[Presentiamo alcune pagine del nuovo libro di Massimo Mastrogregori, Breve storia dell’ideologia occidentale, uscito di recente da Marietti. Tratto da un corso di lezioni all’Università di Roma “La Sapienza”, il libro ripercorre alcuni episodi del complesso che la cultura occidentale ha intrattenuto, nell’ultimo secolo, con l’Oriente e con la sua immagine mitica. Si parla di Mimesis, il capolavoro di Erich Auerbach sulla presentazione della vita quotidiana nella letteratura occidentale (1946), e di Lost in translation, il film di Sofia Coppola sullo spaesamento di due occidentali a Tokyo (2003), passando per il progetto cinematografico di Clint Eastwood sulla battaglia di Iwo Jima, la rivoluzione di Kemal Atatürk e l’occidentalizzazione della Turchia (è a Istanbul che Auerbach scrive il suo monumento di filologia occidentale), e rifacendo, infine, il viaggio a ritroso, da Oriente a Occidente, dall’Egitto agli Stati Uniti, di Edward Wadie Said, l’autore di Orientalismo (1978), che ha legato per sempre immagine europea dell’Oriente e conquista coloniale.]
La conquista coloniale di gran parte del mondo da parte dei paesi europei ha comportato un’esportazione di una serie di tecniche e istituzioni in ogni campo, una propagazione di civiltà materiale e immateriale. Questo ha prodotto, quasi in ogni campo, l’unificazione del mondo (Auerbach la chiamava livellamento). Già negli anni Venti e Trenta ci sono voci, nel continente europeo, che si levano per sottolineare la fine della specificità europea […]. Dopo la seconda guerra mondiale, i paesi europei si ritirano dai paesi colonizzati. Ma nonostante il ritiro, tecniche e istituzioni di civiltà materiale e immateriale restano sul posto, combinandosi secondo correnti anche sotterranee con i rispettivi sostrati. Tra le altre cose rimaste sul posto, c’è anche l’ossessione della nazione e il nazionalismo: l’unificazione sopravvive al ritiro in termini di civiltà materiale e di ideologia nel senso gramsciano.
Questa è la situazione mondializzata, o ancora meglio globalizzata, che è di fronte ai nostri occhi. Avrei voluto fermarmi di più sul caso giapponese, che riproduce la sequenza di conquista, ritiro e unificazione di civiltà in scala ridotta. Il Giappone è conquistato alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1952 gli Americani ritirano le forze di occupazione, ma dal punto di vista dell’influenza della civiltà e delle istituzioni – la stessa costituzione giapponese è stata pensata e scritta dagli Americani – l’occidente resta in Giappone. Questo produce notevolissimi conflitti, tanto che un sociologo giapponese che lavora in Francia, Toshiaki Kosakai, si è chiesto in un libro: I Giapponesi sono Occidentali? e ha fatto un’analisi molto approfondita del loro rapporto con l’occidente. Dal punto di vista sociologico il Giappone è molto chiuso, ci sono pochissimi stranieri che ci vivono; ma in campo culturale c’è un’invasione di immagini e oggetti occidentali, ad esempio c’è un’utilizzazione massiccia di occidentali nella pubblicità. Kosakai ha dimostrato che si verifica un fenomeno opposto a ciò che accade per l’orientale di Said (che è la rappresentazione in negativo dell’occidentale). Per i Giapponesi avviene il contrario: l’occidentale è la rappresentazione idealizzata del Giapponese: si fanno invadere dal punto di vista della civiltà perché, pur fedeli ad un’immagine antica del Giapponese, proiettano su quest’immagine in positivo quella dell’occidentale (che è quindi la forma ideale del Giapponese). [1]
Nel luglio 1970 uno scrittore giapponese, Yukio Mishima, scriveva, in un articolo di giornale intitolato Gli ultimi venticinque anni:
In questi ultimi venticinque anni ho perso ad una ad una tutte le mie speranze ed ora che mi sembra di scorgere la fine del mio viaggio sono stupito dall’immenso sperpero di energie che ho dedicato a speranze del tutto vuote e volgari. Se avessi riversato altrettanta energia nel disperare avrei forse ottenuto qualcosa di più. Non posso continuare a nutrire speranze per il Giappone futuro. Ogni giorno si accresce in me la certezza che se nulla cambierà, il “Giappone” è destinato a sparire, al suo posto rimarrà un lembo dell’Asia estremo-orientale, un grande paese produttore, inorganico, vuoto, neutrale e neutro, prospero e cauto. Con quanti ritengono che questo sia tollerabile, io non intendo parlare.
Qualche mese dopo, il 25 novembre 1970, Yukio Mishima prende in ostaggio il comandante della regione militare di Tokyo, chiede di riunire la guarnigione e di fronte a loro pronuncia questo proclama, di cui leggo alcune parti. [2]
Abbiamo visto perdersi lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in un’utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una posizione di vuoto. Siamo stati costretti, stringendo i denti, allo spettacolo della politica totalmente perduta in vischiose contraddizioni, nella difesa di interessi personali, nell’ambizione, nella sete di potere, nell’ipocrisia. Abbiamo visto i grandi compiti dello Stato delegati ad un paese straniero. Abbiamo visto l’ingiuria della disfatta subita nell’ultima guerra, non vendicata, ma semplicemente insabbiata. Abbiamo visto la storia e la tradizione del Giappone profanate dal suo stesso popolo. Abbiamo sognato che il vero Giappone, i veri Giapponesi e il vero spirito dei samurai dimorassero almeno nell’esercito di difesa nazionale. Abbiamo atteso quattro anni. Non c’è più motivo di attendere coloro che continuano a profanare se stessi, attenderemo ancora solo trenta minuti, gli ultimi trenta minuti. Insorgeremo insieme ed insieme moriremo per l’onore, ma prima di morire ridoneremo al Giappone il suo autentico volto. Noi ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia, è il Giappone, il paese della nostra amata storia e delle nostre tradizioni. Il Giappone. Non c’è nessuno tra di voi disposto a morire per scagliarsi contro la costituzione che ha disossato la nostra patria? Se esiste, che sorga e muoia con noi. Abbiamo intrapreso questa azione nell’ardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate tornare ad essere degli uomini e dei veri guerrieri.
Nel frattempo si è riunita una troupe televisiva, che riprende tutto in diretta. Finito il proclama, l’autore compie il suicidio rituale. L’obiettivo di Yukio Mishima era quello di segnare così la distanza tra un’ideologia nazionalista e patriottica e quello che era accaduto in quel paese dopo la guerra, dove una civiltà ed una tradizione estranee si erano stabilite ben oltre il tempo del ritiro delle truppe americane.
L’unificazione culturale su scala planetaria produce notevoli conflitti. Si è trattato di un trionfo dell’occidente? Lo stendersi su tutto il mondo di uno stesso immaginario e di una stessa civiltà materiale è una vittoria dell’occidente? La sola domanda conferma che i punti cardinali sono macchine ideologiche. Sarebbe ben più storico riconoscere, come ci invitava a fare Abu Lughod nel suo libro sulla Westernization del mondo arabo, che questo processo su scala mondiale ha ricevuto degli stimoli da una tradizione che possiamo chiamare occidentale, ma poi ha assunto forme diverse nei diversi luoghi, grazie alla reazione dei differenti sostrati. Più che di trionfo dell’occidente, bisognerebbe parlare di una lingua comune, che oggi si parla nel mondo. È una specie di koinè, agitata però, come dimostra il caso estremo di Mishima, da contrasti profondi.
Questa lingua comune si parla in quasi tutte le aree o discipline. Pensate al disegno industriale, all’architettura, ai trasporti, alla medicina, alla tecnologia militare. Ci sono alcune aree in cui la differenza è più viva, ma nella maggior parte dei casi, nella tecnologia, nella fotografia, nel cinema, nelle scienze, si parla una lingua comune internazionale, anche quando si parlano lingue nazionali. Non è lecito definirla occidentale e inorgoglirci di un progresso che in realtà è globale. C’è una modernità transnazionale, cui hanno contribuito tutte le culture e che oggi è globalizzata. Il problema non è da dove origini questa lingua comune, ma quello che essa produce, anche sul piano ideologico, perché dentro di essa ci sono correnti sotterranee di interpretazione del patrimonio comune.
In un testo molto politico del 1935, intitolato Problemi dell’Europa, Marc Bloch, che prendeva spunto da una recensione di un convegno promosso nella Roma fascista dalla fondazione Volta, si chiedeva ad un certo punto:
Nel mondo antico dove cominciava lo spaesamento totale?
Bloch osservava che nel quarto secolo dopo Cristo un abitante nella Francia meridionale si sentiva a casa sua a Cartagine, ma ad esempio era in terra incognita anche solo dopo aver passato il Reno. Nel dodicesimo secolo, l’europeo era di casa a Lubecca, ma non certo a Tunisi, dove regna l’infedele, non nell’oriente greco dove non ci si capisce, non al di là della Vistola, nell’Europa slava. Si è creato un nuovo spazio europeo, che non è più quello antico centrato sul Mediterraneo, e che è nato, secondo Bloch, nel momento in cui l’impero romano con le sue strutture è crollato. [3] Nel 1935, questo spazio era in declino e se ne discuteva la sorte. Riprendendo la domanda di Bloch del 1935, ci possiamo chiedere dove cominci lo spaesamento totale, oggi.
C’è una testimonianza divertente, di uno scrittore italiano, Francesco Piccolo, in un libro intitolato L’Italia spensierata, un diario di viaggio nell’Italia contemporanea scritto da una prospettiva un po’ nevrotica e antisnob. [4] L’autore è uno scrittore, che a un certo punto sente il bisogno di fare le cose che fanno tutti, è attratto irresistibilmente da luoghi e consumi di massa: si mette in macchina i primi giorni di agosto per andare in vacanza, si perde tra i prodotti in un autogrill, porta a Mirabilandia due bambine (la figlia e un’amica), partecipa alla Notte bianca romana. A un certo punto del viaggio, vede un enorme McDonald’s e invece di far finta di indignarsi, come farebbe una buona fetta della popolazione impegnata mondiale, confessa:
Ogni volta che esco fuori dalle mura della mia città mi sento perso nel mondo e il potere che esercita su di me l’insegna di McDonald’s è un potere ayurvedico, zen, iogico, lexotanico. Mi tranquillizza. Se sono in un luogo dove c’è anche McDonald’s non sono fuori dal mondo e tutto è riconoscibile. Se mai qualcosa dovesse spaventarmi, c’è un luogo dentro cui rifugiarmi sia fisicamente sia spiritualmente. Se sono in angoscia, posso sedarla mettendo sotto il palato il sapore inconfondibile e artificiale dei suoi prodotti.
È chiaro che sta scherzando. Però, riprendendo la sua osservazione, si potrebbe dire che lo spaesamento totale oggi comincia dove non c’è il McDonald’s: in Iran, ad esempio, o in alcuni paesi dell’Africa. E a proposito di Africa, una risposta meno allegra potrebbe essere che lo spaesamento totale oggi comincia nei centri di identificazione ed espulsione, disseminati all’interno del nostro territorio ma veri, insuperabili confini dell’occidente, dove persone (non)immigrate – quasi respinte in mare, trattenute non identificate, ex detenute, richiedenti asilo, quasi rimpatriate attraverso i lager libici – sopravvivono in qualche modo, spesso private dei diritti.[5]
Un’altra risposta alla domanda (dove comincia oggi lo spaesamento totale?), è suggerita anche dal film Lost in translation di Sofia Coppola (2003). I due protagonisti, un uomo di mezza età e una ragazza di vent’anni, intontiti dal jet-lag, naufragati in un grande albergo di Tokyo, il Park Hyatt, faticano a “tradurre” il luogo in cui si trovano e restano sospesi in una situazione di estraneità alle cose, alle persone, resa ancora maggiore dall’intimità che si crea solo tra loro due. Osservata dal finestrino del taxi di notte, o dalla vetrata panoramica della camera d’albergo, Tokyo resta indifferente per entrambi. La ragazza prova a scendere in strada in città, o a visitare i luoghi del Giappone tradizionale, sono comunque per lei immagini incomprensibili. La loro storia, quindi, è l’amicizia tra due insonni sradicati. L’idea è che ormai, nel mondo unificato, lo spaesamento non comincia da nessuna parte, ma è dovunque, nel senso che è uno spaesamento interno a ciascuno di noi. Tokyo è una città che sembra occidentale, ma i protagonisti non capiscono le parole delle insegne luminose, parole in fondo immaginabili, comunque irrilevanti; la Tokyo ripresa senza permesso, per strada o nella metro, con una camera leggera guerilla-style – che registra su pellicola: «il film introduce un po’ di distanza, così ricordo le cose, ha detto la regista, film e foto, il video è tempo presente (more present tense)» – lo sfondo urbano rubato è, allo stesso tempo, qualcosa di noto e di ignoto, che riporta lo spettatore, inevitabilmente, ai volti dei due occidentali spaesati.
Ai Giapponesi il film non è piaciuto. Una recensione in «Yomiuri Shimbun», il daily più diffuso in Giappone, descrive la rappresentazione di Tokyo, fatta dalla Coppola, come “oltraggiosamente prevenuta e banale”. Forse non si tratta solo della reazione di fronte a una presentazione stereotipata. I Giapponesi reagiscono e rifiutano il film, ma non perché si vedono occidentali, ma perché Tokyo, in fin dei conti, nel film è un posto qualunque, uno spazio indifferenziato, anche se fortemente caratterizzato con i colori, la musica, il design, il modo di vestire (ikebana e templi di Kyoto compresi); nelle conferenze stampa, continuano a chiedere agli autori: le persone sono sole dovunque, perché ambientare il film a Tokyo? Per loro, Tokyo non è un posto qualunque, è la loro città. Reagiscono alla presentazione, che forse è la cosa più impressionante del film della Coppola, di Tokyo, la loro città, come luogo occidentale ultra-caratterizzato – basta pensare a come si presenta il conduttore dello show televisivo – ma in fondo standard, qualsiasi (e alienante). [6]
Al di sotto della superficie unificata e apparentemente pacificata del mondo scorrono in realtà numerosi conflitti. Alcuni esempi che ho citato hanno a che fare con i sentimenti e le emozioni, e indubbiamente i conflitti che scorrono al di sotto del mondo unificato riguardano anche le emozioni. Spesso si tratta di una specie di nostalgia per la molteplicità – questo è anche il tema di alcune riflessioni di Auerbach, come si è visto –, nostalgia del tempo in cui c’erano tante cose diverse, quando la presenza delle cose diverse, come abbiamo letto nello scritto sulla Weltliteratur, non impediva una prospettiva unificata, ma provocava anzi una reciproca fecondazione. Oggi la prospettiva unificata copre, semmai, il contrasto tra un’unificazione effettiva e spinte sotterranee, di sostrato, ancora molteplici.
La nostalgia che praticava Croce la sorprendiamo proprio in una lettera ad Auerbach del 1948. Croce non aveva più ricevuto notizie dell’amico durante la guerra, poi avevano ripreso i contatti, e Auerbach gli aveva mandato Mimesis, chiedendogli la sua opinione. Il filosofo gli risponde, l’8 marzo 1948, di non aver ricevuto il libro (che avrebbe subito letto, trattandosi di cosa sua); e aggiunge che ha pensato a lui tante volte e che c’è un ricordo che ha rievocato spesso: in una cena a Berlino (nell’agosto 1927 o nell’ottobre 1931), gli Auerbach gli fecero trovare i maccheroni alla napoletana: un piatto familiare, tanto lontano da casa (fu veramente una buona azione, osserva Croce, perché lo fecero sentire a casa). Una personalità di importanza internazionale, come lui, mostra senza timori un attaccamento vistoso alle cose “locali” del vivere quotidiano, all’aria di casa. [7]
Questo risulta anche da un’altra testimonianza. Ne parla Giorgio Levi Della Vida, nel libro Fantasmi ritrovati: a un certo punto, c’è il racconto di visite serali, con un amico, a Croce ministro del governo Giolitti (1920-1921). [8]
Lo trovavamo per lo più che stava cenando, reduce dagli impegni quotidiani del gabinetto e del Parlamento. Seduto alla tavola della ultraottocentesca sala da pranzo, consumava un pasto frugale tipicamente meridionale, in cui la parte predominante avevano il caciocavallo e i finocchi crudi. Una delle cose che colpivano di più in Croce erano il connubio, o il contrasto, dello studioso dagli orizzonti sconfinati, profondo conoscitore di lingue e di letterature e di filosofie straniere, esperto dei luoghi e dei costumi di più che mezza Europa, e il buon borghese napoletano, tradizionalistico o piuttosto paesano, nel costume e nel gusto, veracemente attaccato al modo di vivere della generazioni in via di scomparire, respirante a suo agio soltanto in un ambiente saturo di provincialismo, ripugnante, come lo ha efficacemente ritratto sua figlia Elena, da ogni innovazione tecnica e da ogni moda internazionale.
Tradizioni molto antiche sopravvivono in un mondo unico, intrecciandosi in modo imprevisto, come accade in un altro film, Ghost dog (1999). Il protagonista, soprannominato Ghost dog, è un nero americano, killer di professione: massiccio, ma sempre sul punto di scomparire; per niente attratto dal denaro, non ha oggetti, a parte le armi; vive in una baracca sul tetto di un palazzo, e alleva piccioni viaggiatori, l’unico modo che ha per comunicare col suo padrone; ruba automobili di lusso, e poi le abbandona; vive come un samurai e legge l’Hagakure (testo importante scritto alla fine del Seicento da un ex samurai divenuto monaco, il titolo significa “all’ombra delle foglie”). Per molto tempo, l’Hagakure fu un testo segreto, poi all’inizio del Novecento, sull’onda del nazionalismo giapponese che aveva sconfitto i Russi e i Cinesi, diventò di moda ed è stato il testo fondamentale del Giappone lanciato all’invasione del mondo: per questo, nel 1945, quando arrivarono gli Americani, copie del libro furono bruciate in grandi falò nelle piazze. Il suicidio di Yukio Mishima, che aveva commentato l’Hagakure, riporta in auge l’opera. Il protagonista del film è dunque un nero americano che vive secondo precetti giapponesi, come un samurai, ma il suo padrone è un mafioso italiano. Il padrino dice che il nome di Ghost dog è come quello degli indiani, Alce nero o Toro seduto; un altro mafioso, invece, che ama l’hip-hop, dice che è il nome di un rapper. I mafiosi, dal canto loro, guardano sempre i cartoni animati. Richiamo qui solo pochi aspetti del film, che presenta una combinazione originale e attraente di tradizioni antiche e contemporanee. C’è la spiritualità della black culture, l’hip-hop newyorchese del rapper RZA, uno scenario urbano immobile e anonimo – quasi dei non-luoghi disintegrati – restituito con una fotografia pop brillante; e poi c’è la presentazione di due serie coerenti di elementi narrativi, che prefigurano gli sviluppi della storia: citazioni dell’Hagakure, abilmente «montate» dal regista, mostrate allo spettatore e lette da una voce fuori campo, e cartoni animati di Betty Boop e Itchy&Scratchy, costantemente guardati, anche in macchina, dai mafiosi italiani.
Intreccio di tradizioni, dunque, ma anche scontro: il punto in cui ciò emerge in modo vistoso è quando Ghost dog incontra due cacciatori americani, bianchi, che hanno appena ucciso un orso; si avvicina e chiede loro perché lo abbiano fatto: nelle antiche culture l’orso rappresenta l’uomo. Il cacciatore americano bianco risponde, giustamente, che loro, gli americani, non sono un’antica cultura: a quel punto, Ghost dog punisce la loro trasgressione uccidendoli. Sullo sfondo di una cultura non antica, come quella americana, si muovono una serie di persone, la cui cultura invece è antica, quella della propria gente o quella mutuata da qualche altra tradizione. C’è la scena della bimba nera che legge un libro sull’anima del popolo nero ma quando Ghost dog le presta Rashomon – a cui Jarmusch si è molto ispirato per il film – a lei piace: quel libro sulle leggende dell’antico Giappone è lo stesso che legge la figlia del padrino. L’unico dei mafiosi che commenta l’Hagakure, quando ne parla Ghost dog, è il padrino, che lo definisce la poesia della guerra. Le antiche culture, quella giapponese e quella della mafia italiana si comprendono; come si comprendono, senza bisogno di traduzione, il venditore di gelati haitiano e il protagonista: dialogano con naturalezza in due lingue diverse, che ignorano reciprocamente. [9]
Niente di grave, finché restiamo su questo genere di osservazioni, cioè che c’è una tonalità comune, una lingua comune che produce conflitti di tipo nostalgico oppure impreviste combinazioni di antico e di nuovo. Purtroppo, però, si può cogliere – in questo quadro conclusivo, che provo a comporre, sull’immenso occidente che è diffuso un po’ dovunque – anche qualche segnale più inquietante. C’è anche un senso di profonda incertezza nei confronti del futuro, connaturato all’estensione su scala planetaria del mondo diciamo occidentale. Ne è testimonianza, ad esempio, la proposta di periodizzazione dell’età moderna di Paolo Viola. C’è stato un lungo periodo, scrive Viola nella prefazione alla sua storia dell’età moderna (dicembre 2003), in cui sono esistite le colonne d’Ercole, al di là delle quali c’era il male, se si andava oltre si veniva sommersi. Infatti Ulisse e i suoi compagni erano stati inghiottiti dai flutti: quel confine era stato edificato, affinché l’uomo rispettasse i suoi limiti; il loro viaggio-sfida verso la virtù e la conoscenza si era concluso nell’abisso.
Poi ci sono altre due colonne.
Le torri abbattute l’11 settembre 2001 sono un simbolo epocale. Quelle torri che si stagliavano sull’orizzonte di New York, vicinissime a Wall Street, e accoglievano con la promessa del benessere. Simboli ora invece della loro stessa distruzione.
Anche chi va oltre queste due colonne gemelle rischia d’essere sommerso: questa è l’immagine disperata di Paolo Viola. L’età moderna è ciò che sta in mezzo, quando si poteva andare oltre le colonne d’Ercole e pensare di poter trovare libertà, progresso e luce. [10] […]
[Note]
[1] Toshiaki KOSAKAI, Les Japonais sont-ils des occidentaux? L’Harmattan, Paris 1991.
[2] Yukio MISHIMA, Lezioni spirituali per giovani samurai, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 121-126.
[3] Marc BLOCH, Problèmes d’Europe, in “Annales d’histoire économique et sociale”, 1935, p. 479 (sarebbe da analizzare tutto il punto IV dell’articolo, sullo spaesamento e il tipo di civiltà). – Rottura dell’unità mediterranea fino ai «nostri giorni». Henri Pirenne scrive nel 1937: “Avec l’Islam (…) une déchirure se fait qui durera jusqu’à nos jours. Aux bords du Mare nostrum s’étendent désormais deux civilisations différentes et hostiles. Et si de nos jours l’Européenne s’est subordonnée l’Asiatique, elle ne l’a pas assimilée. La mer qui avait été jusque-là le centre de la Chrétienté en devient la frontière. L’unité méditerranéenne est brisée” (Mahomet et Charlemagne, Bruxelles 1937, p. 111).
[4] Francesco PICCOLO, L‘Italia spensierata, Laterza, Roma e Bari 2007, pp. 134-135.
[5] Dietro l’apparenza neutra e burocratica, il nome dato a questi luoghi è sinistro e involontariamente rivelatore (era meglio il precedente: centri di permanenza temporanea). Non si può negare, d’altra parte, che l’intera questione dell’immigrazione sia più un cambiamento epocale, da affrontare con molta immaginazione politica, che un problema di ordine pubblico, da risolvere in termini di emergenza. Nella vasta letteratura su questi centri, spiccano il lavoro di Marco Revelli (Lager italiani, Rizzoli, Milano 2006) e il rapporto di Medici senza frontiere (Al di là del muro: viaggio nei centri per migranti in Italia, con prefazione di Fabrizio GATTI, Angeli, Milano 2010).– Mediterraneo frontiera d’occidente. Cfr. Gabriele DEL GRANDE, Il mare di mezzo al tempo dei respingimenti, Castel Gandolfo, Infinito 2010.
[6] Critiche alla presentazione dei Giapponesi stereotipata e razzista sono frequenti anche nei media occidentali. Negli Usa, Asian Mediaworld ha condotto una campagna indirizzata verso i membri dell’Academy per votare contro le candidature del film all’Oscar (cfr. Motoko RICH, Land of the rising cliché, in “The New York Times”, 4 gennaio 2004; V.A. MUSETTO, Lost in transition – Japan critics rip flick, in “New York Post”, 21 maggio 2004; George WRIGHT, Hit film gets lost in racist row, in “The Guardian”, 27 febbraio 2004). – In estremo oriente, uno spazio indifferenziato occidentale. Al di là delle intenzioni dell’autrice, lo spazio ultra-caratterizzato ma, in fondo, indifferente e qualunque, è il risultato dell’interazione stessa tra i protagonisti e la città. Sofia Coppola ha ripetutamente detto, nelle interviste, che ha voluto rappresentare una Tokyo che le piace e che conosce (“non conosco un posto che mi dia la sensazione di essere un altro pianeta più di questo”). La regista, tra l’altro, si reca spesso a Tokyo per promuovere la sua linea di abbigliamento, la Milk Fed, che nella città giapponese raggiunge il picco di vendite. Inoltre la Coppola è stata anche fotografa di moda per la rivista avant-garde “Dune”, il cui capo redattore, Fumihiro Hayashi, è diventato uno dei suoi più cari amici (lo stesso Hayashi è il Charlie Brown che compare in diverse sequenze del film, e a un certo punto canta God save the Queen: cfr. Maria Francesca GENOVESE, Sofia Coppola, Le Mani, Recco 2007, p. 42).
[7] Nella lettera del 7 aprile 1948, Auerbach scriveva a Croce: “Le ho fatto spedire, alla fine del ’46, (…) Mimesis (…), mi pare che dovrebbe interessarla (…) Da quindici anni, parlo tutte le lingue – scrivo in tedesco, francese, inglese, italiano, latino – ho insegnato in francese a Istanbul, vi ho parlato ogni giorno quattro o cinque lingue – persino un po’ di turco – ed adesso ho da insegnare in inglese. E (…) ho imparato che non si può saper bene che una lingua sola, la lingua materna”. Saputo che il filosofo non aveva ricevuto il libro, Auerbach glielo rispedisce il 29 aprile 1948.
[8] Giorgio LEVI DALLA VIDA, Fantasmi ritrovati, Neri Pozza, Venezia 1966, p. 193.
[9] Il film richiama in più punti centrali Le samouraï di Jean-Pierre Melville (1967); del resto nei film di Jarmusch rivivono i film che egli ha amato e spesso i suoi personaggi sono “corpi che rinviano a figure tradizionali del cinema” (Umberto MOSCA, Jim Jarmusch, il Castoro, Milano 2010, p. 120). Per l’ambientazione urbana resa non identificabile (un lenzuolo steso sul terrazzo del protagonista nasconde allo spettatore, per esempio, le torri gemelle), cfr. le osservazioni di Mosca, Jarmusch cit., p. 112 e soprattutto Chris CAMPION, East meets West, in L. HERTZBERG (ed.), Jim Jarmusch interviews, University press of Mississippi, Jackson 2001, p. 211 (cit. in Chiara RENDA, Jim Jarmusch, Le Mani, Recco 2008, p. 25). – Fotografia pop “insolitamente brillante”. Cfr. Renda, Jarmusch cit, p. 99. – Montaggio di citazioni dell’Hagakure. La prima citazione che appare sullo schermo, ad esempio, inizia con il primo periodo del II brano del capitolo I dell’ed. Wilson (Hagakure, Kodansha International, Tokyo 200511, p. 23), prosegue con il primo periodo del XXXI brano del capitolo XI (p. 172) e termina con un frase del II brano del capitolo I (p. 23). Cfr. Ming Zhen SHAKYA, Commentary on the Hagakure, part 6: Ghost Dog: the way of the Samurai, april 28, 2006 (www.zatma.org, sezione Literature, essays). – Colonna sonora di RZA. Grande importanza ha nel film di Jarmusch la colonna sonora, che intreccia con le altre tradizioni visibili nella presentazione (nera, mafiosa, giapponese, cultura popolare americana e cartoni animati) quella dell’hip-hop newyorchese: Ghost dog potrebbe essere definito come il più profondo e sentito “hip-hop movie” mai realizzato (secondo quel che ne scrive Ernest HARDY, RZA Ghost sounds, in “Rolling Stone”, n. 840, 11 maggio 2000). Jarmusch ha raccontato il suo incontro artistico col rapper RZA a Juan A. Suarez (Jim Jarmusch, University of Illinois press, Urbana 2007, pp. 162-170): “Mi piace ascoltare la colonna sonora prima di cominciare a scrivere il film, così che si crei la giusta atmosfera. In quel periodo ascoltavo roba dub, jazz e hip-hop, tra cui mixes strumentali di diversi djs, tra cui RZA, che è uno dei miei preferiti. Il mio sogno, ancor prima di cominciare a scrivere, era quello di chiedergli di scrivere tutta la colonna sonora di questo film che avevo in mente. Dopo aver finito la sceneggiatura cercai di contattarlo in tutti i modi – attraverso il suo manager, l’avvocato, l’agente – ma era impossibile trovarlo. Come gli dissi successivamente, fu come cercare un criminale andando dalla polizia. Così parlai col mio amico Nemo Labrizzi, ben integrato negli ambienti di strada, che mi mise in contatto con Dreddy Kruger, un collaboratore dei Wu-Tang, che mi organizzò finalmente degli incontri con RZA. Venivamo da luoghi e culture diverse ma sembravamo capirci a meraviglia su tantissimi argomenti. Così RZA decise di partecipare, ancora prima della realizzazione del film. Quando feci un “rough cut” – fece un breve cammeo nel film – glielo mostrai e lui mi chiamò un paio di settimane dopo chiedendomi di incontrarci. Ci vedemmo all’interno di un pulmino dai finestrini oscurati alle 2 del mattino tra la Cinquantesima e Broadway e mi lasciò una registrazione con niente scritto sopra. Quando ascoltai la musica capii che lì dentro non c’era esattamente quello che volevo: mi aspettavo il sound imprevedibile e minimale, meraviglioso ma leggermente rovinato e malfatto della roba dei Wu-Tang! La maggior parte delle cose presenti nella registrazione potevano andare bene, al massimo, per un film di John Woo! Intendiamoci, era grande musica, ma gli dissi che non era del tutto adatta a quello che pensavo per il mio film. Lui mi rispose “Ok, so quello che vuoi”. Passarono tre settimane, mi chiamò e mi diede un’altra registrazione: la musica era incredibile, era esattamente quello che volevo. Qualche settimana dopo mi portò altra roba e il risultato fu che avemmo più materiale di quanto ne potemmo utilzzare nel film. La cosa davvero incredibile è che nessun pezzo venne scritto per una scena particolare, fu una colonna sonora realizzata esclusivamente sulle sensazioni di RZA”.
[10] «L’idea di Età moderna da cui parto è insomma la seguente: quella in cui tutto il pianeta è stato conquistato da una delle sue popolazioni, gli europei. I quali poi lo hanno perso; ma non prima di averlo trasformato irreversibilmente, e avergli trasmesso alcuni dei loro caratteri originali, che sono stati altresì le armi della conquista. Innanzi tutto il capitalismo, e poi istituzioni politiche complesse, pluralismo giuridico, culturale, politico, in alcuni casi tolleranza, ma anche nazionalismo e razzismo, e alla fine regole istituzionali e pratiche discorsive qualificate come democratiche: inclusive, a determinate condizioni» (Paolo VIOLA, L’Europa moderna, storia di un’identità, Einaudi, Torino 2004, p. IX).
[Immagine: Michael Roulier, The Vanishing Point (gm)].