di Guido Mazzoni
[È uscito in questi giorni, per Laterza, Senza riparo. Sei tentativi di leggere il presente, di Guido Mazzoni.
«La guerra fredda non è finita, continuano anche alcuni spargimenti di sangue locali, ma la gente è al riparo e li guarda come grandinate estive in un giorno di sole», scriveva Italo Calvino nel 1961 parlando della percezione della storia che si aveva in quegli anni. Dopo la fine della Guerra fredda, negli anni Novanta (ma anche in seguito, nonostante l’11 settembre 2001), la sensazione di essere al riparo ha dominato il senso comune delle maggioranze. Invece negli ultimi quindici anni questa impressione si è dissolta e ha lasciato spazio a un’impressione opposta, quella di trovarsi in mezzo a una crisi complessa di cui i populismi e le guerre culturali sono gli aspetti più vistosi. Senza riparo cerca di interpretarla ragionando su alcuni eventi decisivi e su alcune figure simboliche, a cominciare da Donald Trump. Al tempo stesso riflette su certe premesse di fondo della politica contemporanea, e in particolare sull’idea che le società occidentali non sappiano più immaginare un’alternativa che non sia la degenerazione autoritaria della democrazia liberale o il disordine. Ma prima ancora riflette sulla natura approssimativa e fallibile dei discorsi che riguardano la politica. Presentiamo due paragrafi dell’Introduzione]
La fine dei ripari
La sensazione di essere al riparo è finita per ragioni economiche, demografiche, geopolitiche, ecologiche e tecnologiche. Le espongo in questa successione perché questo è l’ordine di importanza nel quale vengono percepite.
La crisi cominciata nel 2007-2008, la più grave dal 1929, ha mostrato all’Occidente collettivo che il suo posto nel mondo non è garantito per sempre. All’inizio degli anni Novanta i paesi del G7 (le più importanti economie occidentali più il Giappone) continuavano a produrre circa la metà del prodotto interno lordo planetario a parità di potere d’acquisto; oggi ne producono meno di un terzo . È vero che il Pil mondiale complessivo continua a aumentare a velocità sostenuta, ma è altrettanto vero che da alcuni decenni a questa parte sono soprattutto i paesi non occidentali a crescere. Inoltre la distribuzione della ricchezza è diventata più ineguale in Occidente, sia tra le classi sia tra le aree geografiche, seguendo una tendenza opposta a quella prevalente nei tre decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando le differenze erano diminuite. Nel frattempo il sistema di tutele che i lavoratori erano riusciti a conquistare si è progressivamente indebolito. Questo significa che le classi popolari e una parte delle classi medie degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale sono tra gli sconfitti della globalizzazione: una sconfitta lenta ma incontrovertibile, perché la ricchezza relativa diminuisce mentre aumentano le diseguaglianze interne alle nazioni, e perché il neoliberalismo ha reso la vita di molti più precaria di quanto non fosse qualche decennio fa.
Un secondo aspetto è la crisi demografica. La popolazione europea, soprattutto quella caucasica, è destinata a decrescere, sia in termini assoluti sia in termini relativi (l’Italia è tra i paesi che invecchiano e si svuotano più rapidamente), mentre la popolazione nordamericana aumenta di poco, ma soprattutto perché crescono le etnie non caucasiche ; allo stesso tempo masse ingenti di persone che appartengono a culture diverse da quelle degli autoctoni premono ai confini, e questa trasformazione è vissuta con inquietudine dalle maggioranze. Le teorie di estrema destra sulla “grande sostituzione” sono la versione fobica di un fenomeno reale di cui la sinistra tende a sottovalutare l’effetto sul sentimento primitivo di territorialità e sulla paura ancestrale del diverso.
Un terzo aspetto è la crisi dell’ordine mondiale a egemonia americana che era nato dopo il 1989-91. Se il ritiro disonorevole degli Stati Uniti dall’Afghanistan e la guerra in Ucraina avevano aperto una fase nuova, mostrando alle altre potenze che gli americani erano diventati più deboli, i primi giorni della seconda amministrazione Trump sembrano aver stravolto la grammatica delle relazioni geopolitiche che vigeva dopo la fine della Guerra fredda, o addirittura dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Negli ultimi trentacinque anni gli Stati Uniti hanno sempre cercato di esercitare la loro egemonia tenendo conto del diritto internazionale, non perché lo abbiano sempre rispettato (anzi, lo hanno violato molto spesso, con i bombardamenti sulla Serbia o con l’invasione dell’Iraq, nelle prigioni di Abu Ghraib e di Guantánamo), ma perché il loro discorso pubblico non ne ha mai ignorato l’esistenza anche quando la prassi politica andava in direzione contraria. E invece le prime parole e i primi atti della nuova amministrazione si muovono al di fuori di ogni quadro giuridico, come quando Trump considera possibile un’invasione militare del Canale di Panama o della Groenlandia, o come quando si rifiuta di condannare pubblicamente l’invasione russa dell’Ucraina, e sembrano avallare il ritorno a una pura politica di potenza così come veniva praticata prima che il diritto internazionale cercasse di irreggimentare le relazioni tra Stati in un sistema di regole che, per quanto fragile, contraddittorio e ipocrita, agiva pur sempre da freno al diritto del più forte. Ma i primi atti di Trump paiono ancora più estremistici di così, perché sembrano addirittura sovvertire gli accordi scritti e non scritti che, dopo la Seconda guerra mondiale, avevano permesso la nascita dell’Occidente collettivo. Minacciare l’uscita degli Stati Uniti dalla Nato, o anche soltanto chiedere ai paesi europei di aumentare le spese militari per contribuire maggiormente al bilancio dell’alleanza, significa infatti contravvenire al patto implicito che aveva preso forma con il piano Marshall e la nascita della Nato stessa, e in virtù del quale l’America dava protezione a paesi che di fatto rinunciavano a una parte considerevole della propria sovranità. Questo do ut des, cercato e insieme subìto, garantiva la sicurezza degli Stati protetti e li faceva vivere sotto tutela. Oggi le nazioni europee hanno eserciti sottodimensionati rispetto alla ricchezza di cui dispongono: solo la Francia e la Gran Bretagna posseggono l’arma atomica; Germania, Italia, Paesi Bassi e Belgio non possono averla in base agli accordi internazionali che hanno sottoscritto, e tuttavia ospitano truppe e armi nucleari americane come gli Stati satellite che di fatto sono. La guerra in Ucraina e le prime settimane della nuova presidenza Trump hanno mostrato agli europei che il riparo geopolitico nel quale hanno vissuto potrebbe crollare e hanno ricordato loro, dopo quasi ottant’anni di vita in tempo di pace, che la guerra è una possibilità della politica, una forma di risoluzione delle controversie internazionali cui occorre essere preparati. Il risveglio da questa lunga stagione di minorità rischia di essere traumatico per un’opinione pubblica che si è disabituata a pensare i rapporti tra Stati in modo adulto e per un’istituzione come l’Unione Europea, che non è mai diventata un soggetto politico vero.
Un quarto aspetto è la crisi ecologica, che tutti sappiamo essere reale e imminente. Ma se vogliamo dire la verità, dobbiamo riconoscere che di questa crisi, per adesso, non importa nulla a nessuno: la priorità del dibattito pubblico non è mai l’ecologia, e ciò è vero in ogni paese, anche in quelli dell’Europa settentrionale Dovrà passare almeno una generazione perché la crisi ambientale possa decidere i risultati del voto, e non è affatto scontato che quel momento arrivi – soprattutto nelle democrazie, che vivono nel presente eterno del consenso e faticano a pensare al futuro.
Infine c’è una quinta crisi legata al controllo della tecnologia, la più pericolosa e la meno percepita. Da almeno settant’anni la specie umana ha il potere di distruggere se stessa per una decisione politica o per un errore tecnico. Quando si pensa all’apocalisse nucleare si pensa quasi sempre alla prima ipotesi e si tende invece a sottovalutare quanto sia complesso il meccanismo della deterrenza atomica. La crisi di Cuba dell’ottobre 1962 è entrata nella memoria collettiva, mentre non molti sanno che il 26 settembre 1983 l’errore di un computer ha rischiato di scatenare la rappresaglia sovietica per un attacco americano inesistente . Situazioni simili si sono verificate più volte, prima e dopo la Guerra fredda , e in futuro è possibile che l’intelligenza artificiale sviluppi un potenziale distruttivo simile a quello dell’energia atomica. Controllare gli effetti di tecnologie così pericolose non è semplice. La coscienza collettiva si difende come ha sempre fatto, cioè rimuovendo, e tuttavia “la fine del mondo è entrata a pieno titolo nel novero delle possibilità reali, capaci di influenzare le dinamiche sociali già solo in quanto possibilità” , e non è certo un caso che le arti degli ultimi decenni, agendo come la sede di un ritorno del represso, abbiano trasformato il racconto apocalittico in un genere tra i più praticati.
La nuova scena politica
La seconda novità ha a che fare con la politica interna. Se per quasi due decenni dopo la fine della Guerra fredda il disimpegno è stata la Stimmung dominante delle società occidentali, oggi il quadro di insieme sembra molto diverso. La tensione politica fortissima che lacera gli Stati Uniti, per esempio, era del tutto imprevedibile trentaquattro anni fa, nella quiete degli anni Novanta, quando l’America imponeva la propria egemonia; anzi, questo conflitto è oggi così intenso che ci si può chiedere se sia ancora legittimo parlare di Western way of life al singolare o se i conflitti interni non stiano diventando una nuova guerra civile paragonabile, per posta in gioco e intensità, alle battaglie politiche del XX secolo.
Un aspetto superficiale ma eloquente della trasformazione che la sfera pubblica ha subito è il comportamento delle masse. A lungo la classe egemone in Occidente era la versione aggiornata della gente di Calvino, della maggioranza silenziosa di Nixon e della nuova borghesia di Pasolini: disimpegnata, post-politica, individualista, familista, consumatrice, turistica, disinibita, post-borghese, superficialmente policroma se vista da vicino, intimamente coesa se vista da lontano e tendenzialmente centrista . Oggi le maggioranze non sono più silenziose né centriste; si comportano invece come delle “classi parlanti” e polarizzate che partecipano ogni giorno a una sorta di perenne assemblea on line divisa in bolle, prendendo la parola (o commentando la parola altrui, anche solo con un like) dentro uno spazio politico che i social network hanno completamente rimodellato. È sintomatico che la forma di aggregazione primigenia del più originale tra i nuovi partiti italiani, il Movimento 5 Stelle, fosse proprio l’assemblea on line. I due più importanti conflitti degli anni Dieci, quelli generati dalle culture wars e dai nuovi populismi, nascono all’interno di questa sfera pubblica inquieta, perché le nuove maggioranze, oltre che parlanti, sono anche profondamente divise. Punto di innesco delle guerre culturali, l’attivismo woke rappresenta, sotto certi aspetti, il correlativo odierno delle vecchie minoranze rumorose di sinistra e esprime i valori di quella parte delle classi medie che beneficia della globalizzazione, ama il cosmopolitismo e si comporta come un’avanguardia nella metamorfosi dei costumi . Il suo fondamento ideologico, come si dirà, è il grande progetto politico dell’emancipazione liberale, che è a sua volta il risultato della sola rivoluzione riuscita dell’epoca moderna, quella borghese.
L’emancipazione liberale ha due volti. Il primo, giuridico, è il compimento dell’individualismo moderno e ha come scopo quello di rendere le persone libere di autodeterminarsi, acquisendo diritti e svincolandosi da un passato autoritario, patriarcale e etnocentrico. Questo principio si scontra con i residui di un ethos tradizionale che appare ingiustificabile se si assume come valore il diritto di essere quello che si vuole, magari con l’aiuto della tecnica. È uno scontro morale e biopolitico che ha come oggetto le gerarchie tra i sessi e le culture, l’idea di normalità, i costumi, gli stili di vita, il corpo, le questioni dell’identità sessuale, della nascita e della morte artificiale e sembra portare alle estreme conseguenze lo slogan che, negli anni Sessanta e Settanta, annunciò un nuovo modo di concepire la sfera pubblica e i suoi partages du sensible: “il personale è politico” . Il secondo volto, sociale, è una sorta di prosecuzione del progetto redistributivo socialdemocratico e cerca di agire sulle ingiustizie legate alle differenze di genere, razza, cultura, orientamento sessuale, ma tende a ignorare, o in ogni caso a sottovalutare, le ingiustizie prodotte dall’economia di mercato e dal capitalismo, quelle che il vecchio progetto socialdemocratico metteva invece al centro del discorso. Qualche anno fa, nella biblioteca di una delle più liberal tra le università americane, Berkeley, c’era un cartello che diceva you’re in bear territory, il bear, l’orso, essendo la mascotte dell’università. Proseguiva dicendo no discrimination, no fear, no hate, no intolerance; no hate for race, sexual orientation, religious beliefs, disabilities e dando voce alla critica liberal delle gerarchie simboliche che il fondo patriarcale e coloniale della società americana e europea continua consapevolmente o inconsapevolmente a difendere. È molto interessante che in un elenco così capillare mancasse ogni riferimento alla forma di discriminazione su cui il pensiero politico ottocentesco e novecentesco ha insistito di più, quella di classe. Una delle prime poste in gioco dello scontro culturale odierno è proprio la ridefinizione dei partages du sensible. Quando nel giugno del 2024 Claudia Sheinbaum ha vinto le elezioni messicane, per esempio, la stampa liberal mondiale ha sottolineato che per la prima volta il Messico sarebbe stato governato da una donna, mentre non ha detto quasi nulla del programma di Sheinbaum o del suo legame politico col presidente uscente, López Obrador, di cui Sheinbaum ha ereditato il sistema di potere e il populismo autoritario. Che una donna abbia vinto le elezioni in Messico sembra al “New York Times”, al “Guardian” o alla Cnn, più importante della politica che questa donna adotterà. Qualcosa di simile era accaduto tre anni fa quando Giorgia Meloni era diventata la prima presidente del Consiglio in Italia, e a maggior ragione sarebbe accaduto se Hillary Clinton o Kamala Harris avessero vinto le elezioni americane. È come se il conflitto tra uomini e donne fosse considerato più politico dei programmi propriamente politici.
L’avversario della cultura liberal è un’opinione pubblica di destra che negli ultimi decenni si è radicalizzata, assumendo posizioni che un tempo parevano indicibili o destinate a rimanere minoritarie. È composta da chi si sente minacciato dalla globalizzazione e dalle conseguenze del liberalismo morale . Pur essendo erede delle vecchie maggioranze silenziose, quelle che non erano ancora pronte a ripudiare in pubblico i valori tramandati anche quando in privato sperimentavano nuovi costumi, questa opinione pubblica è diventata col tempo più rumorosa e ha rimesso in discussione alcune conquiste di civiltà che, nel secondo dopoguerra, parevano acquisite per sempre: conquiste culturali, come l’impresentabilità di certe idee xenofobe, e conquiste politiche, come l’idea che la democrazia si fondi su un sistema di vincoli costituzionali e sull’equilibrio dei poteri, e che non possa né debba diventare un cesarismo, un bonapartismo o, come si dice usando una categoria emersa alla fine degli anni Novanta, una democrazia illiberale . Mentre le guerre woke cercano di modificare l’arredo interno di un edificio la cui architettura esterna, capitalistica e liberale, non viene messa in discussione, i populismi di destra rischiano di alterare le strutture della Western way of life, e non perché perseguano un progetto di cambiamento utopico – una rivoluzione sia pur nera, come il fascismo storico con la sua idea di Stato etico – ma perché hanno una concezione autoritaria del potere conferito dal voto che rischia di entrare in conflitto con le regole costituzionali delle democrazie. Non è un rovesciamento palese, ideologico e rivendicato, ma una corrosione che mantiene in piedi la facciata svuotando l’edificio dall’interno.
Oltre allo scontro tra una concezione liberale e una concezione illiberale della democrazia, la linea di faglia decisiva della politica interna all’Occidente collettivo è quella che oppone chi vuole il compimento del liberalismo morale e chi difende posizioni conservatrici. Anche in questo campo il confronto non è né iperbolico né isterico, le decisioni di fondo debbono ancora essere prese e il risultato delle elezioni conta. Se la sinistra di una volta considerava i rapporti di classe e lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale come le prime e più profonde forme di ingiustizia, la sinistra liberal ha smesso di immaginare un’alternativa all’economia di mercato e mette al centro del suo discorso le ingiustizie generate da altri rapporti di forza (tra i sessi, le etnie, gli stili di vita) che la sinistra di una volta giudicava contraddizioni secondarie. Chi difende il nuovo partage du sensible può invece sostenere, con buoni argomenti, che la lotta per l’emancipazione delle donne e delle minoranze agisce su linee di faglia più profonde, estese e durature di quelle toccate dallo scontro tra modelli di ingegneria sociale che ha segnato la politica novecentesca. In questa nuova partizione, il conflitto di classe scivola sullo sfondo e rischia di non essere percepito, anche perché la cultura liberal accetta le grandi architetture politiche e economiche uscite vincitrici dalla Guerra fredda, a cominciare dal capitalismo. Oggi è la destra a raccogliere il voto delle classi popolari.
Chi invece guardi la scena politica odierna avendo ancora in mente le utopie della sinistra ottocentesca e novecentesca ha la certezza che il fronte complessivo si sia spostato a destra rispetto a cinquant’anni fa, sia perché le società occidentali non conoscono alternative di sistema se non la degenerazione autoritaria della democrazia formale o il disordine, sia perché la parte che si colloca a sinistra agisce come se le critiche che la cultura marxista e il movimento operaio hanno mosso all’ingiustizia del capitalismo o all’ipocrisia della politica liberale non fossero mai esistite, mentre sono ancora tutte vere. Si può giustificare il liberalismo come l’impero del male minore ; è impossibile farlo passare per una società dove regna la giustizia o dimenticare che la sua idea di libertà è l’anticipazione giuridica di una libertà reale inesistente, il frammento di un progetto incompiuto.
Attirato dal secondo titolo (Un altro mondo è impossibile) del capitolo finale ( Sessantotto e rivoluzione), leggo:
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“Invece la seconda di queste rivoluzioni ha vinto. Ha cambiato la vita delle masse e ottenuto conquiste cui oggi non vorremmo rinunciare. Ha anche comportato la crisi della politica come utopia e la fine dell’illusione che si potesse uscire dalla preistoria. La prima rivoluzione andava contro lo Spirito del Tempo, la seconda lo fiancheggiava. Tutta la mia irrazionale simpatia va alla prima. La gerarchia, l’alienazione, lo sfruttamento, l’isolamento che abbiamo accettato come ovvi dopo la fine dell’età delle rivoluzioni, in cambio di una sfera preziosa di benessere e di autonomia privata, frustrano alcuni desideri umani profondi e non meno reali del principio di realtà che ce li fa considerare delle illusioni. Le utopie politiche di sinistra, come grandi religioni sostitutive secolarizzate, hanno permesso, tra le altre cose, di gestire lo iato tra i desideri e la realtà trasformandolo in un impulso al cambiamento. Il loro tramonto lascia spazio a soluzioni antiche (il ritorno delle religioni vere, per esempio), all’impegno per l’emancipazione liberale, se ci si crede, ma soprattutto a una vita che resta chiusa nel privato e si barcamena tra la ricerca della felicità o della tranquillità personale, l’edonismo, la decenza quotidiana, l’ironia, le passioni tristi, una blanda schizofrenia o una disperata vitalità. Siamo attraversati da queste Stimmungen, adottiamo l’una o l’altra a seconda del nostro temperamento e del nostro posto nel mondo, le cambiamo nel corso degli anni o delle giornate. Possiamo immaginare che la società attuale diventi più autoritaria di quanto non sia o crolli nel disordine, come nei racconti della nostra fantascienza distopica, ma non abbiamo più alcuna speranza paragonabile a quella che animava l’età delle rivoluzioni. Nessuno pensa che un altro mondo sia possibile, nessuno ci crede veramente.”
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Il GuidoMazzoni post fa il paio con il Sergio Benvenuto psi… Ahi, LPLC!
Ennio: “Il GuidoMazzoni post fa il paio con il Sergio Benvenuto psi… Ahi, LPLC!”
Bah, l’arietta fina di oratorio quando non proprio di sacrestia, con tutto il côté che ne deriva, non la scopriamo stamani… ma il cortese pubblico approva e Papa Guido I sarebbe un ottimo esito per il Conclave… non solo quello letterario!