di Filippo Saccardo
Credo che quello che più ha colpito della miniserie Adolescence sia la rappresentazione del fallimento di un’intera generazione di adulti. Tutte le figure educative sembrano aver rinunciato al loro ruolo, sembrano esse stesse adolescenti. La psicologa non riesce a dare un contenimento alla rabbia del protagonista, ne è succube, come lo sono docenti e genitori. Si vive un diffuso disorientamento di fronte ad un reale che è fuori senso, non fa tenuta, e si dissolve nella tragedia.
Ho il privilegio, prospettico, di lavorare in un Centro per Uomini Autori di Violenza e di svolgere attività di formazione presso le scuole secondarie di secondo grado. I temi che affrontiamo nelle classi riguardano l’affettività, la parità di genere e, più in generale, gli stereotipi in cui siamo immersi. Vedo uomini adulti e le più giovani generazioni con la lente della violenza di genere e delle relazioni intimo-affettive e mi trovo a dover interpretare i diversi sguardi. Gli uni si presentano con tutto il loro bagaglio di false certezze, gli altri trasmettono spaesamento; dietro a questi atteggiamenti si cela spesso la paura. Da parte mia coltivo il dubbio e mi trovo a riflettere sul modello culturale che abbiamo di fronte. Azzardo risposte a partire da ciò che vedo, nei termini di una fenomenologia povera. Una delle domande a cui sento di dover dare una risposta è se il patriarcato esista o se l’abbiamo già seppellito. La risposta determina la posizione etica che dobbiamo assumere. Politici e intellettuali hanno spesso affermato con leggerezza che il patriarcato è stato sconfitto dalla legislazione e dall’accesso femminile a ruoli sociali un tempo preclusi. Per rispondere guardo ai fatti, a partire da quelli economici, perché i numeri sono difficilmente opinabili: sappiamo che esiste il cosiddetto gender pay gap[1], solo il 58% delle donne ha un conto corrente individuale[2], le donne che ricorrono al lavoro part-time sono il triplo degli uomini[3], i ruoli lavorativi apicali sono a maggioranza maschile[4], ci sono differenze di genere nella scelta universitaria (materie STEM contro umanistiche[5]) e, di conseguenza, nel mondo del lavoro e nelle relazioni famigliari. Gli accessi ai pronto soccorso, le denunce per reati ascrivibili alla violenza di genere, gli accessi nei centri antiviolenza vedono una netta asimmetria tra uomini e donne, anche se poi diversi giuristi e legali tengono sempre più spesso a sottolineare che è in crescita il numero di donne che commettono violenza e non mi stupisce, vista la crescita della violenza generale nella società. I dati della violenza maschile sulle donne, gli accessi per cure ospedaliere, i reati sentinella in genere, i femminicidi (il cui numero rimane costante), sono però ineludibili.
C’è un altro dato, clinico, qualitativo. Molti degli uomini che arrivano nei centri che offrono percorsi rieducativi come previsto dalla normativa “Codice Rosso” sono spesso l’espressione più evidente di una cultura storicamente patriarcale. Vivono convintamente secondo modelli stereotipici e, soprattutto, hanno agito in conformità ad essi. Non è la regola, ma sono le casistiche più tipiche. Rappresentano i pesci immersi nell’acqua del patriarcato. Quando si chiede loro com’è l’acqua, come nella storiella raccontata che David Foster Wallace raccontò ai laureati del Kenyon College rispondono “cosa diavolo è l’acqua?”. Per vedere l’acqua occorre uno sguardo altro, esterno. I centri antiviolenza lavorano con vittime e autori che sono i più diretti figli del patriarcato, del padre padrone, che in certe famiglie e all’interno di certe nicchie culturali replica e trasmette tra le generazioni le medesime modalità di dominio subite dalle nostre madri. Perciò il patriarcato non è proprio morto, parafrasando Frank Zappa, ma ha un odore strano. Si è ritratto, è più strisciante, distribuito a macchia di leopardo. Sicuramente ci sono molti più individui e nuclei famigliari che lo mettono in discussione, vedono l’acqua. Il patriarcato non ha più un padre, è adespoto. Non ha un padrone, è parte del discorso del padrone. Lacan ha sprecato fiumi di parole su questo concetto sempre molto attuale.
I più giovani hanno stereotipi meno rigidi delle generazioni precedenti, riconoscono sicuramente i diritti conquistati dalle donne, ma quando li si mette in gruppo a ragionare sulla differenza tra uomo e donna si trovano quasi sempre a definire l’uomo come un eroe greco (forte, coraggioso, integerrimo, privo di emotività) e la donna come l’essere accogliente, disponibile, emotivo, fragile e propenso alla cura, che io immagino sempre come un vaso di cristallo. Sembrano in qualche modo definire il maschile sulla pelle o, meglio, sul corpo, femminile. Le caratteristiche attribuite al femminile figurano spesso come lo scarto di ciò che il maschile non deve essere. Ecco, confrontarsi con queste rappresentazioni mi fa pensare che i sostenitori del tramonto del patriarcato abbiano torto. Le aspettative che gli adolescenti hanno sono piuttosto invalidanti rispetto alla conquista della parità di genere e si cerca di mostrare loro che queste gabbie culturali nuocciono alle ragazze quanto ai ragazzi in perenne sforzo da performance per rispondere alle aspettative. Il maschile è molto fragile in realtà ma non può essere mostrato, non può essere simbolizzato e spesso sfocia nell’agito violento, compreso il suicidio[6]. In fondo l’espressione violenta della rabbia è socialmente tollerata per i maschi, meno per le femmine. Questa è la dinamica che conduce alle posizioni incel e red/black-pill (non me la sento di chiamarla cultura), le quali rappresentano un inconsapevole effetto del patriarcato sul maschile che, invece di vedere l’acqua, accusa, con una doppia torsione del discorso, le donne. Se il sessismo, a tratti palese e ostile, è divenuto oggi più subdolo e benevolente, la stessa sorte è toccata al patriarcato, ma c’è qualcosa di più. Le nuove generazioni vivono un vuoto. Gli adulti di oggi hanno vissuto un troppo pieno, quelle attuali non riescono a conquistarsi più nulla. E lo sanno. Il troppo pieno delle generazioni oggi adulte era il padre padrone, opprimente, autoritario ma simbolicamente presente. Faceva valere il monito della castrazione simbolica, che ha a che fare con il limite, con il “no”. Cos’è il consenso se non un altro modo per articolare un “no”? Se questa figura viene a mancare nella sua funzione (funzione che può essere incarnata da chiunque, non per forza dal padre biologico), se evapora, tutto è concesso; ma di fronte all’assenza di limiti si eleva l’angoscia. Le famiglie oggi sono nucleari, con un supporto sociale a volte carente e la genitorialità è un ennesimo vuoto da riempire col bisogno formativo, qualcosa da apprendere con un corso. Se la struttura famigliare del secolo scorso permetteva una trasmissione dei saperi e una maggiore disponibilità di figure di accudimento (sempre femminili!), nell’era tardo-capitalista la relazione diventa un servizio acquistabile (per chi se lo può permettere) e delegabile. L’angoscia e la performatività investono anche i genitori che reagiscono alla propria assenza per motivi di lavoro con l’ipercontrollo, a cui i pervasivi dispositivi elettronici non lasciano scampo. Il telefono, fornito ai figli “per stare tranquilli”, diventa, prima di tutto, uno strumento per controllarli. Non è un caso poi che gli adolescenti che controllano il proprio partner siano a loro volta controllati dai genitori, diventa una modalità relazionale accettata e una forma di violenza. Il vuoto della genitorialità, del legame famigliare e sociale è delegato alla rete dei social, che vivono nel discorso del padrone. Il nuovo modello è questo: un patriarcato diffuso e senza padrone.
A proposito di formazione. Ad oggi si fa formazione per tutto, si pensi ad esempio all’ambito lavorativo. Con i ragazzi si fa altrettanto. Fanno qualsiasi tipo di formazione nelle scuole. Spesso li troviamo già preparati su quali siano le tipologie della violenza, ad esempio. Fanno formazioni sul riciclo, anti-incendio, sulle sostanze, sulla violenza di genere, sul bullismo… rispetto alle generazioni che li hanno preceduti sanno tantissime cose, spesso però non sanno cercarle. Sono calati in un tempo scolastico in cui gli adulti li costringono ad ascoltare e in cui raramente hanno la possibilità di esprimersi; non diamo abbastanza spazio alla parola e all’ascolto. Sono immersi in un flusso continuo di informazioni che noi adulti formiamo loro. Ho lasciato il lapsus “formiamo” anziché “forniamo”, intendendo che impacchettiamo il mondo per come lo vorremmo idealmente e diciamo loro come comportarsi ma non stiamo permettendo loro di conquistarsi quello che viene calato ex cathedra. Formazione e informazione sono spesso confuse. Non c’è educazione nell’informare. L’educazione ha a che fare con il riconquistare ciò che si è ereditato, come ben sapeva Freud che in Totem e Tabù cita il Faust di Goethe: “ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”. Essendo l’educare, assieme all’essere genitori, un compito in realtà impossibile occorre lasciare in eredità un modello che andrà poi ripreso, fatto proprio, migliorato da chi lo erediterà. Ai ragazzi vogliamo dare manuali d’istruzioni quando invece hanno bisogno di manuali distruzioni. Perché il discorso va messo in discussione, decostruito (de-istruito, giocando con l’etimologia), come i nostri padri e le nostre madri avevano fatto con i propri genitori, serve contestazione. Nelle classi invece o ti ascoltano come bravi soldatini addestrati o si rifugiano nella resistenza del sonno, della distrazione. Sono pochi che hanno il coraggio di dire “non è come dici, ti spiego il perché”. Ma è in questi rari momenti, nel confronto e nell’ascolto che si scorge qualcosa di educativo, in entrambe le direzioni.
Il patriarcato del padre padrone sta sicuramente scricchiolando, va colmato il vuoto della funzione genitoriale, cambiata la prospettiva dell’uomo eroe greco e della donna vaso. Va data parola, perché è nel vuoto della parola che emerge la violenza.
[1]Statistiche europee del 2023. https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Gender_pay_gap_statistics
[2]Fonte Global Thinking Foundation, 2023.
[3]Fonte Istat, 2022, http://dati.istat.it/index.aspx?queryid=27971#
[4]Le manager donna sono il 36% del totale (Fonte report “Donne e lavoro in Italia”, Rome Business School, https://romebusinessschool.com/it/blog/donne-e-lavoro-in-italia/)
[5]Il 16,8 dei laureati in materie STEM è donna (Fonte Istat, 2024, https://www.ilsole24ore.com/art/in-italia-ragazze-laureate-materie-stem-sono-solo-168percento-AGIIKooC)
[6]Il 78,8% dei morti per suicidio sono uomini. Fonte Istat 2016, http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_SUICIDI