di Franco Buffoni
[Escono oggi per Mondadori, nella collana dello Specchio, le Poesie (1975–2025) di Franco Buffoni, accompagnate da un saggio introduttivo di Massimo Gezzi. Proponiamo in anteprima l’ultimo capitolo dell’introduzione di Gezzi, dedicata al libro inedito La coda del pavone che chiude il volume e prosegue il “ciclo scientifico” aperto da Betelgeuse e altre poesie scientifiche nel 2021].
Massimo Gezzi
Il nuovo libro: «La coda del pavone»
Sin dal titolo, il libro inedito che chiude questo Specchio conferma che Buffoni negli ultimi anni ha aperto un nuovo ciclo che potremmo definire scientifico: «se […] in Betelgeuse mi sono annullato nell’infinitamente piccolo e nell’incommensurabilmente espanso», leggiamo nella nota finale, «qui […] mi sono concentrato sul mondo animale in prospettiva ‘cyborg’».
L’interesse per l’etologia, conquistato nel tempo, era già emerso in varie zone dell’opera di Buffoni: ne abbiamo già parlato per Più luce, padre e per Guerra, dove l’autore aveva certificato, osservando il comportamento di umani e animali, che «una radice del male / È zoologica», e dunque non sorprenderà che nella Coda del pavone l’autore si ponga spesso in dialogo con quel libro del 2005.
La coda del pavone è strutturato in sei sezioni diseguali in cui, per la prima volta (a parte il caso anomalo di O Germania), prose e poesie si alternano liberamente, sabotando un modus operandi che Buffoni aveva osservato in modo piuttosto rigoroso sin da quando aveva iniziato a pubblicare libri di prosa e che nel 2022 considerava ancora valido. [168] In pratica, ciò che nelle opere precedenti veniva relegato nella sede peritestuale delle note finali, qui invade lo spazio e diventa a tutti gli effetti testo, fungendo talvolta da introduzione (sezioni II e IV) o da cornice (sezione III) per una serie di componimenti in versi e trasformando così anche il libro di poesia in quella scrittura «ibrida e de-genere», [169] o queer, [170] che caratterizzava già molte delle opere in prosa.
Il tema principale dell’opera è, come dicevamo, quello degli animali, visti non solo da una prospettiva scientifica ed etologica, ma anche da un punto di vista simbolico e culturale, con un’attenzione particolare per il teriomorfismo del passato e del futuro.
Per sgombrare subito il campo da possibili equivoci riguardo a un’ipotetica superiorità degli animali rispetto alla nostra specie corrotta, [171] Buffoni nel secondo testo torna a ritrarre la Natura con accenti spietatamente leopardiani: «E la natura è come / Una padrona scema, / Non capisce niente / E non si fida di nessuno. / Di lei c’è da fidarsi ancora meno». Di conseguenza nel libro gli animali figurano più volte per quello che effettivamente sono, ovvero esseri capaci di crudeltà nei confronti delle loro prede o persino dei loro simili, come il branco di lupi che allontana il più anziano impedendogli di dividere i resti di una carcassa, o come le galline nel pollaio, dove «la gallina più robusta / Becca tutte le altre, e così via / Fino a quella più debole, / Molestata da tutte / Che non becca nessuno». La consapevolezza della radice zoologica del male, insomma, è un’eredità intellettuale che La coda del pavone riceve da decenni di riflessione e che conferma in pieno, tanto che in una prosa del nuovo libro indoviniamo forse l’occasione che aveva generato il finale di un testo di Guerra, laddove Buffoni racconta che suo padre «prendeva la trappola del topo vivo, usciva, raggiungeva il vicino ponte dell’Arnetta, e sulla riva liberava l’animale. Ignaro di quanto accade a un topo immesso nel territorio di un’altra tribù di ratti».[172]
Con una sorta di palinodia, anzi, Buffoni vira verso il “pessimismo cosmico” una convinzione che emergeva nei libri degli anni Duemila, perché se da un lato un testo della Coda del pavone (Che cosa manca agli animali?) recupera alcuni versi di Guerra in cui gli animali venivano distinti dagli umani per la loro incapacità di dileggiare la vittima, [173] dall’altro una poesia successiva (Come un gatto o un coniglio) corregge questo assunto, instillando il dubbio che anche gli animali condividano lo stesso gusto sadico degli umani («Mai vista un’ape imprigionata nella tela / E lentamente dal ragno seviziata a morte?»).
Eppure, nella Coda del pavone gli animali sono anche e soprattutto vittime della crudeltà umana: che siano trote dalle fauci squarciate lasciate a boccheggiare nel retino da pesca, uccellini accecati da un mercante perché cantino più forte, la cagnetta Laika «Nata nel 54 e sparata in cielo viva dai sovietici nel 57», o ancora castori in fuga dall’essere umano «Pronto a infilargli un elettrodo nel culo / Per non sciupargli la pelliccia», i crimini verso gli animali compongono un elenco raccapricciante che getta una luce sinistra sulla «bestia d’uomo», ovvero sui sapiens sapiens.
Questo sentimento di disgusto aumenta quando Buffoni sottolinea, dalla sua specola robustamente antiantropocentrica, che umani e animali sono meno distanti di quel che si potrebbe credere anche dal punto di vista cognitivo: A proposito di corvi assicura che «La loro intelligenza è pari almeno / A quella di un bambino di tre anni», mentre Per cucire il nido il colibrì avanza la supposizione che per questo uccello, che imbastisce il suo nido riutilizzando la seta prodotta dai ragni, «si possa ipotizzare / La comprensione del fine dell’azione».
Non solo etologia ed ecologia, si diceva però all’inizio. E infatti questo confronto serrato tra la nostra e le altre specie accende anche l’interesse per il teriomorfismo, vero filo rosso che attraversa tutte le sezioni del nuovo libro. Non è un caso che La coda del pavone sia forse l’opera in cui Buffoni accoglie più di frequente il mito e la letteratura classica: [174] il titolo stesso proviene dal proemio degli Annales di Ennio, citato anche da Lucrezio, in cui l’anima di Omero trasmigra in un pavone «prima di giungere a lui per esporgli la dottrina della metempsicosi». Allo stesso modo nel libro incontriamo le Metamorfosi di Apuleio (Per altro nel corteo) oppure Cadmo che, alla ricerca della sorella Europa rapita da Zeus, si imbatte in «piccoli esseri dalle sembianze minerali» che l’autore intravede nei referenti ancipiti di alcuni termini di dialetti alpini ormai scomparsi (per esempio ona burdüra, che in Valdossola indicava un coleottero ma anche la strega che rapiva i bambini disobbedienti); o ancora incrociamo «sfingi e minotauri / E satiri e centauri / Lesti a ricordarci / La nostra voglia di coniugare / Tratti umani e tratti animali».
Dipenderà da questo tema antico e popolare, tra l’altro, il fatto che se da una parte permangono i riferimenti colti che caratterizzano da sempre la scrittura di Buffoni (l’Eneide, Keats, Swinburne, Ortese o il pavone che appare in primo piano nel San Girolamo di Antonello da Messina), dall’altra parte l’interesse dell’autore sembra spostarsi anche verso ambiti fin qui meno frequentati e meno elitari: il chassidismo e l’induismo, per esempio, recuperato proprio per le sue fantasie teriomorfe e per le sue implicazioni omoerotiche; o le favole di La Fontaine e Disney; o persino la canzone pop e rock, se è vero che una poesia termina con una citazione di Caruso di Lucio Dalla e che nel testo eponimo la dispendiosa coda del pavone viene paragonata alle «zampe ungulate» (con riferimento alle zeppe degli stivali) che i Måneskin indossano nella loro «esibizione rockettara».
La fusione di tratti umani e non umani viene proiettata da Buffoni anche nel futuro: di qui l’interesse, teorico e poetico, per la figura cara a Donna Haraway del cyborg e anche per quella dell’alieno, in un «futuro remoto transumano» che intravvediamo sullo sfondo di una carrellata temporale inaugurata dall’incipit del libro e riassunta in tutte le sue tappe dalla nota finale («dall’ikaria wariootia […] ai Sapiens, dall’uomo moderno al cyborg all’alieno, fino allo stato dell’informazione pura», verso cui tendono l’intelligenza artificiale e il machine learning tematizzati da diverse poesie dell’ultima sezione).
Così Buffoni è ancora una volta capace di allargare i confini del poetabile, di sostenere il confronto con i maestri (per esempio Raboni, citato in un testo) ma anche con gli autori più giovani, con i quali dialoga da sempre grazie al suo ruolo di coordinatore dei «Quaderni di poesia contemporanea»: non a caso proprio dalla premessa al Sedicesimo quaderno proviene una delle prose dell’ultima sezione (Vergogna e disincanto) che parla del disincanto causato dallo scardinamento della centralità del nostro cervello, «alias la sua sostituibilità», provocato dall’opera e dalla figura di Alan Turing, già nota ai lettori.
Altrettanto significative appaiono le tracce di altri poeti più giovani che Buffoni cita espressamente o ai quali allude («Mentre oggi è il campo delle ibridazioni / A destare l’interesse dei poeti / E tiene banco la teriantropia»): se le ibridazioni possono far pensare all’opera e alla riflessione teorica di Laura Pugno, per tre volte i lettori di queste nuove pagine risillabano un verso di Elephant and Castle di Guido Mazzoni, «la vita esiste e non significa». [175]
Al tono lapidario della poesia di Mazzoni e alla sua posizione critica sull’opera in versi di Buffoni riferita poc’anzi sembrerebbe dare ragione l’explicit della Coda del pavone, il quale assicura che La cognizione del dolore di Gadda, con tutto il suo carico di disillusione e amarezza, è «la mise en abyme di questo libro». Eppure anche quest’ultimo passo del lungo itinerario poetico che abbiamo ripercorso si rifiuta di configurarsi come un approdo definitivo e come una tesi unilaterale: proprio la prosa che inizia con la condivisione di quell’assunto di matrice anche leopardiana («La vita esiste e non significa») si chiude infatti con una deduzione che sembra recuperare la saggezza classica e greco-latina [176] che per certi versi risuonava ancora nella Ginestra: «Allora, se ci convinciamo che la vita esiste e non significa, possiamo solo concludere che spetta a noi renderla significativa, ma in punta di piedi, con educazione, gentilezza, civiltà».
È ancora una volta, in fin dei conti, l’oscillazione continua, in atto da più di quarant’anni, fra il celaniano «porsi a fianco» e il «céliniano “chiamarsi fuori” a osservare dall’esterno l’avventura delle specie sapiens sapiens»: [177] di entrambe queste posture, oltre che della volontà di non accontentarsi del già scritto e di spingersi sempre plus ultra, dobbiamo essere riconoscenti a Franco Buffoni, e siamo certi che gliene saremo ancora a lungo.
Note
168 «Vorrei anche ricordare che nei Quaderni sono transitati autori come Guido Mazzoni, Andrea Raos, Andrea Inglese, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, che nei loro libri tendono a tenere insieme prosa e poesia. Io invece tendo a scrivere – magari parallelamente – due diversi libri, uno in prosa e uno in poesia» (Intervista di R. Fiorito, «Menabò», 10-11, 2022, pp. 46-48).
169 E. Pinzuti, Al di là del genere. La di-versificazione della scrittura in Franco Buffoni, in Ead., Narrazioni e generi. Testualità, linguaggio, società, Seri Editore, Macerata 2020, p. 174.
170 «La posizione buffoniana […] è liminare, interstiziale, scomodamente perturbante; le sue opere sono queer nella misura in cui appaiono inusuali, sfuggenti e, appunto, strane per forma, genere, contenuti; grazie a questi tratti, esse smentiscono i rigidi binarismi e confutano ogni definizione essenzialista» (F. Diaco, Genre trouble?, cit., p. 110). Cfr. anche F. Ottonello, Franco Buffoni un classico contemporaneo, cit., pp. 202 e 255.
171 Già nella nota finale di GU (qui a p. 818), Buffoni asseriva: «Non credo che la via d’uscita sia il rifiuto della ragione a favore dell’istinto, e quindi il rifiuto dell’uomo a favore degli animali (zoé vs bíos), come avviene in tanta parte della poesia di Ted Hughes».
172 Cfr. i versi finali di Naturalmente il leone non voleva ucciderlo… di GU:
«A conferma del fatto che una radice del male / È zoologica. Il male che accade / Al ratto di una certa tribù / Se introdotto nel territorio / Di un’altra tribù di ratti».
173 Gli ultimi quattro versi di Che cosa manca agli animali? sono gli stessi di Tra correnti dagli occhi di coccodrillo sazio… di GU: «Ma tigri a caccia di antilopi / Cervi in lotta tra voi / È il “Cristo deriso” che vi manca, / Il dileggio del carnefice». Ne abbiamo parlato sopra, a p. XXV.
174 Sul rapporto tra l’opera di Buffoni e la letteratura classica cfr. F. Ottonello, Franco Buffoni un classico contemporaneo, cit., in particolare il cap. 4 (Un classico contemporaneo. Latinità, storia e scienza, pp. 281-349).
175 Cfr. G. Mazzoni, Elephant and Castle, in Id., I mondi, Donzelli, Roma 2010, p. 49 («e la calma di quando si comprende /che la vita esiste e non significa», vv. 10-11).
176 F. Diaco, Esplorando Betelgeuse, cit., p. 132.
177 GU, p. 197 (nota al testo, qui a p. 818).
Sommario dell’Introduzione di Massimo Gezzi
PLUS ULTRA. L’ITINERARIO POETICO DI FRANCO BUFFONI
Dagli esordi a «Scuola di Atene» (1991): una voce in maschera
La maturità e la trilogia della Bildung: «Suora carmelitana e altri racconti in versi» (1997), «Il profilo del Rosa» (2000), «Theios» (2001)
«Guerra» (2005): la radice storica e zoologica del male
«Noi e loro» (2008): rivendicare un’identità
«Roma» (2009): un libro a forma di città
«Jucci» (2014): il canzoniere di un amore impossibile
Due libri a tema: «Avrei fatto la fine di Turing» e «O Germania» (2015)
Un’incursione nel teatro: «Personae» (2017)
«Iperstratificato» e «definitivo»: «La linea del cielo» (2018)
«Betelgeuse» (2021): un nuovo ciclo scientifico
Il nuovo libro: «La coda del pavone»