di Franco Buffoni

 

[Si intitola Nel nome del Male. Da Lady Macbeth a Stanley Kubrick il nuovo libro di racconti di Franco Buffoni, in uscita a fine aprile per Interlinea. Proponiamo in anteprima la premessa e uno dei racconti].

 

Premessa

 

Il libro inizia col gioco perverso tra Macbeth e Lady Macbeth: a chi osa di più nel proporre la realizzazione di un male sempre maggiore; e a chi crollerà per primo. Per giungere al racconto del rapporto assoluto tra Rimbaud e Verlaine, che come Macbeth e la Lady si insufflano a vicenda per tre anni desideri estremi di ribellione sub specie di prove d’amore e prove d’amore sub specie di desideri estremi di ribellione, fino allo sfacelo del mercante d’armi e al bigottismo ipocrita del sopravvissuto. Ma evitando accuratamente la trappola dostoevskijana degli estremi malvagi simbolici alla Ivan Karamazov, o ancora peggio dei protagonisti alteregotici alla Nikolaj Stavrogin nei Demoni. No, Dostoevskij sarebbe stato troppo geometricamente teorico per questo libro: così siamo riusciti, non senza fatica, a tenerlo lontano, senza cedere alla tentazione di metterlo al centro della riflessione, facendoci da lui dettare la linea.

 

Le streghe di Macbeth

 

Uomo di teatro nel senso moderno, con spiccata predilezione per il “mestiere” nella costante prova del palcoscenico, William Shakespeare si sentiva anzitutto impresario e regista, oltre che attore, pur se in piccoli ruoli (per esempio, il fantasma in Amleto). Certamente non si riteneva un letterato: non era un accademico, e nella sua adolescenza è probabile che avesse esercitato svariati mestieri. Ma proprio questa “impreparazione” classica gli permise di non prendere in considerazione una delle norme-capestro del teatro del tempo: la cosiddetta regola delle tre unità aristoteliche, con il rispetto – all’interno di ogni singola opera – di un’unità di tempo di ventiquattr’ore, nonché di luogo e di azione. Proprio grazie a tale libertà, Shakespeare riuscì a creare i più grandi capolavori del teatro moderno, evitando anche di dare troppa importanza alla distinzione tra tragedia e commedia, con l’inserimento di elementi tragici nel testo comico e di elementi comici nel testo tragico. Fu così in grado di codificare – in un periodo cruciale della storia d’Inghilterra, con il passaggio dal regno di Elisabetta a quello di Giacomo – la stagione più alta nella storia del teatro occidentale, dopo quella del teatro greco classico.

 

Sono quattro le fasi in cui è possibile suddividere la produzione teatrale shakespeariana, dalle prime tragedie come Titus Andronicus, di impianto ancora senechiano con sangue e sgozzamenti a profusione in scena, alla seconda fase caratterizzata da commedie come Sogno di una notte di mezza estate e da tragedie del “caso” come Romeo e Giulietta, nonché da un imponente numero di drammi storici ispirati alla storia inglese. La terza fase vede culminare – con le grandi tragedie come Macbeth e Amleto – il trionfo del cosiddetto tragico chiuso, cioè della rappresentazione in scena della punizione del “colpevole”. Mentre nella quarta e ultima fase il messaggio di Shakespeare pare volgersi al tragico aperto, con l’immissione nel plot del concetto di perdono, o comunque di riconciliazione. Ne è esempio sublime La tempesta, che incarna in sé anche un ideale addio dell’autore al palcoscenico della vita e del mondo. Quanto alle fonti, fondamentale per le opere di ispirazione “romana” – come Giulio Cesare e Antonio e Cleopatra – fu Plutarco con Vite parallele. Grande importanza ebbe pure la novellistica italiana (Bandello, Cinzio ferrarese) nella genesi di opere dell’importanza – per esempio – di Otello.

 

Vi sono tre principali modi per avvicinarsi a Shakespeare: il modo dello storico, il modo del critico letterario e quello del regista teatrale. Il primo modo tende ad inquadrare l’autore nel suo tempo e nel suo ambiente, sfatando ottocentesche teorie che vorrebbero altri (Marlowe, Bacone, il conte di Southampton) e non Shakespeare quale autore delle opere teatrali a lui attribuite. Il modo dello storico tende ad accertare per quale pubblico principalmente Shakespeare scrivesse, per stabilire infine che il drammaturgo scriveva indistintamente per il popolino e per la corte (che tanto raffinata comunque non era). Per la corte e per la plebe in sostanza funzionavano i medesimi marchingegni teatrali, come quello delle streghe in Macbeth. Per la ristretta élite del conte di Southampton, invece, si potevano comporre Venere e Adone, Lucrezia, e soprattutto i Sonetti. E si potevano recitare quei versi circondati dalla massima, rarefatta, malinconica attenzione.

La domanda di fondo su che cosa sia il male pervade invece il meccanismo del tragico chiuso, in particolare nel Macbeth.

 

Tre streghe appaiono a Macbeth: sono soltanto visione, allucinazione, riflesso di coscienza, indizio di desiderio? Sono soltanto un espediente da Shakespeare concepito per accondiscendere ai gusti del “demonologo” Giacomo I e, più genericamente, alla moda del tempo? Come ricorda Samuel Johnson, la “dottrina” della stregoneria era riconosciuta “by law and by fashion, and it became not only unpolite, but criminal to doubt it”. Oppure è possibile delle streghe sceverare le parole, le filastrocche che recitano, al fine di individuare un senso ben preciso, una minaccia logica? Azzardiamone un’esegesi meno astratta e simbolica di quanto comunemente si usi compiere, e scopriremo che le streghe “malate di male” in sostanza annunciano: “Se sei predestinato al male, comunque sarai dannato. E al suo apparire, se ti ribellerai, un male ancora peggiore ti colpirà”. In che modo? Risponde Calvino in Istituzioni della religione cristiana: “Dobbiamo ricordare che anche Satana compie i suoi miracoli”.

 

Le affermazioni delle “malefiche sorelle” sono esplicite. Alla domanda “dove sei stata?”, la prima racconta di essere stata scacciata dalla moglie di un quartiermastro alla quale aveva chiesto un po’ delle castagne che teneva in grembo. Subito però aggiunge che il marito della donna è in mare, in viaggio per Aleppo, e manifesta il proposito di vendicarsi su di lui dell’offesa subita: «But in a sieve I’ll thither sail, / And, like a rat without a tail, / I’ll do, I’ll do, and I’ll do”. (“Ma in uno staccio io là veleggerò e, come un topo senza coda, farò, farò e farò”: lo staccio era per tradizione l’imbarcazione delle streghe). Le due compagne offrono il loro appoggio (“I’ll give thee a wind”, “And I another”: “io ti darò un buon vento”, “e io un altro”). Così la prima strega profetizza: “Se proprio non riusciremo ad affondargli la nave, senz’altro gliela sconquasseremo”. (“Though his bark cannot be lost, / Yet it shall be tempest-tost»). Quindi, come per convincere “sorelle” e pubblico circa la “serietà” della sua vendetta, ovvero la sua capacità di intervenire nei destini umani, subito aggiunge: “Guardate che cosa ho qui!”, e nefanda mostra il pollice di un altro marinaio, un timoniere, presumibile oggetto di una precedente vendetta, vittima di un naufragio altrettanto furioso, mentre veleggiava sulla via del ritorno.

 

Macbeth appare in scena proprio a questo punto. (E che le streghe non siano una semplice voce proveniente dalla sua coscienza, ma qualcosa di più concreto, lo dimostra il fatto che esse appaiono anche a Banquo; anzi, è questi che per primo le scorge). Il suo arrivo – annunciato dalla terza strega con un tonante “A drum, a drum! Macbeth doth come” – pare atteso. Ecco una nuova preda, senz’altro più importante, più impegnativa di altre, ma sicuramente vincibile, facilmente adescabile. Un predestinato al male? Le streghe paiono supporlo. Ma non possono averne la certezza a priori. E non perché credano a una possibilità di libero arbitrio da parte delle loro vittime, bensì semplicemente perché potrebbero avere sbagliato, appuntando l’attenzione su qualcuno destinato invece al bene, e quindi magari “tangibile”, ma non da loro “vincibile”. In sostanza le streghe risveglieranno in Macbeth quel “male” al quale, per nascita, il guerriero è stato destinato. E solo a questo punto possiamo affermare che non importa se reputiamo le streghe reali o simboliche: il significato resta il medesimo.

 

Quindi la prospettiva dalla quale è possibile considerare l’apparizione delle streghe è quella della forza atroce del male, destinata comunque a sopraffare la vittima designata. A quest’ultima è concessa soltanto un’illusoria possibilità di scelta, con effetti unicamente contingenti. La vittima può infatti reagire al male col rifiuto, con l’offesa (è l’“Aroint thee, witch!” – «va’ via brutta strega!» – della moglie del quartiermastro); oppure può accoglierne con sorpresa, con timore e avidità le lusinghe (è lo “Speak, I charge you!” – “parlate, ve lo comando!” – di Macbeth), ma ciò non avrà incidenza sul risultato finale. Nel male, da quel momento, sprofonderà direttamente chi ne abbia accolto le profferte, come Macbeth. Ma della crudele, ineluttabile vendetta del male sarà l’indiretta vittima anche chi, con l’offesa, abbia tentato di scacciarlo, come la moglie del quartiermastro. Fatalismo, dunque: miseria morale, abominio nel primo caso, con l’uomo che diviene strumento del male: è il filone germanico del Faust. Miseria fisica, vedovanza, povertà nel secondo caso, con la donna che diviene vittima del male: è il filone giansenistico, verghiano, del “fato”. Comunque, sempre, infelicità, dannazione.

 

In sostanza interpretiamo l’intervento delle streghe come la manifestazione di un’ineluttabile predestinazione al male: se Macbeth si fosse ribellato, se le avesse scacciate, si sarebbe comunque dannato. Solo che, invece del primo tipo di dannazione, avrebbe subito il secondo. Ma la storia di Macbeth è tanto più inquadrabile nel filone germanico del Faust quanto più si considera la fonte dalla quale Shakespeare trasse il plot. Nella cronaca di Holinshed, infatti, Macbeth, dopo il delitto, regna per diciassette anni. Chi “si vende” al male può ricevere una positiva contropartita contingente: chi possiede il “coraggio” di compiere crimini estremi alla Macbeth può riuscire anche – in apparenza – a goderne i momentanei frutti. L’antica cronaca è persino più “logica” della trama concepita da Shakespeare, che rapidamente consuma nel rimorso i “venduti al male”. Shakespeare però era mosso anche da imprescindibili ragioni di ritmo teatrale, che gli imposero – come d’altronde anche in Giulio Cesare e in Antonio e Cleopatra – di contenere l’azione in un arco di tempo molto più ridotto rispetto alle fonti.

 

Vi è però anche un terzo atteggiamento che la persona sulla quale si appunta l’interesse del male può assumere: un atteggiamento che si potrebbe definire di non-accettazione gentile, consistente in un’azione spontanea, non calcolata o ipocrita, non scelta per paura, ma ineluttabile, naturale. Una reazione sulla quale il male non può avere il sopravvento. È il comportamento che di norma si incontra nelle Mille e una notte; è il comportamento di Parsifal. Le motivazioni ad esso sottese rientrano in un ragionamento dalla meccanica “semplicissima”, favolistica: la persona vittima dell’attenzione del male e così buona da non essere nemmeno in grado di pensare che le possa venire male: quindi rifiuta la lusinga, ma lo fa gentilmente, senza timore, sicura di non poter essere che nel giusto perché qualcosa di profondo in lei alimenta questa certezza. Restando in sintonia con l’impostazione iniziale della nostra riflessione, questa persona non può che essere predestinata al bene: può sì incontrare il male, ma su di lei il male scivola via, non può fare presa.

 

A questo punto si potrebbe persino azzardare un’ipotesi contraria a quella presupposta. La donna del quartiermastro infatti scaccia la strega, rifiutandosi al male. E la strega decide di vendicarsi cercando di toglierle quanto ha di più caro: la vendetta sarà furiosa; ma se la nave riuscisse davvero a scampare al naufragio e il marito a ritornare in patria, la terribile tempesta potrebbe addirittura assumere una valenza catartica di purificazione dal male, di dura e necessaria prova superata; sortirebbe addirittura l’effetto di consolidare nel bene la donna, se ad esso ella fosse stata predestinata. Non si tratterebbe che di una tentazione superata. In tal caso, se anche il male attendesse un’altra occasione (un altro miracolo di Satana), la donna ugualmente non cadrebbe. Nella sua praticità, nel suo empirismo, nel suo manicheismo, la letteratura inglese ci offre al riguardo i limpidi esempi, rudi e violenti, del Cristo di Milton, che – destinato al bene come è destinato al bene – supera felicemente ogni prova a cui Satana lo sottopone; o del Thomas Becket di Eliot in Murder in the Cathedral, che altrettanto felicemente conquista la sua gloria superando ogni insidia satanica, in quanto anch’egli è stato scelto in origine dal bene.

 

Il clima fatale della terza scena del primo atto di Macbeth raggiunge il climax quando le streghe, dopo aver riconosciuto il guerriero, intonano in coro l’ultimo rivelatorio intervento: “The weird sisters, hand in hand…” (“Le fatali sorelle, mano nella mano…”). Il fatto che nel prosieguo del plot sia Lady Macbeth ad assumere la funzione delle streghe, e quindi sia Macbeth stesso ad assumerla nei confronti della moglie; come pure il fatto che le cantilene delle streghe forse fossero preesistenti alla scrittura dell’opera, e che da alcuni siano state attribuite addirittura alla penna di Middleton, non mutano la prospettiva di fondo. Anzi, avvalorano il senso di destino già segnato, contro il quale nessuno sforzo può avere il sopravvento. Un senso ben espresso dal termine wyrd. Le fatali sorelle, the weird sisters: e weird ha radice comune con la voce verbale weordan (divenire). Wyrd in origine era una delle Norne, poi passò da sola a rappresentare il fato. E la sua presenza incombe sulle popolazioni del Nord sin dai tempi più remoti. La sua forza costituisce il sostrato delle antiche elegie pagane del VI e VII secolo, da The Wanderer (l’errante) al Seafarer (il navigatore); e il mare è l’elemento di cui si serve per dominare e determinare le sorti degli uomini. Il suo retaggio è percepibile nelle cantilene di queste streghe.

 

 

Indice del volume:

 

Le streghe di Macbeth

Il male da Lady Macbeth a Stanley Kubrick

Milton e Satana

Montesquieu e la minore quantità di mali

Senza pietas

Il male dagli scaffali

Il male da Coleridge a Baudelaire a Sereni

Il sigillo del male

Prometto che farò il bravo

Ribellione come liberazione o come male?

Il male di Dante Gabriel e il bene di Christina

Non sono colpevole di nulla

Tanti mucchi di morti

La mia guerra

L’ombra di Gabriele

Il male dal mare

L’etica della colpa

Don Luis

Tre fonti di male per Pierre

Male di vivere?

Il male di Emile

Bataclan

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