a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia
Per il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia, oggi risponde Stefano Bottero.
Come sotto etere. Riflessioni sull’autentico
Parlare di autenticità significa parlare di desiderio. Più precisamente: considerare quanto sia, in noi, eteroindodotto. La stessa etimologia della parola solleva la questione – in latino: de–sidera. L’alterità è implicita al desiderio, lo rende una forma di conoscenza che, quando scopre il proprio oggetto, lo distrugge. Il disfarsi è radicato nel nostro atto desiderante proprio perché questo è il risultato di una pressione che viene dall’astro: da un assoluto che si incarna in un corpo, oggetto. È davvero possibile conoscere le relazioni, i contesti, i processi circostanti attraverso il desiderio, a patto di accettare la loro devastazione. Ancora secondo etimologia: in francese l’orgasmo, la climax del corpo quando raggiunge il suo oggetto e il nero occupa lo sguardo (con Edvard Munch) – è essa stessa una (petite) mort. L’intersezione tra questo concetto e quello di autenticità è basata su una biforcazione: in quanto strumento del conoscere, il desiderio scopre l’altro e sé stesso, annientandoli entrambi. Allo stesso modo di come l’estasi dell’orgasmo porta alla scomparsa dell’altro e del proprio corpo, nel nero. Penso a Nicola Samorì quando risponde, intervistato, che «il buio è la condizione ultima delle cose, mentre la luce è solo un episodio temporaneo». E questa illuminazione temporanea accade sempre di riflesso – viene dall’altro, vuoto, e conduce al vuoto.
Nel terzo tempo di East Coker i versi di Eliot attraversano questo aspetto: «Or when, under ether, the mind is conscious but conscious of nothing –». Come sotto etere, il corpo è cosciente, ma cosciente di nulla. La categoria dell’autentico agisce così nella radicazione: specifica che quel nulla non è un nulla ma un dato nulla; lo spostamento da dove siamo a dove non siamo. In poesia accade lo stesso. Con Blanchot: nello spazio letterario le cose viste, poi dette, si mostrano nella loro propria misura solo all’atto del disfarsi. Allora, quando si allontanano nel nero, il loro vuoto apre una crepa nel corpo. È quella che ci appartiene autentica: non il desiderio. Dietro ad essa, nel corpo, si apre un altro vuoto che contiene il corpo, un altro nome, un altro oggetto.
Una rappresentazione compiuta di questo processo prende corpo in un’opera di Pier Paolo Calzolari – Senza titolo (Nero e Nero), del 1986. Il bianco di una barra verticale, ghiacciata da un meccanismo alla sua base (in funzionamento costante), alla base di cui a sua volta una lastra orizzontale accumula ruggine, perimetra il lato di un riquadro nero. L’artista mostra come la linea in cui coagulano le sensazioni del corpo (nello specifico dell’opera: il freddo) costituisca il canale che conduce alla forma. A percorrerlo, spinge una pulsione del corpo (nello specifico dell’opera: da un motore) che rende sé stesso desiderante. Alle spalle di questa pulsione: un fondo esteso in uno spazio diverso, nemmeno verticale, a sua volta privo di significato. Tutto questo sfocia nel nero – cosciente, ma cosciente di nulla.
L’autenticità è quindi un momento di contrazione. Il modo particolare in cui il corpo si piega sull’oggetto coincide con la prospettiva che assume verso di esso, fondando l’atto di scrittura. L’autenticità non sta quindi alla radice del desiderio inteso come individuazione dell’oggetto, ma nel modo formale in cui ci contraiamo addosso all’oggetto. È possibile, allora, raggiungere l’autentico della voce e dello stile solo accettando il nulla di sé e dell’altro. E questo perché entrambi accadono in una dialettica vuota di senso – che torna, dopo il momento formale della contrazione (dell’estasi), al vuoto di senso.
La prima stazione di questo processo è riconoscere il corpo come sagoma che si disfa. Questo presupposto consente alla voce di tradursi in discorso estetico – con Kafka: quello della parola è il punto in cui non è possibile retrocedere. Solo in quel momento stretto è chiara la codipendenza tra la pressione che ci viene dall’altro e la specificità della nostra contrazione – la particolarità del modo in cui mettiamo le mani, la gola, eccetera, addosso all’oggetto. Solo in quel momento l’atto di scrittura si determina come formale: autentico, perché privato – nel senso della privazione, dal momento che non appartiene a chi scrive ma viene dall’altro, vuoto di senso.
Penso a Balzac, quando immagina una dotazione simbolica tradotta nella fisiognomica dei personaggi, fino a modificarne l’aspetto. Come se la pelle fosse la camera d’eco del vuoto interiore. Non è molto diverso da quello che sottolinea, tra gli altri, Francesco Remotti, riflettendo sulla diversificazione degli apparati fonatori di corpi appartenenti allo stesso ceppo etnico, quando interagiscono con strutture culturali di aree geografiche diverse. La gola stessa del parlante cambia sulla base di una relazione con il contesto – e così il contesto, l’altro, diventa corpo, e nel corpo parola. Questo per dire che le ragioni intrusive determinano effettivamente un’autenticità della parola e dello stile, ma solo se si accetta la loro impermanenza. Il ‘lessico familiare’ può fondare un processo associativo, una prospettiva creativa singolare, nel senso in cui solo i traumi possono: come motivo che spinge, non come stile esso stesso.
Anche la parola più grave, quando pretendiamo che sia significata nel testo dalla nostra esperienza singolare, diventa banale. La lingua che ci si pianta dentro dall’esterno non è quindi il nostro arrivo stilistico. Adottare un’espressione familiare perché garantisca un’autenticità del dire, in poesia, significa deindividuarne la ferita. È necessario tradurla in oggetto formale, contraendosi su di essa – con il corpo. Tutto questo è l’opposto di un’idea della scrittura come confessione. Nella sua accezione peggiore, la scrittura confessionale fa infatti dell’autenticità un valore raggiunto attraverso il tema. La vulgata occidentale è ancora quella di una poesia come ‘espressione immediata di un sentimento sincero’ – come se l’autentico e l’esperienziale fossero la stessa cosa. E non lo sono. Parlare del sé o delle circostanze del sé, quando non è parte di una riflessione formale, sull’oggetto verbale, non è un atto ‘autentico’, ma egotico. E questo perché la singolarizzazione della prospettiva che sta alla radice del momento lirico (o meglio: l’assunzione di una prospettiva) non ha strettamente a che vedere con la specificità del vissuto. Il residuo esperienziale, che il processo del ricordo rielabora, è intraducibile. È possibile renderlo testo solo accettandone l’alterità: l’inappartenenza. La ricerca spasmodica, in poesia, di aderenza ai dettagli e alle sensazioni (come se poi queste fossero autenticamente realtà), non fa che tradire l’esperienza stessa. Pensare di attribuire alla vita vissuta un carattere di resistenza scrivendola è pura vanità. La nostra singolarità si illumina (penso ancora al de-siderio stellare) solo quando se ne accetta il disfarsi, l’inutile.
Non intendo qui che la vita sia trascurabile nell’atto scrittorio, né che la risposta al dilemma stia nella pura astrazione intellettuale, devitalizzata. Blanchot ci viene ancora incontro, in questo, quando scrive che la letteratura si apre su quello che è stato «chiuso meglio»: nello spazio formale, con il farsi materia estetica della nostra ferita, la letteratura – la poesia – apre una crepa. Ed è una crepa del corpo: non della narrazione del corpo. I punti in cui il senso si fa più stringente, dotati di più rigido significato, sono portati dal verso in uno spazio dove «a ben vedere, niente ha ancora senso». Per questo motivo è necessario non confondere la significazione del vissuto con il momento creativo, né attribuire a tale significazione il valore di ‘autentico’. La poesia, in altre parole, è più vicina allo sfregio sulla superficie del corpo che al significato che tentiamo di dargli. Scrive Valéry: «Ce qu’il y a de plus profond dans l’homme, c’est la peau».
L’interazione con gli altri, la pluralità del contesto e della referenza, rendono tutto questo possibile. Nella singolarità assoluta, quando il verbo è reciso dal discorso con l’altro e si abbraccia la propria solitudine, è la ferita a fiorire – non la parola. Quest’ultima richiede invece una mediazione. Presupporre la relazione non mina l’autenticità dell’atto verbale: al contrario, lo incanala. La persona
che compie una scelta di silenzio si pone in atteggiamento di cura nei confronti del proprio nulla di senso, lo significa sulla base della sua stessa caducità. Viceversa, prendendo parola si crea non solo l’opera, ma l’altro, implicato in essa. Con Paul Klee, questa dinamica è basata inevitabilmente sul fallimento del tentativo: l’altro resta, sempre, irraggiunto. Per questo motivo la parola può darsi infinite volte, strapparsi e ricadere nel buio di senso in declinazioni formali per sempre divergenti e identiche nel non senso. L’atto verbale autentico è l’impotente: con le parole di Federico Ferrari, in ripresa di Brodskij: «non si dà alcuna profonda scissione tra l’occhio e la mano». La parola poetica acquista significato solo a condizione che io ne sia privo.
Tutto questo incalzare di citazioni per dire che si dà poesia solo quando il poeta si disfa della sua singolarità? E come fa? Come può disfarsene, il poeta come qualsiasi altra tipologia di essere umano? Con lo sfregio della pelle condiviso a parole? “La parola poetica acquista significato solo a condizione che io ne sia privo”. Cioè se la mia singolarità è senza significato solo allora posso scrivere poesia? Parole insipide, vuote. Anzi no, vacue.