di Angelo Castellani
Il libro di Chiara Giorgi Salute per tutti. Storia della sanità in Italia dal dopoguerra ad oggi (2024, Laterza) può essere riassunto come lo sviluppo di un’idea, quella della salute come valore universale, e di come questa aspirazione non sia mai giunta pienamente a compimento, ostacolata da scelte politiche avverse, dalla finanziarizzazione dell’economia e da una privatizzazione sempre più spinta dei servizi pubblici. Il titolo del libro, per quanto lineare, è in realtà una chiave di lettura sia per navigare il lento declino della sanità italiana – magistralmente descritto da Giorgi – sia per comprendere il messaggio politico del testo. L’espressione “salute per tutti” ricorre frequentemente nei vari documenti programmatici che hanno accompagnato riflessioni e implementazione dei vari assetti sanitari nazionali e internazionali[1]. L’autrice evidenzia come queste aspirazioni universalistiche abbiano caratterizzato una moltitudine di progetti tanto globali quanto locali nel secondo dopoguerra, ripercorrendo la storia di come questi ideali abbiano cercato di trovare applicazione nella costituzione del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) e di come troppo spesso siano stati disattesi.
Giorgi riesce ad alternare il contesto internazionale e quello italiano senza che questo si traduca in due discorsi distinti; ogni capitolo è introdotto a partire dal contesto più ampio, necessario per comprendere e contestualizzare gli eventi su scala nazionale. La sua ricostruzione inizia con il piano internazionale del secondo dopoguerra, a partire dalla nascita del National Health Service britannico e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’accento viene posto sul grande contenuto politico di queste prime esperienze, segnate da ideali di universalismo, gratuità, progressività della contribuzione fiscale ed equità, in rottura con il passato. Per l’Italia vengono messe in risalto le origini, radicate nelle Repubbliche Partigiane e nel Comitato di Liberazione Nazionale, di valori come il ruolo attivo dei cittadini a difesa della salute, il decentramento delle organizzazioni sanitarie e il rapporto indissolubile tra medicina e politica. Vengono inoltre sottolineati alcuni punti chiave contenuti nell’Articolo 32, che configura la salute come unico diritto sociale, espressamente fondamentale.
Gli anni ’60 segnano un graduale allontanamento da un assetto sanitario contraddistinto da una moltitudine di casse mutue e di grandi enti previdenziali. Il tema della riforma sanitaria entra nell’agenda della programmazione economica tramite lo Schema di Piano Sanitario Nazionale del 1963: il superamento dell’impostazione mutualistica apre a una concezione integrata della sanità intesa come “prevenzione, cura recupero e riabilitazione, coordinandola con altri aspetti della programmazione: la pianificazione urbanistica, la riforma dell’istruzione, l’organizzazione della ricerca scientifica, la riforma del sistema tributario” (p. 57). L’intento è superare l’assenza di partecipazione democratica tramite la costituzione di un progetto unitario, quello del SSN, capace comunque di dare conto delle specificità territoriali e di dialogare con le realtà locali per assicurare una copertura sanitaria completa a tutta la popolazione. Il Piano ripensa infatti gli ospedali come enti integrati in una rete di servizi sanitari capaci di garantire un indirizzo sanitario unico. L’istituzione delle Unità Sanitarie Locali (USL) – intese come presidi sanitari di base per garantire un accesso diffuso a servizi sanitari fondamentali – è un altro tassello importante in questa direzione. Giorgi dedica ampio spazio a ricostruire l’evoluzione della posizione sindacale sui temi della salute, a partire dalla fase prevalente negli anni ’50 di monetizzazione del rischio e della salute, passando per la maturazione di alcuni dei concetti chiave che negli anni ’60 acquisiranno progressivamente una maggiore centralità come la non delega ai tecnici, la validazione consensuale, l’individuazione dei fattori di rischio, i gruppi omogenei, rimarcando il valore politico e conflittuale della salute.
Gli anni ’70 sono segnati da alcuni disastrosi eventi interni – l’epidemia di colera a Bari e Napoli nel 1973, il disastro di Seveso nel 1976 – e dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, costruito sulla consapevolezza dell’impossibilità di separare nettamente la tutela della salute sul posto di lavoro da quella nei contesti quotidiani di vita. Giorgi ripercorre nel dettaglio il periodo di fermento culturale intorno all’idea di SSN, così come il lungo e travagliato itinerario che ha portato alla sua implementazione istituzionale, cercando di saldare “la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro con quella nei e dei territori, con la qualità della vita della popolazione” (p .121). Le applicazioni concrete di tutti questi ideali, la visione sistemica di salute, l’universalismo, il coinvolgimento diretto di soggettività e territori vengono però delegittimate dopo pochi anni dalla nascita del SSN. Già nel 1979, con la prospettiva della Selective Primary Health Care della fondazione Rockefeller, la “salute per tutti” viene messa in discussione. In generale, gli anni ’80 e gli anni ’90 sono segnati dall’avvento del neoliberalismo e dalla crisi del Welfare State, così come da attacchi frontali alle precedenti concezioni di salute – pubbliche, universalistiche e integrate – ad opera di enti privati, che gettano le basi per percorsi di privatizzazione e finanziarizzazione dei servizi sanitari, i cui effetti sono ancora in corso oggi. Se gli anni ’80 sono comunque attraversati da scontri su posizioni diverse – la carta di Ottawa del 1986, per esempio, cerca di riaffermare una visione della salute universalista, politica e integrata – gli anni ’90 vedono la definitiva sconfitta di queste prospettive e l’avvento di logiche capitalistiche sempre più pervasive e invasive nell’ambito della salute. Per il contesto italiano pesa particolarmente la fine della conflittualità raggiunta nella prima metà degli anni ’70, la deindustrializzazione e il generale ridimensionamento della fabbrica e del protagonismo operaio.
Il contesto italiano segue quello internazionale: già nei primi anni di vita il SSN fatica a decollare, complici tentativi di depoliticizzazione dell’assistenza sanitaria, un paradigma selettivo della salute, una ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato e una conseguente gestione sempre più manageriale dei servizi. Le logiche di mercato entrano sempre più nei piani di attuazione del SSN, soppiantando la prospettiva di salute integrata con logiche di mercato. La riforma sanitaria del 1992 (la “riforma della riforma”) formalizza queste tendenze, costruendosi su tre pilastri: aziendalizzazione, regionalizzazione e privatizzazione. La trasformazione è eminentemente politica: si passa infatti da una sanità come pilastro dello Stato Sociale, il cui obiettivo era erogare servizi accessibili a tutte e tutti in un’ottica di prevenzione e sanità integrata all’ambiente circostante, a un modello condizionato da vincoli di bilancio e finanziamenti. La gestione delle USL, precedentemente affidata ai Comuni, viene demandata alle Regioni, trasformandole in vere e proprie aziende (ASL – azienda sanitaria locale) e aprendo così alla concorrenza del settore privato. Si passa quindi da istituzioni costruite su principi di partecipazione democratica delle comunità locali a imprese orientate a principi manageriali e fedeli alle regole del “libero” mercato. Ma forse il più grande tradimento degli ideali della riforma del 1978 è la rimozione dei poteri di controllo e prevenzione in materia ambientale dalle USL: ciò intacca quell’ideale di salute integrata con l’ambiente circostante, nonché il legame tra nocività industriale e inquinamento dei territori.
Il tentativo della “Riforma Bindi” del 1999 di recuperare l’ispirazione originaria del SSN riuscì a ritardare la oramai avviata trasformazione verso il settore privato della sanità pubblica italiana, senza però riuscire a invertire una tendenza oramai consolidata. Giorgi termina la sua ricostruzione con gli anni Duemila, per l’Italia caratterizzata dalla riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 e da un generale e devastante aumento delle disuguaglianze territoriali. La devoluzione di poteri alle Regioni è avvenuta a scapito di un piano sanitario nazionale coerente, penalizzando le aree meno sviluppate economicamente e intaccando il principio di equità nell’accesso ai servizi sanitari. I passi avanti della “riforma Bindi” vengono smorzati sul nascere, ritarando l’orientamento complessivo dalla centralità dell’intervento pubblico a una concezione individuale della tutela della salute. Tutte queste contraddizioni sono esplose nella gestione della sindemia di Covid-19, mostrando come decenni di tagli, ridimensionamenti e privatizzazioni abbiano minato alla base la capacità del sistema di rispondere efficacemente alle esigenze della popolazione.
La forza della ricostruzione di Giorgi è la profondità dello sguardo, sorretto da una miriade di documenti e di fonti che rendono il testo solido e la proposta interpretativa convincente. L’ampio spazio dedicato a mettere in evidenza i tentativi di costruire e istituzionalizzare un progetto di salute pubblica e integrata con l’ambiente fanno emergere in maniera evidente il fallimento di queste proposte. Un fallimento che non ha nulla di casuale, ma che è anzi frutto di una chiara visione politica che si è strenuamente opposta al valore universale del SSN, preferendogli una proposta di salute individuale, privatizzata e decontestualizzata.
Nota
[1]A partire dal rapporto Beveridge del 1942, passando per le proposizioni della quinta Sottocommissione della Commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato (“La salute è un bene naturale per la società, e per essa lo Stato, deve tutelare in modo eguale per tutti, come diritto essenziale e fondamentale di ogni essere umano e come interessa della collettività”, p.27), fino alla nota La Malfa del 1962 (l’assistenza sanitaria deve “essere ugualmente valida ed efficiente per tutti i cittadini”, p. 48).