di Thea Rimini

 

 

[E’ uscito in questi giorni per Treccani Personaggi resistenti. L’immaginario letterario e cinematografico della lotta antifascista di Thea Rimini. Proponiamo qui l’introduzione dell’autrice]

 

 

 

Gruppo di famiglia in un esterno

 

Una popolana energica e resistente nella Roma occupata, un bambino entrato per gioco in una brigata partigiana, un partigiano ventenne «brutto» ma con degli occhi «più che notevoli»[1], una ragazza ebrea impegnata in un doppio di tennis nel giardino della sua villa, una sedicenne costretta a fare i conti con il disagio postbellico degli ex combattenti: sono Pina di Roma città aperta (1945), Pin del Sentiero dei nidi di ragno (1947), Milton di Una questione privata (1963), Micòl del Giardino dei Finzi-Contini (1962) e Mara della Ragazza di Bube (1960). Li vediamo avvicinarsi gli uni agli altri per scattare una foto collettiva, formano un gruppo di famiglia in un “esterno”, in cui l’esterno è la Storia, quella della guerra e del dopoguerra. Se le foto ingialliscono con il tempo, il loro ritratto non sbiadisce, e negli anni acquista persino nuova lucentezza.

Alla vigilia dell’ottantesimo anniversario della Resistenza, sono infatti queste potenti invenzioni narrative o cinematografiche che continuano a condensare nel nostro immaginario l’idea di lotta antifascista nei suoi risvolti di mito e antimito, di rivolta collettiva e privata, del suo proiettarsi verso il futuro o del suo ripiegarsi sul passato. Sono finzioni che, per così dire, hanno prodotto un effetto di realtà.

 

Se il mito, scrive Ortoleva, «è un racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo»[2], in cui è quel «fa» a rivestire un ruolo cruciale, l’azione che ha svolto in noi che ce ne siamo appropriati, il mito della Resistenza non si sottrae alla regola. Nelle nostre menti si è impresso più il gesto di un personaggio (la corsa disperata di Pina per raggiungere il suo Francesco portato via su un camion dai nazisti, o quella di Milton sotto la pioggia per sfuggire alle raffiche di mitra) che una serie di date significative.

Fondato principalmente su tre componenti – guerra civile, patriottica, di classe[3] – il mito della Resistenza è stato un mito “inquieto”, per riprendere il titolo del bel documentario 25 aprile: la memoria inquieta (1995), nato dalla collaborazione tra lo storico Giovanni De Luna e il regista Guido Chiesa. Si è passati dalla tensione unitaria dell’immediato dopoguerra, volta a costruire una nuova nazione (la Resistenza come secondo Risorgimento), all’appropriazione comunista dell’eredità resistenziale negli anni Cinquanta; dall’«imbalsamazione» degli anni Sessanta, in cui la Resistenza diventa «tricolore»[4], al carattere rivoluzionario evidenziato dal movimento studentesco, fino al pericoloso e fuorviante avvicinamento della lotta armata antifascista a quella terroristica degli anni Settanta e Ottanta.

 

Gli anni Novanta e i primi anni Duemila sono caratterizzati da un preoccupante revisionismo, se pensiamo all’intervento di Luciano Violante sui «ragazzi di Salò» il giorno del suo insediamento alla presidenza della Camera (1996), o al successo del “ciclo dei vinti” di Giampaolo Pansa sulle violenze compiute dai partigiani durante e dopo la guerra. E oggi? Cosa significa, nel 2025, tornare a raccontare quei personaggi resistenti?

Armate e/o disarmate, le figure che modellano il mito inquieto della Resistenza si confrontano con lo stato d’eccezione della guerra e devono fare i conti con le nozioni di scelta, responsabilità, coscienza. Vivono l’impegno nella lotta con diverse sfumature: in Roma città aperta e nel Sentiero dei nidi di ragno prevale un’adesione fisiologica e non ideologica, si combatte per rispondere a un bisogno primario, si “sente” di stare dalla parte giusta: per Pina e per la brigata partigiana di Pin contrastare il nazifascismo è una questione di pelle, non di dottrina. Per il Milton di Una questione privata, partigiano badogliano nelle Langhe, il senso della lotta risiede invece nello sforzo titanico della volontà, nell’assumersi la propria responsabilità fino in fondo, nel mettersi alla ricerca di una verità privata (l’amata Fulvia l’ha veramente tradito con l’amico Giorgio?) «non già sullo sfondo della guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guerra»[5].

 

Il giardino dei Finzi-Contini racconta una Resistenza prima dello spartiacque dell’8 settembre, quella della famiglia ebrea Finzi-Contini, che all’adesione al fascismo della maggioranza degli ebrei ferraresi oppone un risoluto isolamento, e che poi, con la promulgazione delle leggi razziali, utilizzerà l’ironia beffarda come arma contro l’oppressore. Per la loro figlia, Micòl, la lotta non è incanalata ideologicamente, è la resistenza istintiva dei giovani contro il clima asfissiante e liberticida della dittatura, è una resistenza non frontale, bensì obliqua, ma non per questo meno autentica. Con La ragazza di Bube lo scenario cambia, perché la vicenda si svolge nel dopoguerra, ma il romanzo può ugualmente essere inscritto nella letteratura resistenziale: la protagonista, Mara, oppone una forza morale al clima di disinganno dell’Italia postbellica che ha tradito chi, come il fidanzato Bube, ha fatto la lotta armata. La scelta di Mara di rimanere accanto a Bube nonostante la condanna a quattordici anni di reclusione è dettata non dal sentimento, bensì dall’«adempimento del suo dovere»[6], un dovere morale che assume i contorni di una forza improvvisa che la ragazza avverte dentro di sé, una verità superiore che in tribunale nessuno è disposto ad ascoltare.

 

Nella costellazione semantica tracciata dai nostri personaggi resistenti c’è una policromia sociale – le classi popolari di Roma città aperta, del Sentiero dei nidi di ragno e della Ragazza di Bube, quelle borghesi e altoborghesi di Una questione privata e del Giardino dei Finzi-Contini – e generazionale: adulti, ragazzi, donne e bambini, tutti alle prese con una Storia più grande di loro. Anche lo scenario geografico è vario: la città (la Roma di Rossellini), le montagne (il paesaggio montuoso di Calvino e le Langhe di Fenoglio), la provincia (la Ferrara di Bassani), il paese (la Toscana rurale di Cassola). Il risultato è quello di una dinamica cartina di Italie resistenti.

Cronologicamente, questi personaggi appartengono alle due macrofasi individuate da Tortora nella narrativa «legata a moduli realistici»[7] del secondo Novecento: la prima va dal 1945 al 1955 e accoglie la letteratura e, aggiungiamo noi, il cinema di argomento resistenziale (Rossellini e Calvino); la seconda, dal 1955 al 1963, è caratterizzata dal «realismo sociale-speculativo»[8], che riflette la disillusione per l’Italia postbellica e democristiana degli scrittori che hanno fatto la Resistenza (Bassani, Cassola). Per via del suo isolamento, Fenoglio invece «segue una periodizzazione tutta sua»[9]: avviato agli inizi degli anni Sessanta, Una questione privata è pubblicato postumo nel 1963.

 

All’interno di queste due fasi, però, l’analisi dei personaggi resistenti seguirà l’ordine cronologico dell’epoca in cui si svolge la vicenda e non la data di pubblicazione del romanzo, con l’eccezione della lotta di Micòl, che sarà affrontata dopo la guerra partigiana di Calvino e Fenoglio.

A ben guardare, davanti all’obiettivo i personaggi del nostro gruppo di famiglia si dispongono a coppie o in trio. Il duo è composto da Pina e Pin, il trio da Milton, Micòl e Mara; per tutti, la consonanza fonetica acquista una dimensione semantica. Per Pina e Pin la lotta assume una dimensione collettiva, è una molla che li proietta in avanti nella speranza di costruire la nuova Italia postbellica; per Milton, Micòl e Mara la resistenza si gioca invece sul piano dell’interiorità, è qualcosa di privato, soggettivo, etico, disancorato dall’immagine di lotta antifascista come epopea collettiva: anziché tendere al futuro, questi personaggi si ripiegano sul passato.

 

Differente è quindi la relazione che intrattengono con la comunità in cui vivono: Pina agisce “con” e “per” gli abitanti del suo rione, Pin cerca di integrarsi nella scalcagnata banda del Dritto e alla fine troverà un amico nel partigiano Cugino, mentre per Milton, Micòl e Mara l’orizzonte è quello di una penosa solitudine. La ricerca affannosa della verità porta infatti Milton a isolarsi dai compagni di battaglia, e il partigiano “crollerà” nel finale aperto di Una questione privata. Il suo corpo cade come quello di Pina colpita dalle mitragliate mentre cerca di raggiungere il suo Francesco portato via dai nazisti, ma stavolta, al contrario del film di Rossellini, non c’è nessun prete o nessun figlio pronti a soccorrerlo, e non c’è nemmeno una mano «soffice e calda, come pane»[10] simile a quella di Cugino del Sentiero a cui potersi aggrappare: Milton crolla da solo. Anche Micòl, col precipitare degli eventi, vivrà sempre più reclusa nel suo giardino fino al giorno in cui sarà arrestata e deportata in un lager. E Mara, infine, dovrà aspettare quattordici anni per poter ricominciare una nuova vita con Bube.

Si può allora parlare di una prima fase di personaggi resistenti (Pina e Pin) e di una seconda fase (Milton, Micòl, Mara), di un climax e di un anticlimax del mito della Resistenza. Se in Rossellini e Calvino la forte tensione ideologica, sociale e politica bilanciava le ferite della Storia, in Fenoglio, Bassani e Cassola quelle ferite rimangono dolorosamente aperte.

 

Il cambiamento intercorso tra le immagini della fine degli anni Quaranta e quelle degli anni Sessanta si riflette in un cambiamento di luoghi. Nelle prime, sono gli spazi aperti a prevalere: la città di Roma con i suoi vari quartieri (si ricordi l’inquadratura finale di Roma città aperta con la banda resistente di bambini in cammino verso San Pietro) e le montagne liguri dove sorgono gli accampamenti partigiani e i ragni fanno i nidi. Sia il gruppo di Rossellini sia Pin, per mano a Cugino nel finale del Sentiero dei nidi di ragno, avanzano alla conquista di un tempo e di uno spazio: il futuro dell’Italia che deve rinascere dalle macerie della guerra. Nelle seconde immagini sono invece le aree chiuse a svolgere un ruolo centrale: la villa fuori Alba della ragazza di cui Milton è innamorato, il giardino della casa di Micòl, il capanno di campagna dove Mara si lega per sempre a Bube. E la topografia assume una valenza metaforica, rappresentando l’incrinarsi delle attese resistenziali.

 

In chiusura di ogni ritratto ci sarà un’apertura su un altro linguaggio: Pina, Pin, Milton, Micòl e Mara sono personaggi resistenti anche perché resistono nel tempo attraverso le riscritture, le letture per immagini (cinematografiche o pittoriche) che ne hanno fatto registi e artisti. Nell’Italia degli anni Duemila, per (ri)costruire una nuova identità nazionale sulla parità di genere e di diritti, Paola Cortellesi, con C’è ancora domani (2023), ha scelto di rifarsi all’immaginario forgiato da Roma città aperta, perché quel film per la prima volta era riuscito a tracciare un ritratto collettivo della nazione con una donna come eroina.

Sempre al capolavoro di Rossellini, qualche anno prima, si era ricollegato pure Gabriele Mainetti con Freaks out (2021). Mettendo in scena una banda di “mostri” nella Roma occupata, Mainetti aveva proposto un nuovo mito per rifondare l’Italia, un mito non più realistico ma costruito su un’ibridazione di linguaggi e adatto all’immaginario multimediale del nuovo millennio.

 

Le avventure di Pin sono state invece rilette da un Ermanno Olmi adolescente con una serie di disegni dal bianco e nero netto e contrastato. Come Calvino, Olmi ha trasformato la storia di guerra in una fiaba crudele e amara, e rinunciando a ogni realismo ha offerto con i suoi schizzi una versione espressionista del romanzo.

Milton e Micòl sono invece stati restii al passaggio sul grande schermo. Nell’adattare Una questione privata (2017) i fratelli Taviani hanno ridimensionato la violenza delle pagine di Fenoglio e hanno recuperato quegli elementi che avevano caratterizzato le prime immagini della Resistenza, ovvero la costruzione corale e la speranza nel futuro, e che invece lo scrittore langarolo aveva rifiutato. L’intento dei Taviani è militante e in linea con il cinema civile di cui i fratelli registi si sono fatti portavoce negli anni: attraverso Fenoglio hanno voluto riproporre un’epica da contrapporre all’asfittico presente, anche a costo di allontanarsi dal testo. Sconfessato dallo stesso Bassani, Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica si può condensare in due parole: semplificare ed esplicitare. Se sullo schermo la bidimensionalità temporale del romanzo (il tempo della scrittura e il tempo del ricordo) viene appiattita al solo passato, i non detti vengono eliminati. De Sica mostra allora il fuori e il dentro, ciò che accade fuori dal giardino e ciò che accade dentro i personaggi, “tradendo” le seducenti ambiguità del libro. Forse, però, è proprio il tipo di Resistenza di Milton e Micòl, quella lotta non allineata ma soggettiva, disancorata nel «fitto» degli eventi, a essere più difficile da riscrivere per immagini.

 

Più riuscito è l’adattamento della Ragazza di Bube che Luigi Comencini realizza nel 1963, in un periodo, quello degli inizi degli anni Sessanta, particolarmente propizio alle riletture della Resistenza. Pur relegando l’aspetto politico del romanzo sullo sfondo, Comencini restituisce il clima dolente e amaro del dopoguerra, e soprattutto, utilizzando il modello del melodramma (e non più del romanzo di formazione come nel libro), rappresenta efficacemente la lotta privata di Mara.

In una modernità che ha perso i punti di riferimento e il senso del sacro, solo il sacrificio di Mara all’ideale, a un sentire “altro”, superiore, limitato alla coscienza individuale, può riattivare sprazzi di autenticità.

Al di là degli esiti diseguali delle riscritture, ciò che qui interessa è che queste riletture hanno reso ancora più “significante” il periodo della Resistenza: sono proprio le interpretazioni di un’epoca storica, i racconti che ne sono stati fatti, a riscattarla dal suo statuto «neutro»[11].

 

Ma torniamo al nostro gruppo di famiglia in un esterno. Ecco che vediamo sopraggiungere altri due personaggi che si uniscono ai primi per un nuovo scatto. Sono un partigiano con un cannocchiale astronomico a tracolla e una donna con la gonna e il fucile: Tristano del romanzo Tristano muore (2004) di Antonio Tabucchi e Rosa del graphic novel La Rosa armata (2022) di Costanza Durante ed Elisa Menini.

La nostra galleria di ritratti si chiude così con due personaggi di combattenti nati negli anni Duemila. Tristano e Rosa non fanno parte del canone consolidato (e scolastico) della letteratura resistenziale, ma gli autori che li hanno concepiti si sono dovuti confrontare con le figure del passato finora descritte, raccogliendo la sfida di reinventare il mito della lotta antifascista senza averlo vissuto. E sono anche rappresentativi di sguardi diversi di generazioni diverse: quello caustico, ma non rassegnato, di uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento, e quello militante di una coppia di giovani autrici nate negli anni Novanta che ha sperimentato il racconto della Resistenza a fumetti.

 

Cominciamo con Tristano muore. Ormai agonizzante, nell’ultimo agosto del Novecento l’ex partigiano Tristano, confinato nel casale toscano di Malafrasca, racconta la sua vita a un silente scrittore, che su Tristano ha già scritto un romanzo.

Nei suoi racconti sconnessi, Tristano insinua il dubbio sulla prode azione che ha compiuto durante la guerra, quando aveva sterminato un manipolo di nazifascisti: si è trattato davvero di un atto eroico? O non è stato piuttosto il frutto di un vile tradimento? E ancora Tristano si interroga: si può essere testimoni senza aver vissuto quello che si racconta? Si può raccontare la Resistenza come ha fatto lo scrittore accorso al suo capezzale nella biografia romanzata di Tristano (e come fa lo stesso Tabucchi), anche se non si è mai stati a combattere in montagna? Si può insomma essere non testimoni oculari bensì testimoni «di un clima, di una scelta, di una posizione etica»[12]? Con Tristano muore Tabucchi riflette sulla possibilità di raccontare la Resistenza in un momento di pericoloso revisionismo come quello della fine del Novecento, sulla validità di una testimonianza etica e non solo diretta, scatenando una feroce polemica sulla stampa del tempo.

 

Dal dopoguerra agli inizi del XXI secolo, Tristano ha registrato un susseguirsi di tradimenti perpetuati a danno degli ideali per cui ha combattuto in montagna: la resa nichilista alle violenze della Storia sembrerebbe allora l’unico atteggiamento possibile, ma Tristano ripensa alle parole della donna amata per tutta la vita, al fatto che «bisogna lottare contro il rachitismo di certe giornate, quando la sorgente sembra asciutta, perché all’improvviso la fonte ricomincia a buttare»[13]. E alla crisi di fine secolo oppone uno sforzo titanico (leopardiano, diremmo) di una lotta sempre e comunque. Non è vero che resistere non serve a niente, perché la libertà «sepolta nella sabbia fino al collo» può riemergere da un momento all’altro. E il casale di Malafrasca diventa allora un nuovo luogo di resistenza.

Al centro del graphic novel di Costanza Durante ed Elisa Menini ci sono invece le partigiane delle Langhe, protagoniste di episodi di resistenza armata e di resistenza civile, in cui la sorellanza s’impone sempre sull’ideologia. Molte storie di donne narrate nella Rosa armata si ricollegano ai diversi modi di lotta raccontati da Benedetta Tobagi nella Resistenza delle donne[14].

 

Alla lotta armata della «brigata delle streghe»[15] (questo il nome del gruppo partigiano del fumetto) si affianca la resistenza silenziosa di chi lotta per portare a termine una gravidanza in un mondo in cui tutto è orrore e devastazione. Si può poi essere donne in armi tanto con i pantaloni, come avviene per le combattenti della brigata, quanto con la gonna, come Rosa che imbraccia il fucile su abiti femminili. E si può fare della Resistenza civile anche se non si è più giovani, come la vecchia contadina che accoglie e sfama le combattenti, inserendosi inconsapevolmente nella «più grande azione di salvataggio collettivo della storia d’Italia» compiuta dalle donne in tempo di guerra e invece «rimossa dalla narrazione del passato nazionale» perché difficilmente inquadrabile «nella retorica bellicistica ed eroica che sopravvive al fascismo»[16].

Con La Rosa armata viene recuperata la spinta propulsiva delle prime immagini della Resistenza, quel loro proiettarsi in avanti, anche se la tensione verso il futuro è rivisitata in chiave solo femminile. A una delle resistenti nascerà infatti una bambina, segno di un nuovo e promettente inizio. Nel risvolto di copertina del fumetto sono citati il Milton di Fenoglio e la Mara di Cassola:

 

 

Costanza Durante ed Elisa Menini raccontano la Resistenza dal punto di vista delle donne che l’hanno combattuta, con un’intimità e una voglia di riscatto che ricordano più la Shoshanna di Tarantino e il Milton di Fenoglio che la paziente ragazza del partigiano Bube[17].

 

 

L’intento è piuttosto evidente: si vuole tracciare una genealogia ideale di personaggi resistenti attraverso epoche e linguaggi diversi.

In occasione del 25 aprile 2024, Giovanni De Luna, interrogato da Paolo Di Paolo su come si possa celebrare il giorno della Liberazione «in un paesaggio sempre più spopolato di testimoni»[18], aveva risposto:

 

 

La fine dell’era del testimone non deve spaventarci. Bisogna continuare sì a studiare, ad approfondire, ma soprattutto a raccontare. Non bastano gli archivi: occorre farsi mediatori nel senso letterale del termine, consentire al passato di transitare nel presente, coinvolgendo anche una dimensione emotiva. Dirò così: facendo battere il cuore delle persone[19].

 

 

La fiducia nel racconto, in una narrazione al di fuori della testimonianza, sarà allora l’arma migliore per continuare a fare memoria. D’altronde il discorso pubblico, come osservano Focardi e Peli, cercando di modellare una Resistenza «inclusiva» l’ha «narrata solamente nella sua veste più semplificata», non considerando «la complessità, le molteplici e contraddittorie esperienze individuali e collettive»[20]. Sono stati invece il cinema, la letteratura e il fumetto a essere finora riusciti a darci un’immagine plurale, complessa e contraddittoria della lotta antifascista attraverso personaggi plurali, complessi e contraddittori, come quelli raccontati in questo volume. E come quelli, ci auguriamo, che si continueranno a raccontare.

 

 

 

[Immagine: Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani]

 

 

 

[1] B. Fenoglio, Una questione privata (1963), Einaudi, Torino 2007, p. 4.

[2] P. Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media e vita quotidiana, Einaudi, Torino 2019, p. XI.

[3] C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

[4] Riprendo questa sintesi delle diverse declinazioni della Resistenza dall’imprescindibile P. Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi, Viella, Roma 2015 (ed. orig. The Legacy of the Italian Resistance, 2011).

[5] Sono le parole di Fenoglio quando presenta all’editore Garzanti il libro a cui sta lavorando. La lettera è riportata in D. Isella, Schede critiche, in B. Fenoglio, Romanzi e racconti, nuova edizione accresciuta a cura di D. Isella, Einaudi, Torino 2001, p. 1793, corsivi nel testo.

[6] C. Cassola, La ragazza di Bube, Einaudi, Torino 1960, p. 200.

[7] M. Tortora, Il secondo Novecento in quattro mosse: affidandosi a Calvino, “L’ospite ingrato”, 9, 2021, p. 299. Sulla scorta di Tortora, preferisco utilizzare la definizione di «letteratura della Resistenza» anziché di «neorealismo» perché, su proposta di Gian Carlo Ferretti (Introduzione al neorealismo. I narratori, Editori Riuniti, Roma 1974), questa etichetta includerebbe un periodo letterario più vasto, che da Gli indifferenti (1929) arriverebbe fino a La giornata di uno scrutatore (1963). In ambito cinematografico, invece, nel capitolo dedicato a Roma città aperta considererò la cronologia “stretta” adottata da Stefania Parigi, che identifica l’esaurirsi del movimento nel 1953, anno di Pane, amore e fantasia (cfr. S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia 2014). Per un approfondimento di queste periodizzazioni, cfr. il recente volume di M. Tortora, Tra neorealismo e persistenze moderniste: il romanzo italiano degli anni Cinquanta, Ledizioni, Milano 2024.

[8] Tortora riprende la definizione di «realismo speculativo» da C. Milanini, La trilogia del realismo speculativo, “Belfagor”, 44, 3, 31 maggio 1989, pp. 241-262. Per una ricognizione della narrativa neorealista e delle novità tematiche e narrative, cfr. il sempre attuale B. Falcetto, Storia della narrativa neorealista, Mursia, Milano 1992.

[9] Tortora, Il secondo Novecento, cit.

[10] I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. I, Mondadori, Milano 2003, p. 144.

[11] Riprendo qui le riflessioni di Ludivine Bantigny a proposito del concetto di «historicité». Cfr. L. Bantigny, Historicités du 20e siècle. Quelques jalons sur une notion, “Vingtième Siècle. Revue d’histoire”, 117, 1, 2013, https://tinyurl.com/bdd77vtm.

[12] A. Tabucchi, Tristano muore, Feltrinelli, Milano 2004, ora in Id., Opere, a cura di P. Mauri e T. Rimini, vol. II, Mondadori, Milano 2018, p. 198.

[13] Ivi, p. 219.

[14] B. Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, Torino 2022.

[15] C. Durante, E. Menini, La Rosa armata, minimum fax, Roma 2022, p. 77.

[16] Tobagi, La Resistenza delle donne, cit., p. 10.

[17] Durante, Menini, La Rosa armata, cit., risvolto di copertina.

[18] P. Di Paolo, L’antifascismo è la nostra identità. Con questa destra il 25 aprile deve essere di opposizione, “L’Espresso”, 24 aprile 2024, https://tinyurl.com/3kv398y7.

[19] Ibidem.

[20] F. Focardi, S. Peli, Tra esaltazioni e censure: il discorso pubblico sulla resistenza italiana a settant’anni dalla liberazione, “Segle xx. Revista catalana d’història”, 9, 2016, p. 142, https://tinyurl.com/44z3fw94. Di Peli, cfr. anche Storia della Resistenza in Italia, Einaudi, Torino 2017.

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