Io di Giuseppe Nibali

 

[Esce il 24 aprile, per le edizioni San Paolo, Una cosa che non parla. Intellettuali e studenti contro la scuola, a cura di Giuseppe Nibali, con interventi di Paolo Alessandrini, Viviana Birolli, Beatrice Borghi, Tommaso Di Dio, Massimo Garritano, Ludwig Monti, Markus Ophaelders, Carlo Alberto Redi, Silvia Romani, Enrico Terrinoni, e con un contributo di Alessandro Barbera. Anticipiamo tre estratti dall’introduzione di Giuseppe Nibali, dal dialogo tra Carlo Alberto Redi e Vittoria Prini, e dal contributo di Alessandro Barbero]

 

INTRODUZIONE

 

1. Una cosa che non parla

 

«Le cose a scuola vanno – dice Starnone nel suo “La Scuola” – ma nessuno sa dove»[1]. E infatti succede sempre così, quando entro in una classe per la prima volta: facce, voci, telefoni, studenti, persone. Molto caldo o molto freddo. Finestre da chiudere o da aprire. Davanti dieci, quindici, trenta giovani donne e giovani uomini indecisi nel giudicare se il ragazzo che hanno davanti è un supplente oppure un professore di educazione fisica. Letteratura italiana, dico, quando mi chiedono cosa insegno. Poi faccio loro prendere un foglio e gli chiedo di scriverci sopra le cose che odiano e quelle che amano, le loro proposte e le loro critiche all’istituzione scolastica.

 

Da sette anni frequento il mestiere di insegnante che alterno, con molti sacrifici e molto divertimento, a quello di giornalista culturale e di scrittore. In questi anni, nelle aule in cui ho insegnato, è stato appeso un quadro di Rimbaud. È il suo ritratto più famoso, effigie dell’enfant prodige. Un regalo che mi hanno fatto i miei studenti durante il primo anno di insegnamento, progettato da Giulia, realizzato da Cesare, studenti entrambi di quel miracolo che è stato la mia prima classe. Dietro ci sono i nomi di tutti loro, quelli di allora, che se ne sono andati per il mondo, che hanno visto le loro passioni e i loro amori e hanno provato a seguirli. Adesso appare alla vista dei miei studenti di oggi e dunque ogni mia lezione è tutelata dal divus.

 

E allora, dovremmo chiederci a questo punto, di quale frattura qui si parla, quale sutura tenta questo libro che mette insieme, in dialogo, spesso a confronto o addirittura in aperto scontro intellettuali e studenti?

Iniziamo subito, ma andiamo per gradi. Per prima cosa: gli studenti credono.

Di questo ci si dimentica troppo spesso. Non lo dimenticano i genitori, che in qualche modo ne sono consapevoli, non lo dimenticano gli insegnanti, che lo vedono ogni giorno. Lo dimentica la società, quella italiana, quella europea, quella occidentale, diremmo, che quando abbassa gli occhi a guardare questa massa (quasi interamente non votante[2]) riesce a reagire solo sul piano della formazione professionale o, al massimo, della propaganda.

 

Ma i ragazzi credono, dicevo. Credono veramente a quello che incontrano (persone, immagini, storie), alle parole che ascoltano, credono alle ideologie politiche, spesso alle religioni di appartenenza familiare[3], al valore sociale del titolo di studio. Chi tra loro ignora queste istanze, o se ne contrappone, lo fa spesso perché vincolato, anche se in chiave polemica, alle stesse strutture che sceglie di combattere. Studentesse e studenti sono abitati da un fortissimo desiderio poietico, guidati dalla volontà di fare. Dobbiamo tenerlo a mente, sarà fondamentale per la lettura di queste pagine.

 

2. Eroi con un’ala sola

 

Poi: I ragazzi combattono. Malgrado i problemi strutturali e l’abdicazione al ruolo di laboratorio sociale che la scuola dovrebbe avere, al suo ruolo di ascensore sociale, contro cui sbatte la volontà dei singoli. Una legge non scritta (che non è che la principale legge del capitalismo) per costituzione: «a scuola vanno bene solo i figli di papà. Studiano solo i ragazzi nelle cui case ci sono libri»[4]. È quello che Paolo Mastrocola chiama “ipotesi del figlio dell’idraulico” «se il figlio dell’idraulico non diventa notaio, forse non è soltanto perché è figlio dell’idraulico; forse non arriva a laurearsi perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non lo ha preparato»[5].

 

C’è un quadro di Paul Klee che mi perseguita da quando ho iniziato a lavorare a questo libro: Der Held mit dem Flügel (l’Eroe con l’ala), del 1905, secondo della serie di acqueforti Inventionem, iniziata nel 1903 sotto l’auspicio di queste parole dello stesso Klee: «Ci sono due monti su cui tutto è limpido e sereno, il monte degli animali e il monte degli dei. In mezzo c’è la valle crepuscolare degli uomini»[6].

 

L’ho incontrato alla mostra organizzata a Palazzo Reale, a Milano. Davanti a quest’opera, nella prima sala, sono rimasto fulminato. L’artista viveva una fase compositiva molto lontana da quella più nota della “pre-arte” degli anni ‘20 e ‘30. Un periodo in cui un giovane Klee passeggiava con Alfred Kubin chiacchierando di Goya, di Durer, di Ensor, e di tutti i maestri del fantastico e della satira in pittura.

Guardiamolo quindi, questo eroe con l’ala, «un eroe tragicomico, un antico Don Chisciotte […]. Quest’uomo nato, in contrasto con esseri divini, con un’ala sola, fa grandi sforzi per volare, e così si spezza braccia e gambe, ma tuttavia resiste sotto l’usbergo della sua idea»[7].

 

Dicevo, non riesco a non pensarci, così come non riesco a non contestualizzarlo nel contemporaneo, a ridiscuterlo in senso moderno. Mi sembra, di più, il simbolo perfetto dei miei studenti.

Gli strumenti stessi della vecchia democrazia (i circoli politici, la scuola, le istanze religiose, gli scioperi) non riescono più a rispondere alle esigenze del contemporaneo, per questo i ragazzi cercano affannosamente nuovi spazi per il dissenso e per l’autodeterminazione.

 

Quanto simili sembrano, i nostri studenti, a quell’eroe con l’ala, per come sono goffi e regali al medesimo tempo, dentro una sconfitta che sembra annunciata. Stanno nella valle crepuscolare degli uomini, dove ai loro tormentati tentativi di volo risponde il silenzio degli adulti e quello dello stato che, dovendo seguire il consenso, non riesce a esprimere, a livello scolastico, risposte convincenti.

In mezzo a questa macchina chiassosa che è diventata la scuola, le ragazze e i ragazzi che nel sistema si perdono sono visti come reietti, errori di sistema dati in pasto a una società da cui si sentono giudicati ancora prima di poter emettere un suono. Eroi con un’ala sola, dunque, creature mostruose alla disperata ricerca del volo.

 

Ogni volta che mi capita di essere invitato nelle scuole italiane per parlare di letteratura il copione è quasi sempre lo stesso, io che mi aggiro per l’edificio, che parlo con i ragazzi, che prendo un caffè alle macchinette “sovietiche” di cui le scuole, da Bolzano a Ragusa, sono popolate, e poi, in aula magna, eccomi a fare i nomi, più noti, della letteratura mondiale.

Tutto va bene finché stiamo nel programma, le più brave e i più bravi stanno lì ad annuire, sentendo di Alfieri o Shakespeare, di Calvino e Goethe. Ma a me non basta e dunque sempre mi muovo sul campo oscuro della letteratura contemporanea, parlando di Milo De Angelis e Antonio Moresco, di Derek Walcott e Kazhuo Ishiguro, fino a Byung Chul Han e Cormac McCharty. Basta questo per ottenere il loro intontimento, per togliere la mappa che dieci, dodici anni di istruzione gli hanno disegnato sotto i piedi in Letteratura come in Fisica, in Storia come in Matematica.

 

Ogni volta che mi succede, allora, avendo davanti studenti del terzo o quarto anno, del classico e dello scientifico, devo tornare indietro di millenni, andando sull’epica, sulla tragedia, dall’Hölderlin di Sul tragico fino alla Grecia dei mistagoghi e delle baccanti. Quello è il loro campo, la grande cultura mitologica occidentale su cui dall’astronomia fino alla Psicoanalisi si muove il nostro contemporaneo. Sanno bene quello che hanno imparato. Ma cosa hanno imparato, cosa gli è stato insegnato?

«Controeducazione a scuola significa rovesciarla da capo a fondo»[8] scrive paolo Mottana nel sul piccolo manuale di controeducazione, e poi aggiunge che bisogna addirittura: «raderla al suolo e ricominciare da capo»[9], perché la scuola attuale «condiziona ad un’immagine del sapere cupa e detestabile a partire dalle copertine e dagli indici dei suoi manuali, dei suoi libi di testo, in cui il sapere è immolato sull’altare dell’omogeneizzazione, della classificazione e della mortificazione sistematica di ogni traccia di vita, di interiorità, di differenza»[10]

 

Quello che chiediamo ai nostri ragazzi è una formazione tecnica. I classicisti devono saper tradurre e gli scientifici devono sapere far di conto, per non parlare degli istituti tecnici e professionali, in cui i campi del sapere sono erasi già dal titolo, a vantaggio della possibile professione futura. La scuola è utile solo nella sua funzione di educazione alle tecniche. È una macchina che si muove per competenze. Non serve altro.  Ma «la fatica si fa per passione, non ci si appassiona alla fatica, e chi lo fa forse deve espiare qualcosa. Ma sulle colpe non si costruisce il gusto del sapere»[11].

Perché, bisognerebbe chiederci, siamo entrati in questa situazione strana?

 

 

PER DARE ASCOLTO AL SISTEMA VEGETATIVO

 

Il professor Carlo Alberto Redi, accademico dei Lincei ed esperto di zoologia, dialoga con Vittoria Pini, studentessa di Firenze. I temi sono quelli delle Scienze, declinate attraverso le nuove scoperte e le nuove possibilità tecniche.

 

VP: Caro Professore, per me è un piacere grande parlare con lei. Ho buttato giù degli appunti, mi sono chiesta da che cosa cominciare… forse da cosa fosse nata questa sua passione per la scienza.

CAR: Cominciamo, se vuoi, dal Piccolo Chimico.

VP: Come mai?

CAR: Da piccolo giocavo al “Piccolo Chimico”, preferendo la chimica alla meccanica.

VP: Era nelle sue corde, insomma!

CAR: Sì, esattamente! Ma credo anche avessi già intuito che il metodo scientifico è l’arma più potente che abbiamo per creare un mondo più attento alla situazione attuale, più attento all’inclusione, un mondo… Può sembrare strano che io già lo avvertissi, però devo precisare che sono finito in un Collegio di Concezionisti. Non so se hai presente, sono quelli vestiti di blu. Il collegio, insomma. Ci sono arrivato a cinque anni e uscito a ventiquattro, poi l’ascensore sociale, nel caso mio, ha funzionato: ho schiacciato il bottone e mi sono ritrovato in Collegio Ghislieri, mentre mia madre era da sola e doveva mandarmi a lavorare. Però ho avvertito sempre, profondamente, questo fatto: che la scienza, in qualche modo, fosse uno strumento importante per convivere.

VP: Bene! E pensa che questo ascensore sociale funzioni anche oggi?

CAR: Oggi esiste il “pavimento colloso”. Le disuguaglianze sono terrificanti. È uno dei temi su cui sto lavorando di più, con la Fondazione Umberto Veronesi e nelle mie attività. Direi che l’ultimo rapporto Istat risponde perfettamente: 5 milioni e 472.0000 persone che non hanno da mangiare. L’ascensore sociale non esiste più. Io, oggi, sarei finito a fare il perito chimico. Lei che ne pensa invece, Vittoria?

VP: Credo che spesso gli studenti non vengono visti da un punto di vista umano. Cioè, sono considerati un numero, ecco. Forse è anche dovuto alle molte sezioni, alle classi numerose e al fatto che non tutti i professori hanno la possibilità di stare dietro agli studenti, di seguirli al di là del rendimento scolastico. Di conseguenza, uno studente viene associato a un numero: per esempio, hai preso quattro in italiano, allora sei quattro. Non sei, che ne so, un ragazzo da scoprire, che, magari, ha altre passioni. Dal punto di vista umano, si tende a trascurare la personalità, a non valorizzare gli interessi, a far emergere, insomma, da ogni studente le sue potenzialità.

CAR: Fatto salvo che stiamo parlando di quelli che arrivano e sono a scuola. Perché i dati sull’abbandono scolastico sono paurosi. Ricordo una delle ultime volte che Umberto Eco ha parlato all’Accademia dei Lincei, ci ha tenuto a ricordare numeri che oggi sono solo aumentati. Quindi, stiamo parlando già dei fortunati.

VP: Noi studenti siamo dei numeri. Questo è un fatto. Ma questo provoca tra gli studenti stessi una specie di competizione, no? Un attaccamento, anche, al voto stesso.

CAR: Devi considerare che quando uno studente arriva all’università, di fatto, le sue capacità sono già state strutturate dalla scuola superiore, quindi, noi riusciamo a incidere solo un minimo per affinare le loro capacità. In merito ai  voti, come mia esperienza personale, ho sempre richiamato i miei studenti alla responsabilità e cioè ho ricordato loro il privilegio di essere seduti davanti a me, mentre c’è qualcuno al largo di Lampedusa su un barcone. Il fatto è che, da individui adulti e sessualmente maturi, gli studenti devono essere responsabili. Io non ho mai chiesto le firme e parlando di voti o si prendeva un 28, un 30, oppure suggerivo di tornare più preparati, cioè, fondamentalmente, era la destra della distribuzione gaussiana degli studenti che avevo dinanzi, quella che mi seguiva, perché quella a sinistra è persa in partenza. Quindi il voto l’ho sempre visto come uno strumento di autovalutazione. Poi non so quale sia stata la tua esperienza.

VP: Riguardo al sistema scolastico italiano?

CAR: Sì.

VP: Per rimanere in tema, personalmente mi sono trovata bene. Le ingiustizie non mancano, ma purtroppo fanno parte della vita. Poi, un’altra cosa, secondo me, al liceo c’è troppa parte teoria e troppa poca pratica, troppo poca attenzione all’applicazione. In poche parole, penso che nelle scuole italiane, rispetto alle scuole straniere, si studi molto approfonditamente, il livello teorico di studio sia ottimo, ma a livello pratico c’è carenza. Per esempio, ora io sto finendo il liceo, però non ho un quadro ben preciso del mondo a cui, appunto, dovrò andare incontro, dell’università, del lavoro… Sono in un limbo, ecco, non so veramente che cosa mi aspetta là fuori. Non abbiamo fatto un orientamento mirato per capire che cosa fare dopo, in base alle passioni, agli interessi, alle capacità personali. Quindi, secondo me, questo è un altro aspetto che si dovrebbe migliorare, perché riguarda una scelta non indifferente, che porterà, se tutto va bene, a svolgere un lavoro che segnerà la vita di ciascuno.

CAR: Vittoria, è molto interessante quello che dici, perché io lo ritrovo in università nella scelta del corso di laurea: molti degli studenti che incontro decidono convinti che questa disciplina offra loro l’opportunità di trovare lavoro. Io, il primo giorno, oltre agli avvisi ai naviganti citati prima, ricordo loro anche che questo è un falso problema perché il lavoro lo troveranno solo e soltanto in base a domanda-offerta. Puoi anche essere preparato da Nobel e aver risolto i tuoi dilemmi sul futuro, ma non troverai lavoro se il lavoro non c’è. Per cui il mio invito è sempre: fate quello che il vostro sistema vegetativo, la vostra pancia, le vostre passioni, i vostri desideri, le vostre vocazioni vi indicano. Non c’è sistema migliore. È un inganno quello di dire: «Studia tanto, qualificati», ragazzi, nell’ambito delle mie discipline, una Big Pharma, una grande industria, ti specializza nel giro di un mese, se il  lavoro c’è. Quindi l’importante è non perdere l’occasione, la scuola dovrebbe insegnare questo, a esprimere i propri desideri, in una parola il proprio eros, vista la fortuna gli studenti hanno di poter seguire un corso di studi. Purtroppo la scuola non lo fa e questo si riverbera sull’università. Si vede chiaramente, ci sono persone convinte, dopo il triennio, di essere dottori in qualcosa e del tutto depresse il giorno dopo aver lanciato i coriandoli e stappato il prosecco per festeggiare il titolo. Succede a tanti. Questo è un aspetto che ricordavi, Vittoria, e che, secondo me, andrebbe chiarito da parte del corpo docente: ragazzi, fate quello che vi sentite di fare, la scuola vi deve dare gli strumenti per affrontare un mondo di una complessità inimmaginabile per quelli della mia generazione. La scuola dovrebbe dare proprio questa indicazione: far fronte in termini laici all’incontro con il mondo, il lavoro, le relazioni, lo stare con gli altri, ciò di cui vuoi occuparti. Questo dovrebbe fare la scuola, più che trasmettere il singolo elemento nozionistico: ti insegno a fare bene una reazione di citochimica quantitativa, e quindi? Finisce lì, invece, io devo darti gli strumenti intellettuali per affrontare ciò che viene dopo. Poi, certo, ci vuole la nozione, non c’è dubbio, la trasmissione del sapere, però dovrebbe essere lo strumento, l’invito a esprimersi, a relazionarsi, perché il mondo davanti a noi è disumano: c’è un pianeta distrutto, disuguaglianze terribili, persone che non hanno da mangiare, epidemie e pandemie. Ed è tutto legato! Se distruggiamo l’ambiente continuando a mangiare carne rossa, a fare cinquecento viaggi, due miliardi di aeroporti, migliaia di macchine. Vorrei che si insegnasse un galateo, un galateo ecologico, ma nel senso più ampio delle relazioni personali e delle relazioni col vivente, questo è il punto che manca oggi! Con la riforma Gentile, e non sto qui a dilungarmi, non ne ho nessuna volontà, gli studenti entravano in una scuola che procedeva assolutamente e senza dubbio per conoscenze. Oggi invece i ragazzi devono scegliere alle medie il loro settore, mentre vengono inseriti da subito in un percorso professionalizzante che parla per loro, che li precede. È impressionante!

VP: Certo.

CAR: E poi c’è il terrore – mi pare di sentirlo nell’aria – di queste nuove tecnologie: sento dire che in alcuni luoghi viene vietato questo aggeggio – indica il telefono – o si ha paura dell’utilizzo di ChatGPT, ma queste cose vanno insegnate, fanno parte della realtà in cui viviamo. È il segno algebrico che noi mettiamo dinanzi a questi strumenti che fa la differenza. Io con questo aggeggio posso fare telemedicina per i bimbi a Mogadiscio. Poi certo, ci sono le fake news e le narrative del negazionismo ambientale. Vanno insegnate queste cose. Conoscenza! Ma partendo dai classici. Basta ricordare di leggere Proust, La Recherche, e c’è già tutto. Altre volte devi insegnare Heidegger che, con cento anni di anticipo, teorizza esattamente quello che ci sta succedendo. Certo, poi devi insegnare agli studenti anche l’epigenetica; devi insegnare che non sei un individuo, queste concezioni vecchie vanno lasciate perdere, sfruttando le conoscenze scientifiche. Quando Heidegger parla di con-essere e noi oggi possiamo dire che se ci incontriamo e viviamo insieme per un mese in una casa, condivideremo il microbioma che abbiamo nell’intestino, cioè noi siamo con-dividui. Parliamo di conoscenze che vengono da lontano, che sono già state sviluppate e si ritrovano nella letteratura, nella filosofia. Di recente sono stato al Salone del Libro di Torino e quando ho visto tutti quei ragazzi… il lunedì era dedicato ai bimbi… mi si è allargato il cuore e ho pensato a quello che diceva Maurice Béjart: «Malgré la merde, je crois».

VP: E io ne sono felice.

CAR: Noi dobbiamo riuscire a insegnare, a relazionare, a spiegare fin dall’asilo ai ragazzi le grandi opportunità che possono cogliere. Dopo il fuoco e la ruota, questa è l’altra grande invenzione, è fantastico! Dentro c’è il mondo… poi c’è anche il peggio del peggio, ma è importante dirlo! Ma soprattutto pensiamo a noi in maniera nuova: possiamo parlare ancora di individui? Il 98 per cento del DNA che c’è in ognuna delle nostre cellule non si esprime, il 2 per cento si esprime e lo condividiamo con Neanderthal e stiamo ancora a parlare di razzismo, stiamo ancora a parlare di razze, stiamo ancora a parlare di cose veramente più che superate. Poi però i danni, eccoli, li vediamo al telegiornale. Non faccio nomi ma… direi che sono noti a tutti.

VP: Questo, Professore, è un dramma che capisco benissimo.

CAR: Però vedi, Vittoria, la scuola dovrebbe educare laicamente perché se cadiamo nei pregiudizi ideologici o religiosi, purché legittimi, ne va della relazione tra tutti noi. Massimo rispetto per qualunque idea personale, ma io non posso accettare che un ministro mi faccia il discorso sulla carne sintetica. Ma di cosa stai parlando? È agricoltura cellulare, è carne prodotta con le staminali in laboratorio. Vuoi continuare a fare allevamenti intensivi, a produrre plastica? Il risultato è un pianeta devastato, e da questo ecco che le diseguaglianze aumentano, perché è tutto legato. La scuola dovrebbe dare questa idea: di avvicinarsi laicamente. Quando c’è un problema bisognerebbe interrogare lo studente e chiedergli qual è la sua idea per risolverlo. Senza pregiudizi alla base. Guarda che, ad oggi, solo papa Francesco ha detto due parole sensate rispetto alla situazione che stiamo vivendo.

VP: La situazione del pianeta…

CAR: Sì. Poi mi definiscono cattocomunista e va bene, mi prendo anche del cattocomunista. Però bisognerebbe dire alla società, e forse sarebbe il caso di partire proprio dalle scuole, “non vuoi risolvere le diseguaglianze?”, bene, beccati le prossime pandemie! Perché se non stiamo tutti decentemente, i signori virus se ne infischiano se tu stai a Beverly Hills o nel sobborgo di Mogadiscio: si sviluppano e voilà! Tu Vittoria sei molto giovane, ma devi sapere che la pertosse l’abbiamo presa dai maiali perché li abbiamo addomesticati centomila anni fa, l’influenza, poi HIV, Marburg, Nipah, H5N1, H1N1, sono tutti spillover, sono tutti salti di specie. Insegniamo queste cose! Da qui si può partire e arrivare al teatro, la letteratura, cioè attingere da tutte queste materie meravigliose e metterle in campo. Pensate a quello che potremmo insegnare leggendo i classici greci sulle pestilenze. Ecco è questo, perché altrimenti finisce come dici tu Vittoria, che la differenza la fa l’attenzione dell’insegnante che è disposto a mettersi a nudo in cattedra, a confrontarsi e a chiamare i ragazzi ad avere una vita propria, a non essere dei figuranti nel film di qualcun altro.

VP: Sì, infatti. Per esempio, parlando da studente che si confronta con altri liceali, è vero che ci sono insegnanti che hanno studiato, ma non sanno insegnare, non trasmettono passione, questo loro eros per la materia, perché magari si trovano a fare un lavoro che non piace e  volevano fare altro, ad esempio volevano fare i ricercatori, per questo non sono in grado di instillare negli studenti curiosità ed entusiasmo, ma solo insoddisfazione.

CAR: Certo.

VP: Però c’è un altro lato della medaglia, come nel mio caso: ho avuto una  professoressa di latino, che purtroppo non c’è più, veramente fantastica, sin dall’inizio ha trasferito la sua passione per la materia, per la scuola e mi ha fatto anche crescere come persona. Come ha detto lei, professore, è importante il presente e cercare di guardare oltre, però anche il passato, da questo punto di vista, secondo me, è molto importante. Dal passato si impara: è una lezione di vita, è il mondo classico che mi ha fatto apprezzare il momento attuale, mi ha insegnato a cogliere l’attimo, come diceva Orazio, il carpe diem, e mi ha fatto soprattutto capire l’importanza della cultura, perché, secondo me, la cultura è potere, permette di difenderti, di capire, apprezzare le cose. Cicerone, infatti, ha detto: «Fac sapias et liber eris», cioè “fai in modo di sapere e sarai libero”, ecco, quindi, io ritengo che anche se studio materie, diciamo, “antiche”, è un grande dono e, se tornassi indietro, lo rifarei centomila volte.

CAR: Condivido ogni parola, ogni sillaba, è assolutamente così! Però poi il problema è la radiografia della nostra società. Il 32 per cento dei giovani, tuoi coetanei, non intende l’italiano narrativo e argomentativo, vuol dire che non capiscono come ha fatto l’Inter a vincere lo scudetto, non Orazio o chi altro. È terribile!

VP: Certo. Sono dati impressionanti.

CAR: Lo sono. Ed è proprio la scuola il problema. Ma sottoscrivo ogni tua parola Vittoria e anche io ritengo che sia importante spiegare come sia possibile che siamo arrivati a una situazione del genere. Durante le mie lezioni, come puoi immaginare, devo parlare di tardigradi e dell’ermafroditismo negli nematodi… però inizio sempre ricordando agli studenti un libro che va letto a riguardo, un film, un pezzo teatrale. Per spiegare le staminali, partivo da Thomas Mann e dalla Montagna incantata, quando lui è in sanatorio e ha il libro sullo stomaco, legge e pensa come si forma un embrione. Bisogna sforzarsi.

VP: Sforzarsi a fare cosa?

CAR: A trovare collegamenti di questo genere. E poi devi anche spiegare come mai siamo finiti in questa situazione.

VP: La crisi climatica?

CAR: La crisi, la guerra. A prescindere dalla materia che si insegna. Io ricordo sempre le parole di Domenico De Masi, e il suo ultimo libro La felicità negata. Oggi, se non fossi andato in pensione, sarebbe il primo, prima forse di Céline, che segnalerei immediatamente. Ecco allora le tue parole, Vittoria: sapere, conoscere è libertà, perché ti dà lo strumento per dire quando una cosa non ti va bene. Quando non la vuoi. Sono parole importanti.

VP: Certo.

CAR: A questo dovrebbe qualificare la scuola. A capire dove siamo finiti e come mai, se è il caso di ribellarci, dobbiamo pretendere a livello planetario di avere un minimo di acqua: mentre noi stiamo parlando ci sono dei bimbi che stanno morendo di diarrea. Basta questo, senza nemmeno fare riferimenti a ciò che sta accadendo in Palestina, però dico che è evidente che c’è una responsabilità nostra, siamo responsabili, noi dobbiamo intervenire. Ma che strumenti mi dai, se a scuola non strutturi queste mie capacità per arrivare ad avere libertà di relazionare, di amare, di avere affetti? L’importante è che in una famiglia ci sia chi ti vuole bene, chi ti cresce, che siano due maschi, due femmine, cinque individui, ma questo non lo dice Redi, lo dice la scienza: lo stunting, il non crescere dei bimbi, non è causato solo dalla mancanza di cibo, è anche deprivazione affettiva, è violenza. Ma queste cose si trasmettono per generazioni: l’epigenetica ti dice che se tu oggi vivi in un ambiente violento, in un ambiente anaffettivo, lo trasmetterai geneticamente, c’è una transizione socio-biologica. Il sociale ti entra nella carne e lo trasmetti.

VP: A proposito di rabbia, di ribellione, negli anni Sessanta e Settanta in Italia e in Francia soprattutto, nelle scuole e in università, entrava la Politica, con la P maiuscola: penso il doppio schieramento, Patto Nato – Patto di Varsavia, con, ovviamente, gli studenti che erano in maggioranza vicini a istanze comuniste, e questa politica guidava le scuole italiane. Finisce quel tempo e la sinistra si innerva già dagli anni Ottanta e poi per tutti i Novanta con l’appassimento dell’Unione Sovietica, lo scontro, invece, è sul terzomondismo: non c’è più uno scontro tra primo e secondo mondo, ma la sinistra riparte dal Sud America, dall’Africa e quant’altro. Oggi, invece, mi sembra non ci sia il campo politico o meglio c’è l’ambientalismo, oppure poche battaglie globali (penso alla Palestina) secondo lei è giusto che la politica entri nelle scuole?

CAR: E secondo te è giusto? Mi interessa prima capire il tuo punto di vista.

VP: Un mio professore di storia mi disse che, secondo lui, la scuola non dovrebbe intervenire sulla politica, perché il compito della scuola è quello di aiutare i propri studenti a crearsi un proprio pensiero, sulle basi, cioè, delle nozioni acquisite ogni studente dovrebbe crearsi il proprio pensiero, non essere influenzato da ciò che dice il professore perché il professore è colui che sa. Il professore dovrebbe “educare”, dal verbo latino educo, cioè condurre fuori, tirar fuori la scelta. Io condivido questo pensiero, l’insegnante, o la scuola in generale, non dovrebbe influenzare gli studenti conducendoli verso una determinata direzione o un tipo di pensiero, perché dovrebbe fornire gli strumenti per conoscere e riflettere, per poi saper scegliere.

CAR: Certo. Vittoria, direi che condivido il pensiero del tuo professore di storia che dice che, stante questa asimmetria di relazione, non può proporre il proprio pensiero politico in aula. Non può e non deve portare gli studenti dalla sua parte politica.

Deve però richiamare la responsabilità dei ragazzi al mondo, alla politica che hanno fuori dalla classe, perché l’insegnante che dice ai ragazzi di “Fridays for Future” che non devono andare alla manifestazione e che è un delitto terribile appiccicare le mani con i colori sui vetri delle opere, secondo me è sbagliato. Ma che cosa vuoi che faccia un ragazzo di  diciotto anni? Ha potere economico? No! Ha potere politico? No! Non può fare altro che, per protestare rispetto allo sfascio, di sporcarsi le mani o mettere un po’ di colorante in una fontana. Però non puoi chiamarlo eco-imbecille e eco-terrorista, come qualcuno in questo momento in sede governativa sta facendo.

VP: Dovrebbe essere un invito oggettivo, ecco!

CAR: Sì, esatto, brava.

VP: E lei cosa consiglia ai giovani, professore?

CAR: Beh, per me è centrale il fatto di partecipare alla vita del mondo in cui siamo stati gettati, con la responsabilità degli strumenti che ci sono stati dati e l’attenzione verso gli altri, perché in questo momento io potrei essere chiunque degli altri. Siamo otto miliardi, tra poco saremo dieci miliardi, ma è by chance che io sono qui. Io condivido il corpo, condivido tutto quello che è il mio DNA con gli altri e quindi devo pensare in termini di inclusione. (Silenzio) Quello che vorrei che risultasse chiaro è che essere generosi conviene. La vita non è una vigliaccata da cui difendersi, chiudersi nel mio piccolo orticello: abito a Bergamo alta, chi se ne frega del mondo intero. No! Essere generosi conviene, lo insegna la storia, lo insegna la biologia. Chi non è generoso si prende la paga del babbeo, questo lo dice la biologia, lo dicono gli insetti sociali:  se siamo qui è perché siamo stati generosi. Sapiens è un tappetto rispetto a Neanderthal, però abbiamo fatto fuori Neanderthal, in che termini? Con lo strumento più potente di cui disponiamo, con la tecnica più potente: il linguaggio, il comunicare, il parlarci. Ci siamo detti, va bene, bisticciamo un po’ qui nella caverna, ma là fuori c’è Neanderthal. Strategia di reciprocità, “reciprocare”, essere relazionati, sapere che l’altro in definitiva sei tu, questo è un’arma potentissima, che va insegnata e vanno messe in campo, a livello sociale, tutte le politiche possibili e immaginabili per tagliare le disuguaglianze che non sono più accettabili.

Guardate le statistiche della FAO, dell’OMS, di Oxfam! Io ho sempre timore e cerco, con tutti gli strumenti possibili e immaginabili, perché poi ci sono anche quelli del dopo laurea e così via, di spiegare ai miei studenti la potenza di questo pensiero e che essere generosi conviene. Alla fine, se vuoi vederla anche sotto questo profilo, l’essere generosi è un atto egoistico.

VP: Tra l’altro lei prima ha citato più volte Heidegger e se non sbaglio lui diceva proprio che una delle caratteristiche dell’Esserci, cioè appunto dell’Ente-uomo, è essere con gli altri, cioè usufruire, stare con gli altri secondo il loro scopo e bisogno, non per il proprio.

CAR : Ma certo! Ma andrebbero insegnati tutti i grandi classici e lo dico da uomo di scienza. L’atteggiamento è quello di Umberto Veronesi, e io son finito a fare il Presidente del Comitato di Etica della Fondazione Umberto Veronesi, e lavoriamo all’agricoltura cellulare, alle pandemie, ai vaccini, a come stiamo insieme, a prevenire le malattie… Però, ecco, forte deve essere il richiamo al fatto che, come diceva Heidegger, come dice oggi la biologia più avanzata, siamo con-dividui, non siamo individui, va cancellata questa idea nella testa delle persone: o ci si salva tutti o non ci si salva in un contesto come questo. E dobbiamo ricordarci sempre il privilegio che abbiamo: quello di riuscire a dirci queste cose in un luogo che gli umani hanno chiamato scuola. Dove le cose si conoscono, si discutono, si cambiano, se è necessario. Questo è centrale: l’etica della responsabilità, contro il cieco egoismo, l’etica della responsabilità fa incontrare tutti. Siamo tutti responsabili e dobbiamo agire.

 

 

Dalla postfazione di Alessandro Barbero

SE LA SCUOLA MUORE

Ossessionata dalla valutazione, sommersa dalle scartoffie, genuflessa al dogma del mercato, la nostra scuola sta soffocando. E noi stiamo a guardare. Eppure basterebbe poco per invertire la rotta. Non è neanche un problema di soldi (che naturalmente non guasterebbero). Sarebbe sufficiente per esempio che gli insegnanti fossero lasciati in pace a fare il loro lavoro, anziché costringerli a buttare via il loro tempo per compilare inutili incartamenti e stressarli con assurde valutazioni. E basterebbe tornare a pensare che la scuola deve produrre teste pensanti, e non meri esecutori di mansioni.

In tutto l’Occidente il declino della scuola pubblica è un fenomeno storico ben riconoscibile da qualche decennio. Ovviamente esistono differenze da un paese all’altro, perché ci sono luoghi in cui da sempre frequentare la scuola pubblica significa ricevere un’istruzione giudicata di serie B (e dove quindi la classe dirigente manda i suoi figli esclusivamente in scuole private, come capita ad esempio negli Usa), e altri – come l’Italia – in cui la qualità più alta è sempre stata garantita dai licei pubblici; e non solo da quelli famosi delle grandi città (il Parini, il Mamiani, il D’Azeglio, scuole i cui nomi sono parte della storia della società e della cultura italiana). Al di là delle differenze nazionali è però evidente che in tutto l’Occidente la scuola pubblica è in crisi e che sta subendo un progressivo abbassamento di livello.

L’allergia al pensiero critico della classe politica e imprenditoriale

L’insufficienza delle risorse è solo uno dei problemi, anche se spiega molte cose. Per limitarci a un esempio, nel gennaio di quest’anno il colossale sciopero degli insegnanti a Los Angeles («frutto di anni di frustrazioni», osserva il Guardian) ha rivelato il declino del sistema scolastico californiano, che una volta era il migliore degli Stati Uniti: «Gli insegnanti lottano con classi sovraffollate e bambini le cui necessità di sostegno, assistenza psicologica e aiuto nell’apprendimento dell’inglese superano di gran lunga le possibilità della scuola». Nei quartieri poveri gli insegnanti comprano stracci e detersivi e fanno loro stessi le pulizie alla fine della giornata: il tutto in uno Stato, la California, che ha la più alta concentrazione di miliardari sulla Terra[22].

Ma la scarsità di mezzi non basta a spiegare le difficoltà in cui si dibatte la scuola. Il problema più grave è l’approccio culturale: l’indifferenza, se non l’ostilità, della classe politica nei confronti della scuola e degli insegnanti. Un’ostilità neanche tanto nascosta quando si tratta della destra: in Italia è innegabile l’antipatia di un intero settore dell’opinione pubblica nei confronti di un mondo, quello degli insegnanti, tradizionalmente considerato di sinistra). Ma il problema va al di là della collocazione politica e dell’orizzonte italiano, anche se l’Italia, per l’estrema inadeguatezza e ignoranza della classe politica, è particolarmente indifesa. La minaccia più insidiosa è l’ideologia unica del profitto, l’esaltazione dell’imprenditoria come sale della terra, l’attenzione esclusiva all’economia e al mercato. Ne risulta una classe dirigente che non capisce letteralmente più a che cosa servano la cultura e lo spirito critico e che, quando lo capisce, li considera pericoli da neutralizzare. La scuola non deve produrre teste pensanti, ma esecutori, tecnici: è solo in questi termini che la classe dirigente riesce a concepirla.

Va da sé che in questa prospettiva la scuola si giustifica esclusivamente come preparazione al lavoro, in maniera ben diversa da quando a scuola andavano soltanto i figli della classe dirigente. Gli istituti più prestigiosi offrivano allora una formazione completamente scollata dalla realtà pratica del mondo del lavoro ed è proprio questo che la borghesia voleva per i propri figli. Ora che a scuola vanno tutti, invece, improvvisamente questo non va più bene. In passato era ovvio che andare al ginnasio anziché a una scuola di avviamento professionale rappresentasse un enorme vantaggio, da cui infatti le masse erano escluse; oggi nessuno osa più dire che la formazione culturale impartita dalla scuola arricchisce e avvantaggia chi la riceve soprattutto se è indipendente dalla formazione professionale. Durante la prima guerra mondiale, l’esercito chiamava come ufficiali per comandare i plotoni anche giovani di 19 anni, purché diplomati. Il latino serviva a impartire gli ordini? Evidentemente no, ma si dava per scontato che una formazione scolastica completa preparasse una persona più forte e più capace in ogni ambito della vita.

Nei decenni delle lotte per i diritti, del welfare state e della crescita dell’uguaglianza, dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni Settanta, questa concezione si è allargata senza snaturarsi. L’idea era che la scuola servisse a formare il libero cittadino e che per questo tutti dovessero andarci il più a lungo possibile, fino a quattordici anni, poi fino a sedici, e che questo dovesse essere un obbligo, per evitare che nelle classi sociali più disagiate prevalesse la tentazione di mandare i figli a lavorare, privandoli così di una possibilità di miglioramento (umano, prima ancora che sociale ed economico) che invece doveva essere garantita a tutti. All’epoca un bambino, o un ragazzo, che andava a lavorare anziché a scuola era guardato con tristezza, visto come uno «spreco» e come un indicatore di arretratezza del paese. Oggi invece c’è l’alternanza scuola-lavoro: per la prima volta da secoli si è invertita la spinta a garantire a tutti un periodo di scuola il più lungo e libero possibile e si è cominciato a dire che restare a scuola fino a diciott’anni senza essere obbligati a lavorare è un lusso o una perdita di tempo, che allontana dal cosiddetto mondo reale. In molti casi gli insegnanti che gestiscono l’alternanza scuola-lavoro riescono, con grande e non ricompensata fatica personale, a trarne un’esperienza utile per i loro ragazzi, ma in altri casi non siamo lontani dalla concezione sovietica per cui gli studenti d’estate dovevano andare a raccogliere le patate – salvo che qui alla base non c’è nemmeno l’egualitarismo sovietico, ma la realizzazione del progetto, sempre presente nei programmi dei governi di destra, di ridurre di fatto l’obbligo scolastico sostituendolo con percorsi lavorativi.

[1] Domenico Starnone, La scuola, Torino, Einaudi, 2020, p. 16.

[2] Rimandiamo, a questo proposito, al lavoro del sociologo David Runciman “Facciamo votare i bambini” apparso in Italia nel numero 1440 di Internazionale: https://www.internazionale.it/magazine/david-runciman/2021/12/16/facciamo-votare-i-bambini

[3] Qui per una mappa delle religioni professate dagli studenti italiani: https://www.tuttoscuola.com/la-mappa-delle-religioni-nelle-scuole-italiane/

[4] Paola Mastracola, Luca Ricolfi, Il danno scolastico, Milano, La nave di Teseo, p. 15.

[5] Ivi, p. 69.

[6] Raffaella Resch, Paul Klee – ritratto dell’artista come un angelo, Milano, 24 ore Cultura, 2018, p. 21.

[7] Ibidem.

[8] Paolo Mottana, Piccolo manuale di controeducazione, Milano, Mimesis, 2011, p. 21.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p. 23

[11] Ivi, p. 39

1 thought on “Una cosa che non parla. Intellettuali e studenti contro la scuola

  1. “Oh, come per tutto quel docere e chiacchierare, i corpi – il suo, degli altri, delle altre – si stancavano, si logoravano! Eppure docevano. O facevano finta di docere e chiacchierare. Anche se stanchi, anche se logorati. E malgrado la condizione di organizzatissima follia. Sì, lì dentro il Pacco Nord. Sì, lì nella società circostante.
    E vuoi che non si accorgessero alla fine – magari della carriera di docenti, quando il cuore cominciava a tremare di più – che il loro sconclusionato e clandestino tentativo di pensare – lì, dentro lo spazio scolastico – era stato un fallimento?
    E vuoi che – tanto o poco – la mente di prof Samizdat e dei suoi colleghi e delle sue colleghe non mentisse? Specie quando si poneva – ogni tanto, eh! – di fronte al dilemma che lo angustiava continuamente, da quando metteva piede al Pacco Nord a quando ne usciva e si rimetteva in auto per tornare a casa. Quando, cioè, si chiedeva: può il nostro corpo docente – perché c’era dentro stanco, appesantito, in via d’invecchiamento – tenere il passo, inseguire, il guizzante, strafottente, corpo di studenti e studentesse?”

    (https://www.poliscritture.it/2022/04/11/prof-samizdat-prova-5-2/)

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