parte).
La terza parte del film, l’escursione di Lee insieme al suo amico alla ricerca dell’erba Yagé, quella dell’Ayahuasca insomma, è la sequenza più trash, improbabile, sarcastica, e autenticamente politica della pellicola. Le nostre aspettative, e desideri, circa quello che questo film doveva essere, vanno all’aria. Sarebbe potuta essere una riscrittura dell’Heinrich von Ofterdingen di Novalis, per esempio, della ricerca del fiore azzurro, ma diviene invece una sottile, spietata, necessaria critica all’imperialismo nordamericano (e europeo), una satira della cosiddetta psychedelic renaissance.
In un certo senso, il desiderio è già il suo altrove. Desidero ciò che non ho, ma soprattutto, che non sono, non siamo. Desidero, quindi non sono, non siamo. Il desiderio mi e ci disfà, distrugge, o mette nelle condizioni di vedere e sentire il mondo, l’altro, le altre persone, in modo nuovo. Nella Fenomenologia dello Spirito, Hegel spiega bene che ciò che il soggetto veramente può desiderare non è tanto una cosa, un possesso, sia anche il possesso del corpo della persona desiderata (in qualsiasi forma esso possa darsi, un piacere consumato, una promessa mantenuta, un obbligo adempito). Il desiderio è dell’altrə nella sua infinita, cioè non controllabile, alterità, libertà. Desideriamo l’amore, ma l’amore non può essere desiderato. (E, ovviamente: che cosa c’è di più queer dell’amore? Che cosa c’è di più romantico del queer?)
Lee desidera, più di tutto il resto, Eugene Allerton, un tipetto sfuggente, misterioso. Vuole il suo corpo, e quando l’ha avuto, dopo un corteggiamento che si confà agli scripts romantici codificati, scopre di volere altro, da lui, da se stesso. Seguendo un certo classico script (hegeliano), cerca di intrappolarlo e sottometterlo. Il padrone – l’uomo scafato, esperto, danaroso, che promette mondi – si fa servo, lo è in realtà da subito. Inizialmente, l’erba Yagé rappresentava per Lee una promessa di comunicazione telepatica, senza parole. Desidero parlarti, ma senza parlare: farfuglia Lee ubriaco e fatto, inseguendo il suo oggetto di desiderio, prima di collassare, a una festa. Desidero farti mio, vuole dire a Allerton, a un livello che va oltre l’ingannevolezza dell’ordine discorsivo del desiderio.
Incredibilmente, Lee soddisfa però, di fatto, il suo desiderio, nei tempi e spazi lunghi che si allargano e spaziano in un altrove inesplorato. Ottiene dal suo giovane compagno più di quello che avrebbe mai desiderato, più di quello che riesce a altri personaggi nei film di Guadagnino. Il giovane Allerton lo vuole, lo segue, attraversa esperienze che, forse, lo cambieranno per sempre. Non rinuncia alla sua indipendenza e libertà, come aveva da temere all’inizio, ma le realizza abbandonandosi alle nuove avventure e possibilità che Lee gli dischiude. Lo guarda negli occhi mentre si masturbano a vicenda (perdendo gli occhiali sotto il letto), fanno l’amore da pari, si fa stringere nella notte e nella malattia. Allerton si prende cura di lui, indulge le sue fantasie. Nell’apice del trip, nella foresta, si parlano infine senza parlarsi, si conoscono (I’m not queer – I know – I’m disembodied), diventano un corpo solo, impossibilmente, accettano l’impossibile, con dolcezza e comprensione, si addormentano.
Che cosa desideri? Volete essere così completamente insieme che non sarete mai divisi? Se è questo ciò che vuoi, sarò contento di unirvi, di fondervi in una persona sola, invece che farvi rimanere due individui separati…così che quando morirete, sarà come una persona sola, non due diverse…Pensaci, è quello che il tuo cuore desidera?… Amore è il nome che diamo al desiderio e alla ricerca di questa completezza e unione. Queste le parole del dio Efesto, colui che potrebbe realizzare i veri desideri degli amanti, secondo l’Aristofane di un altro passaggio, fortunato e però nefasto, del Simposio platonico.
Il giorno dopo, riemergendo dal trip, il giovane si trova interpellato, ora sì, dalla domanda: che cosa desideri? Vuoi rimanere qualche altro giorno da noi? Gli chiede la scienziata che si era ritirata nella foresta a investigare le proprietà e i significati dell’erba magica con il potere di squadernare la gioia e la paura della domanda sul desiderio di sé. La porta per te si è già aperta, e non si potrà richiudere. Io ti ho visto….
Allerton e Lee decidono di andarsene. Libertà è anche e soprattutto sottrarsi a una verità, a una gioia, chiudere quella porta, aprirla altrove, a venire.
Che cosa fare quando la soglia del desiderio è stata oltrepassata, e la possibilità che si apre è al di là del ritorno dell’uguale – il loop sesso, droga, dipendenza, piacere, negazione, accapo – una possibilità di trasformazione, personale, politica? Nel contesto del racconto di Burroughs, la possibilità è quella di una società non omofoba, che accoglie l’amore in tutte le sue forme, che non condanna la diversità alla malinconia, all’odio e alla rabbia. Una possibilità, come suggerisce la volontà di Guadagnino di ritornare a quella realtà, oggi, ancora a venire. Quella porta sarà oltrepassata forse, ma non ancora.
Oltre il desiderio, oltre la sua irrealizzabilità, c’è una gioia, Lacan per esempio l’ha chiamata jouissance, che non è fantasia, è piú reale della realtà stessa, accade nonostante i nostri desideri, l’indecisione, confusione, opacità riguardo a ciò che vogliamo. Che cosa farne, come starci, non è chiaro. Allerton sparisce dalla vita di Lee. Lee vivrà fino alla fine di e in quel ricordo, di ciò che è stato possibile senza esserlo veramente. Una possibilità diventata reale, e per questo, tanto più impossibile – almeno, stando alle condizioni ideologiche e materiali date.
Che cosa desiderano veramente i due, Lee, e Allerton? Lee vuole il suo amore, ma è disposto a combattere per realizzarlo, non privatamente, ma socialmente e politicamente? Non sembra. Allerton, da parte sua, difende il suo diritto a non definire il suo desiderio, il diritto all’incertezza sull’essenza dell’amore, e della libertà. La bellezza di Queer sta nel fatto che questo oltre, indefinito, sconcertante, del desiderio, non si risolve in un desiderio di distruzione e morte, nel Todestrieb elevato a jouissance che trionfava nel film cannibale Bones and all (2022).
Lee ritorna sui suoi passi, cerca di riallacciare le trame del suo racconto, affermando il suo desiderio di essere autore della narrazione, si riconnette all’amico che lo aveva capito, si abbandona a una vita di desiderio ma senza gioia, (in)fedele alla sua verità. Nell’epilogo, ritorna a Messico City, al bar deserto, all’hotel in cui aveva imparato il desiderio disertante. Alla fine dei suoi giorni, si chiede, in fondo, ne è valsa la pena? Non sa darsi una risposta, non sappiamo darci una risposta.