di Marco Maurizi

 

Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, 
rubrica a cura di Mimmo Cangiano

 

Introduzione

 

Costruire oggi un ragionamento lucido e critico sulla scuola risulta particolarmente complesso, immersi come siamo in una fase di profonda e convulsa trasformazione geopolitica. Da tempo, del resto, la scuola ha cessato di essere un motore di rinnovamento sociale: si è ridotta a campo di battaglia simbolico, dove si affrontano istanze ideologiche contrapposte che offuscano l’origine materiale dei propri discorsi. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, l’apparente polarizzazione tra conservatori identitari e progressisti inclusivi cela in realtà una profonda convergenza strategica. Nell’epoca neoliberale, la scuola segue traiettorie imposte, che solo un’analisi di classe può rendere visibili: è in questo contesto che si rivela il gioco a somma zero tra la pedagogia liberal e la destra reazionaria, poli complementari di un medesimo orizzonte sistemico.

 

Tuttavia, l’attuale scenario segna un cambio di fase. La globalizzazione che sembrava irreversibile viene ora rimessa in discussione dell’avventuroso “primato della politica” inscenato dall’amministrazione Trump e nuove configurazioni geopolitiche cominciano a delinearsi. In questo quadro, è plausibile attendersi che anche la scuola si allinei docilmente alle nuove direttive esterne, questa volta provenienti da un’Unione Europea disorientata, priva di strategia, ma intenzionata a ridefinirsi in chiave difensiva e identitaria. Il nostro paese vive infatti in pieno la stagione dell’euro-nazionalismo, cioè della  torsione autoritaria del progetto europeo in chiave militarista con i suoi meccanismi di ristrutturazione  politica, economica e ideologica. In questo scenario, tuttavia, la scuola viene coinvolta suo malgrado come uno dei luoghi in cui si rifrangono le tensioni tra blocchi geopolitici e tendenze interne  del capitale. Al tempo stesso, è proprio questa crisi convulsa che rende oggi più chiara la validità delle analisi critiche sin qui sviluppate dalla sinistra di orientamento marxista. Il problema, semmai, è che ci coglie impreparati a ripensare in modo radicale il ruolo della scuola nella fase che si apre.

 

La sinistra pedagogica, col suo libertarismo demagogico, urla al “fascismo” della scuola meloniana, una scuola in cui occorre “credere, obbedire, insegnare”. Peccato che essa da tempo non sappia distinguere il docente sfruttato da un gerarca mussoliniano e che ci abbia abituati alla sostanziale continuità tra “fascismo” e “lezione frontale”. Avendo già quindi spese tutte le proprie cartucce ad impallinare il “docente tradizionale” non solo essa non ha davvero niente di nuovo da dire su Valditara ma non si rende conto che i propri mentori (gli euro-tecnocrati con cui da sempre è alleata) stanno riesumando lo slogan originale e ci conducono a tappe forzate verso una scuola in cui si crede e obbedisce al fine di combattere.

Serve, oggi più che mai, un’analisi materiale capace di andare oltre le narrazioni imperanti e i discorsi retorici sulla cultura, per comprendere il ruolo effettivo che la scuola svolge all’interno dell’apparente conflitto tra una destra liberale in crisi d’egemonia, insidiata da una nuova destra reazionaria che ne contende il primato simbolico, e una sinistra che, liberale anch’essa, si dimostra strutturalmente subalterna e priva di una visione di classe alternativa. È in questo contesto che si gioca la funzione ideologica della scuola, non più pensata come strumento di emancipazione, ma come spazio di legittimazione di nuovi assetti di potere.

 

Non siamo mica gli americani

 

Occorre decostruire i discorsi e le pratiche che arrivano da destra riconducendoli a fattori oggettivi ed economici, perché limitarsi ad urlare al “fascismo” ogni qual volta politiche liberal vengono attaccate non solo non ci permette di comprendere le differenze essenziali per inseguire contiguità inessenziali, ma rischia di consegnarci ad un indistinto fronte “progressista” che cancella i conflitti rilevanti nel nostro campo.

Certo, il linguaggio e la postura della destra americana e di quella italiana sono per certi versi molto simili. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha fatto dell’attacco alla “woke education” una delle sue bandiere programmatiche. L’eliminazione dei contenuti relativi a identità di genere, storia afroamericana critica (Critical Race Theory), multiculturalismo e educazione all’inclusione è stata perseguita attraverso ordini esecutivi e la richiesta di abolizione del Department of Education, istituito nel 1979 sotto la presidenza Carter, accusato di essere un apparato ideologico progressista e inefficiente. Non è difficile trovare un analogo in Italia nei vari manifesti di Galli della Loggia e di Ricolfi-Mastrocola sulla scuola “inclusiva” che sfavorisce i migliori.  Allo stesso modo, la critica del modello pubblico di scuola laica e l’apertura ai privati rappresenta un refrain ormai storico anche della destra italiana. Ma qui finiscono le analogie rilevanti.

 

In questo contesto, infatti, la retorica scolastica della destra assume configurazioni materiali radicalmente diverse. Negli Stati Uniti, la scuola pubblica è finanziata in gran parte dai singoli Stati, in un sistema altamente diseguale, dove il Dipartimento federale dell’Educazione funge solo da coordinamento e non da reale centro di spesa. Esso gestisce appena il 10% del finanziamento complessivo all’istruzione pubblica, essendo essenzialmente  responsabile della distribuzione di fondi strategici per programmi di inclusione (studenti disabili, DSA, sostegno linguistico, ecc.; in questo senso la sua abolizione, senza una compensazione normativa statale, metterebbe a rischio milioni di studenti in condizioni di fragilità). La spesa complessiva per l’istruzione, pur variando a livello locale, è comunque più alta rispetto all’Italia, ed è destinata anche ad infrastrutture e tecnologie. Al contrario, in Italia, circa il 90% della spesa pubblica per l’istruzione è assorbita dal pagamento degli stipendi del personale. Non solo quindi il ruolo dello Stato rispetto alle questioni scolastiche appare diverso e incomparabile ma la diversa struttura dell’investimento statale fa sì che in Italia qualsiasi taglio alla spesa pubblica costituisca un attacco diretto alla quantità e qualità del lavoro docente. In assenza di investimenti strutturali, ogni riduzione di risorse si traduce in una gestione “razionale” del calo demografico, che comporta l’accorpamento di classi, la restrizione dell’organico, la precarizzazione del personale. Situazione che, come vedremo, non è minimamente modificata dagli attuali investimenti del PNRR sull’innovazione didattica.

 

Anche le battaglie ideologiche si declinano in modo differente. L’attacco all’inclusione negli USA riguarda la penetrazione della Critical Theory e di interpretazioni radicali di tematiche legate al genere e alla razza (ciò che i repubblicani chiamano “marxismo culturale”), mentre da noi l’obiettivo polemico è un mitico “Sessantotto” portatore di lassismo nelle valutazioni del declino della scuola “tradizionale” (“gentiliana”). Inoltre,  la centralità dello Stato è un fattore che rende diverso lo scenario delle politiche scolastiche, così lo è la centralità della Chiesa cattolica. In Italia, la difesa della scuola pubblica è storicamente legata alla necessità di affrancarla dal controllo confessionale e da logiche privatistiche. Negli Stati Uniti, viceversa, la cosiddetta “autonomia scolastica” è parte strutturale del sistema, come pure l’idea di concorrenza tra scuole (pubbliche e private) e la valorizzazione del merito, elementi che godono di un consenso diffuso tra democratici e repubblicani. Non a caso, l’homeschooling, che negli USA rappresenta un fenomeno consolidato e culturalmente trasversale, non trova un corrispettivo diretto in Italia, dove anzi è rivendicato talvolta da settori progressisti o libertari come forma di rifiuto della scuola centralistica e “autoritaria”.

 

Il contesto materiale e strategico

 

Per comprendere il diverso ruolo che la scuola e le politiche educative svolgono negli Stati Uniti e in Italia, è necessario allora spostarsi sul quadro più generale delle strategie adottate dalle rispettive destre nei confronti della ristrutturazione del capitale. Il trumpismo rappresenta infatti una nuova sintesi del capitale monopolistico: intende fondere la logica protezionistica del capitalismo territoriale con la potenza espansiva del capitalismo digitale. Non si tratta di un ritorno al passato (seppure un elemento nostalgico è presente a livello retorico: Make America Great Again), ma di una riorganizzazione autoritaria, selettiva, tecnonazionale del dominio capitalistico. Non si tratta di una semplice variante politica o ideologica del conservatorismo americano, ma di un progetto organico (per quanto contraddittorio) che riflette una ridefinizione dei rapporti tra le differenti frazioni della borghesia statunitense nel contesto della crisi del dominio globale americano. Trump rappresenta una frazione specifica del capitale: quella radicata nell’America profonda, nei settori manifatturieri, estrattivi, agricoli e industriali tradizionali. Questa borghesia – offuscata durante il lungo ciclo neoliberale dominato dalla borghesia costiera liberal e globalista – trova in Trump la possibilità di costruire un nuovo blocco egemonico. La borghesia che ha sostenuto il processo di globalizzazione neoliberale è radicata nelle grandi città universitarie, nella finanza, nei media, nella cultura, nella Silicon Valley. Il suo orizzonte è transnazionale, multilateralista, basato su un’ideologia dei diritti umani e dell’apertura dei mercati. Trump ha costruito la sua forza come opposizione esplicita a questa élite.

 

Uno degli elementi che però ha maggiormente allarmato il mondo liberal e progressista negli ultimi mesi è stato il progressivo riallineamento di una parte significativa del capitale high-tech statunitense con il progetto trumpiano. Questa convergenza, per quanto non ideologica, segnala una riorganizzazione profonda del blocco egemonico americano e mostra quanto sia difficile interpretare il momento presente, segnato da contraddizioni e transizioni irrisolte. Potrebbe essere una convergenza di convenienza contingente (si veda il recente sfilarsi di Musk dalla guerra commerciale a colpi di dazi) ma con qualche elemento di oggettività: il capitale high-tech, pur deterritorializzato nella sua logica, ha bisogno di uno Stato forte che lo sostenga “proteggendolo” dalla concorrenza cinese, dalla pressione giuridica e fiscale europea, dai vincoli ecologici. L’intervento di JD Vance al summit di Parigi sull’AI ha fatto scalpore presso la borghesia liberal europea, accusata indirettamente di “censurare la libertà di opinione”, ma era assolutamente cosciente dei propri intenti strategici.

 

Su questo ci basterà confrontare il discorso con cui il Ministro della Cultura Alessandro Giuli ha presentato il proprio programma il 9 ottobre scorso e l’intervento del Vicepresidente americano all’American Dynamism Summit il 18 marzo 2025: entrambi centrati sul problema dell’innovazione e del progresso, tema spinoso per tutti i “conservatori”. Il problema della tecnica, afferma vacuamente Giuli, è sottrarsi all’alternativa tra “l’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione, e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa”. Il discorso di Vance anche quando alla lettera dice le stesse cose, cioè la necessità di accogliere l’innovazione senza farsene travolgere, in realtà formula la questione in termini più concreti, sociali: Vance parla della necessità di ricomporre la frattura all’interno del campo conservatore tra “populisti” e “tecno-ottimisti”, nel tentativo di stabilire un’alleanza tra settori finora avversi del capitalismo monopolistico e la classe operaia. È molto difficile, ovviamente, che l’operazione di Trump possa effettivamente riuscire: i conflitti interni al capitale non si lasciano addomesticare dalla sola volontà politica, e neppure gli USA sono in grado di governarne integralmente gli esiti. Ma il rapporto con la working class è parte strutturante di questo discorso ed appare in forma molto più esplicita e sistematica che negli analoghi della destra italiana.

 

Ed è in questo rapporto specifico che le politiche scolastiche statunitensi si mostrano parte di un progetto più ampio di riorganizzazione ideologica e territoriale. L’attacco trumpiano all’inclusione ha colpito specifici istituti legislativi (come le politiche DEI: Diversity, equity e inclusion) introdotti dalle amministrazioni democratiche e che hanno avuto una pervasiva e problematica attuazione negli USA e, di riflesso, nel resto del mondo. Ora, non bisogna aderire al trumpismo per riconoscere  che il Partito Democratico e le élite liberal considerino la scuola anche come apparato di legittimazione. La battaglia culturale dei democratici dalla scuola, all’accademia, ai media e ai luoghi di lavoro si incentra su una solidarietà simbolica e moralistica, che lascia intatta la natura competitiva, selettiva e diseguale della realtà economica. Il suo illuminismo e le sue battaglie civili a colpi di regolamenti e ortopedismo linguistico costituiscono delle forme di universalismo astratto, cioè la proclamazione di valori universali slegata dalle condizioni materiali della loro realizzazione. Esso censura a priori ogni formulazione di classe delle questioni legate al “potere” (e dunque sposta l’empowerment in una dimensione sostanzialmente immaginaria). L’accesso delle minoranze e delle fragilità ad una piena “cittadinanza” attraverso la  difesa giuridica e culturalista non intacca cioè gli antagonismi strutturali di sistema. Come abbiamo già visto, non a caso, le riforme scolastiche democratiche non hanno mai cercato di superare il particolarismo e le disparità economiche dell’istruzione nei singoli Stati, gli interventi di “inclusione” e “promozione” sociale sono sempre stati pensati su base individuale, con la stessa idea di merito e competitività condivisa dai repubblicani e dalle élites liberal europee. Il diffuso sostegno di settori anche non bianchi e maschili della classe lavoratrice a Trump mostra quanto la sua retorica populista abbia fatto breccia in una insoddisfazione per le politiche sociali “ipocrite” del Partito Democratico e il settore di capitale che esso rappresenta.

 

In Italia, le battaglie sulla scuola si muovono su un terreno completamente simbolico (il che non significa che non producano effetti disastrosi e reali): la retorica del merito, dell’identità, della disciplina serve a coprire l’incapacità di proporre qualsiasi visione realmente alternativa alle politiche neoliberiste finora dominanti. Le linee guida di Valditara che fondono aziendalismo e celebrazione del Made in Italy, le chiacchiere sull’identità storica e il patriottismo, le scomposte campagne contro lo schwa o il Sessantotto sono espressioni di un nazionalismo tronfio e retorico, privo però di una base materiale e quindi di un vero orizzonte strategico. In questo contesto, parlare di riforme “fasciste” concede all’avversario più di quanto meriti. Come ha osservato acutamente Daniele Lo Vetere, dentro le linee guida c’è un po’ di tutto (personalismo, storicismo eurocentrico ecc.) e sicuramente l’idea di reintrodurre il latino alle medie ha qualcosa di nostalgico e consolatorio: ma l’impressione che se ne ricava è quella di un atteggiarsi e di un agitarsi senza scopo. E non potrebbe essere altrimenti. Il governo Meloni, proprio in conseguenza della propria pesante eredità neofascista, opera all’interno di vincoli molto rigidi, imposti dalla subordinazione politica ed economica all’Unione Europea e alle sue politiche liberiste.

 

Ma siamo purtroppo europei in riarmo

 

Il problema è che queste politiche stanno a loro volta cambiando radicalmente. Dopo la breve fase espansiva del “keynesismo sanitario” che ha caratterizzato la gestione pandemica in Europa, la nuova traiettoria intrapresa dalle istituzioni europee si configura come un passaggio verso una sorta di “keynesismo militare”. Un segnale inquietante di questa traiettoria viene dalla Polonia, dove sono state introdotte ore di addestramento militare per gli studenti sottraendole all’educazione sanitaria: un anticipo di ciò che potrebbe diventare modello europeo, soprattutto sotto l’influenza crescente dei paesi baltici e centro-orientali.

C’è un evidente cambio di paradigma: dagli investimenti pubblici legati alla salute e alla coesione sociale, si passa a un investimento crescente nella difesa, nella sicurezza e nella costruzione di un’identità europea intesa come bastione contro le “minacce” globali. Nel discorso dominante, questa fase espansiva di spese belliche si accompagna alla promessa di una ripresa economica e di una riaffermazione geopolitica e culturale europea.

 

Questo progetto rappresenta il tentativo delle élite europee di rilanciare un’industria militare continentale capace di competere con le potenze globali, riducendo la dipendenza strategica dagli Stati Uniti. La rottura è avvenuta perché queste élite rappresentano la stessa frazione di capitale monopolistico e la stessa borghesia d’Oltreoceano attualmente sotto attacco dall’Amministrazione Trump. Tale progetto si scontra tuttavia con i limiti strutturali dell’Unione Europea: l’assenza di una base produttiva integrata (cioè la necessità di “costruire catene del valore paneuropee”), la frammentazione politica, il ritardo tecnologico. La retorica della crescita, degli investimenti e della sovranità maschera la realtà di un continente in crisi, incapace di ridefinire il proprio ruolo nella nuova geografia del capitale globale. In preparazione di questo sforzo l’Europa è costretta a rifugiarsi in un orizzonte di valori e di cultura puramente immaginario.

 

Questo spiega la paradossale convergenza tra il linguaggio della destra sovranista e quello della sinistra liberal sui temi centrali dell’identità europea. Nella parte storica delle Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e per il Primo ciclo (evidentemente stese da Ernesto Galli Della Loggia) appare, come noto, l’affermazione apodittica secondo cui “solo l’Occidente conosce la storia”. Ciò viene inteso non in senso dialettico e concreto (si veda l’affermazione di Marx “La storia universale non è sempre esistita; la storia come storia del mondo è un risultato”) ma metafisico e astratto: la scuola meloniana intende essere strumento per il recupero del “senso della nazione”, un “noi” che si radica in una tradizione storica e storicistica e si contrappone agli “altri” privi della stessa problematica coscienza di sé. Ciò che sorprende è che, pochi giorni dopo la pubblicazione del documento, Roberto Vecchioni – cantautore e docente simbolo della sinistra  – sia intervenuto nella manifestazione a favore del riarmo europeo con un discorso in cui, nel tentativo di contrapporre l’identità europea, “noi”, alle barbarie degli “altri” (chi? russi e americani?) ha evocato una genealogia culturale fatta di grandi nomi (Socrate, Cartesio, Leopardi…) in un rigurgito di euro-nazionalismo dal volto umanistico. Le classi dirigenti europee, lo sappiamo, non hanno la stessa passione per i classici: si rifugiano in una visione tecnocratica, in ideali astratti ed efficientisti, accarezzano il concetto di una “cittadinanza democratica” in cui gli europei divengono subalterni consumatori di una cultura sempre più diafana e posticcia. Ma la sinistra liberal, stretta tra il mostro autocratico trumpiano e quello putiniano, vi si consegna integralmente.

 

Diritti e moschetto: europeista perfetto!

 

L’Unione Europea promuove infatti da decenni con insistenza un modello educativo fondato sull’idea di “cittadinanza attiva”. Questo paradigma, ha mirato a sostituire le finalità nazionali dell’istruzione con un’identità  sovranazionale, costruita su valori condivisi: diritti umani, pluralismo, democrazia, sostenibilità. Se assomiglia all’agenda della borghesia liberale americana globalista e del settore di capitale monopolistico da essa rappresentata è perché sono la stessa cosa.

Questa ideologia della cittadinanza ha avuto due obiettivi principali: da un lato, consolidare un ethos europeo post-nazionale in grado di legittimare la costruzione dell’UE come entità politica; dall’altro, fornire una risposta culturale alle sfide della globalizzazione neoliberale, nella forma di una “coesione sociale” compensativa. Tuttavia, nella nuova fase apertasi con la pandemia e la guerra in Ucraina, questa ideologia mostra la sua vera natura: da strumento pedagogico per l’integrazione si trasforma in dispositivo di difesa e di chiusura. La “cittadinanza europea”, lungi dall’essere il fondamento di una nuova democrazia transnazionale, si traduce in  apparato simbolico per differenziare l’Europa dai suoi “nemici”: la Russia putiniana, l’America trumpiana, la Cina autoritaria. Le recenti risoluzioni approvate dal Parlamento europeo indicano esplicitamente che il sistema educativo deve servire alla “resilienza” democratica e alla prevenzione della “disinformazione” ostile. In un’Europa che si arma e si chiude, l’ideologia della cittadinanza si trasforma ipso facto in nazionalismo continentale, un euronazionalismo fondato sulla selezione di valori e culture accettabili.

 

Inevitabilmente, la scuola sarà sempre più incaricata di formare cittadini europei non in senso “critico” (qualsiasi cosa questo volesse dire prima), ma in senso adattivo e normativo: critici sì, ma dell’altro dall’Europa intesa come unico orizzonte valoriale, istituzionale ed economico. In questo quadro, la sinistra liberal si trova in una posizione di completa subordinazione. Essa ha fatto propria la retorica europea della cittadinanza, vedendola come alternativa al sovranismo nazionalista, ma non ne ha mai interrogato le basi economiche e geopolitiche. I suoi discorsi sui diritti e sulla cultura si prestano perfettamente a una funzione ideologica conservatrice: difendere l’Europa “dei valori” senza mettere in discussione l’Europa dell’austerità, del controllo, delle disuguaglianze strutturali.

 

Il PNRR e la vera gestione autoritaria della scuola

 

Questa convergenza avviene a livello di strutture produttive e redistributive. Non è un caso che i pedagogisti anti-autoritari (cioè essenzialmente anti-autonomia dei docenti lavoratori) non sappiano proferire verbo quando ad essere calata dall’alto è la parola d’ordine della “nuova” educazione europeista e sedicente “democratica”. Si veda la sostanziale continuità tra destra sovranista e sinistra liberal per quanto concerne il PNRR.  La logica che guida la distribuzione e l’utilizzo di questi fondi risponde a criteri tecnocratici e centralizzati, imposti dalla Commissione Europea e accettati integralmente prima dal governo Draghi e poi, senza soluzione di continuità, dal governo Meloni. Nonostante la retorica della “disciplina” e della lotta contro la scuola “buonista”, quest’ultimo ha proseguito nell’attuazione del piano secondo le medesime logiche di efficientamento e subordinazione del lavoro docente.

 

La gestione del PNRR nella scuola rappresenta uno dei nodi più visibili della  governance educativa europea: le scuole non sono libere di decidere come impiegare i fondi, ma devono attenersi a bandi e progetti con obiettivi vincolanti, calibrati su standard europei e su indicatori quantitativi (digitalizzazione, STEM, innovazione metodologica, contrasto alla dispersione scolastica). In molti casi, i collegi dei docenti sono stati esautorati, e le scelte progettuali sono state imposte dalle dirigenze scolastiche sotto la pressione degli uffici scolastici territoriali o del Ministero. Questa gestione autoritaria dei fondi pubblici ha infatti introdotto la possibilità di commissariamento delle scuole che non si adeguino ai cronoprogrammi previsti per l’attuazione dei progetti PNRR. Il Ministero può intervenire direttamente, sospendendo l’autonomia delle scuole e affidando la realizzazione dei progetti a dirigenti esterni. Di fatto, l’autonomia scolastica, volano delle politiche scolastiche liberiste, viene esautorata laddove rischia di vedere il corpo docente opporsi alle direttive europee. Quando si tratta di affermare le politiche di digitalizzazione e l’educazione laboratoriale le scuole diventano terminali amministrativi di strategie decise altrove, prive di potere decisionale reale.

 

Dal confitto in classe al conflitto di classe

 

Di fronte alla incipiente trasformazione autoritaria del sistema scolastico europeo e alla normalizzazione ideologica delle narrazioni identitarie, la pedagogia progressista appare oggi strutturalmente impotente. La sua lotta contro l’autoritarismo “in classe” è fuori fuoco, cieca e oggettivamente reazionaria. Lungi dal costituire un fronte critico o alternativo, essa tende a ricalcare le logiche e gli obiettivi della nuova governance educativa.

Le parole d’ordine del discorso progressista sono state sistematicamente cooptate all’interno dell’apparato ideologico dell’UE. La promozione delle “competenze sociali e civiche”, delle “life skills”, dell’“educazione al rispetto” e della “valorizzazione delle differenze” attraverso dispositivi valutativi, percorsi di aggiornamento docenti, attività extracurricolari e progetti finanziati con fondi europei che seguono modelli standardizzati e che sterilizzano ogni possibilità di conflitto e trasformazione assumono oggi un significato politicamente sempre più autoritario. In realtà perché lo hanno sempre avuto: nel momento in cui la sinistra liberal cede alle lusinghe del bellicismo intransigente cade anche la foglia di fico di un linguaggio che di “inclusivo” e “democratico” aveva solo la vuota parvenza.

 

Per questa ragione, non è sufficiente denunciare le derive autoritarie o i simboli reazionari. Occorre rimettere al centro l’analisi materiale del sistema educativo come parte della ristrutturazione capitalistica globale. Solo una teoria critica che sappia leggere le trasformazioni dell’istruzione nel quadro dei rapporti di produzione e delle lotte tra blocchi imperiali può offrire strumenti per un progetto alternativo. Per capire cosa succede realmente in classe bisogna uscirne, guardare ciò che avviene nella società a livello di classe. Solo una ridefinizione radicale della funzione educativa come pratica collettiva di trasformazione può riaprire lo spazio per una scuola pubblica democratica. Questa ridefinizione implica un passaggio dalla difesa dell’inclusione all’organizzazione del conflitto, dalla resistenza morale alla costruzione di soggettività antagoniste, dalla cultura come patrimonio e consumo alla cultura come luogo di emancipazione collettiva. Implica una nuova pedagogia. E una nuova sinistra.

10 thoughts on “All Quiet On The School Front. L’educazione nella nuova fase di transizione globale

  1. Anzitutto manifesto il mio apprezzamento per l’articolo di un autore che non conosco e che, nei limiti concessi dal tempo, cercherò di approfondire. “Per capire cosa succede realmente in classe bisogna uscirne, guardare ciò che avviene nella società a livello di classe.” La chiusa dell’articolato saggio è efficace. Non posso valutare con cognizione di causa le affermazioni relative alla realtà statunitense. Tuttavia, in termini generali e su un piano di intervento nella società civile, riformulerei la frase riportata nel modo seguente: “Per capire cosa succede realmente in classe bisogna uscirne, guardare ciò che avviene nella società alla classe.”
    Mi pare che la realtà di un sentire comune si sia erosa anche a causa di una sinistra poco attenta a una proposta politica autonoma e, soprattutto, a un modo di fare politica meno gridato — distante dallo stile dell’ingiuria, diffusosi in Italia poco prima di Tangentopoli e poi trasformatosi in una conduzione del dibattito da talk-show, priva tanto di contraddittorio documentato quanto di argomentazioni di ampio respiro.

    L’operaio, il contadino, ma anche il piccolo borghese, non sono stati sostituiti da figure dal profilo riconoscibile, se non in un vago riconoscimento di un ecologismo minimalista e nella necessaria accettazione della tecnica. Se questo è vero, allora si dovrebbe lavorare alla creazione di soglie sulle quali far indugiare i soggetti, affinché — date certe coordinate spazio-temporali — possano decidere come costruire la soglia in cui si trovano e verso quale direzione varcarla.
    Ho cercato, per più di vent’anni, di costruire un progetto inclusivo in forma problematizzante, ma né l’accademia né il mondo della scuola hanno voluto darmi ascolto.
    Mettere strategicamente in tensione il Gregory Bateson di Culture Contact and Schismogenesis con il Georg Simmel di Exkurs über den Fremden, leggerli alla luce delle prospettive sui nomi propri e in controluce rispetto ai pronomi sistematizzati da Benveniste; usare il Mario Benedetti di El desexilio, l’Arjun Appadurai dei sei -scapes (da Modernity at Large), il Vilém Flusser di Gesten come cartine al tornasole, capaci di far emergere i gradienti di senso nei processi di soggettivazione e dislocazione; immergere il tutto in un “bagno di reazione” costituito da una miscela strutturata sul calibrato dosaggio di Homi K. Bhabha (How Newness Enters the World) e François Jullien (L’écart et l’entre), potrebbe costituire un orizzonte teorico adeguato per la costruzione di una rete di concetti problematizzante, capace di riaprire il campo della possibilità di un’educazione che sia invito alla presa di posizione per la vita intera — e soprattutto al di fuori delle pareti della classe. Non un’ontologia, ma una rete di campi di forze.
    Ma ormai, per me, i tempi sono tramontati. Spero che altri raccolgano la sfida di creare le condizioni di possibilità per un nuovo soggetto politico, all’altezza delle urgenze di una società che deve cambiare, ma che è ancora guidata da soggetti restii a cedere il passo. Con gratitudine
    Mario Rossi

  2. Apprezzo molto l’impostazione di classe di questo intervento, che mi sembra riesca a fornire un quadro interpretativo unitario. Una delle ragioni per cui la didattica ‘progressista’ finisce per essere assorbita dall’impianto ideologico UE, cioè liberista, è proprio il rifiuto di analizzare in termini materiali i processi di cambiamento della scuola. Del resto le convergenze su alcune questioni come la didattica delle competenze tra la pedagogia progressista e quella conservatrice alla Bertagna sono un’eloquente testimonianza della sua indifferenza alla posizione della scuola negli attuali rapporti di produzione

  3. “derive autoritarie”, “simboli reazionari”, “analisi materiale del sistema educativo come parte della ristrutturazione capitalistica globale”, “trasformazioni dell’istruzione nel quadro dei rapporti di produzione e delle lotte tra blocchi imperiali”, “progetto alternativo”, “cosa succede realmente in classe”, “ciò che avviene nella società a livello di classe”, “funzione educativa come pratica collettiva di trasformazione”, “scuola pubblica democratica”, “passaggio dalla difesa dell’inclusione all’organizzazione del conflitto, dalla resistenza morale alla costruzione di soggettività antagoniste, dalla cultura come patrimonio e consumo alla cultura come luogo di emancipazione collettiva”, “nuova pedagogia”. E una nuova sinistra.

    Al tecnoqualcosa che sarei io arrivano ragazzi senza alcun radicamento a parte il contesto familiare e di quartiere, rincretiniti dai social, cognitivamente al livello di una terza media di cinquanta anni fa. Un pochetto meglio le ragazze, almeno quelle presenti a loro stesse grazie all’imprinting familiare. Non metto becco sull’analisi di questo saggio, mi sia concessa terra terra qualche perplessita’ sulla “proposta” di come formare ragazzi/e consapevoli di quel che esiste fuori del loro orizzonte e in grado di rendersi autonomi… adulti, magari.

  4. L’uso parossistico di universalia consente di non entrare mai nel merito dei problemi della scuola, che sono non da oggi chiari a tutti: diplomifici, docenti in balia di studenti impuniti, genitori aggressivi, studio approssimativo, scarsa padronanza della lingua italiana, difficoltà dei ragazzi nell’esprimere pensieri complessi, competenze di scrittura inesistenti, scarsa concentrazione, idolatria dei mezzi elettronici, illusione propalata anche dai piani alti che lo studio non costi fatica, parole crociate in classe, giustificazionismo eretto a sistema, perdita di aura dei classici, bullismo, licei di prima classe frequentati dai figli di papà e di seconda o terza multietnici e all’acqua di rosa.
    Non saranno i risorti discorsi sui rapporti di produzione a spezzare il senso di accerchiamento soffocante che attanaglia gli insegnanti costretti a promuovere tutti in nome dell’inclusivo “il ragazzo si è impegnato, va premiato”, o del ministeriale incoraggiamento ad ogni esame di Maturità farsa in stile Fedeli:”Dai ragazzi, ce la farete, io sono con voi!”.
    Il PCI fu costretto dalle responsabilità di governo subito dopo la fine dell’ultima guerra mondiale a discutere di cose concrete: latino sì o no, e se Marchesi (sacrosantemente) ribadì la sua difesa della lingua di Cicerone, Antonio Banfi espresse la sua contrarietà; si puo dire che, visti i risultati della sua abolizione nella scuola media, la questione sia ancora attuale.
    Si parli di queste cose, se il tema è la scuola.

  5. Ovviamente il dilagare dei metodi quantitativi nella valutazione dell’apprendimento ha qualcosa di inumano e costrittivo, ideologicamente orientato, e da sempre la scuola è, anche, il luogo di riproduzione (per conformarmi al lessico del dibattito) della classe dirigente: ma sia che si voglia formare prima che uno specialista un cittadino consapevole, dotato di cultura generale e degli strumenti intellettuali con cui leggere e interpretare il mondo, magari imbevuto di cultura della crisi, sia che si desideri al contrario preparare dei tecnici adoratori del pil e in grado di competere (in inglese) nel mercato globale, sia infine che si pensi a instillare negli studenti i valori della tradizione nazionale, della guerra, di Dio, della famiglia, in ogni caso la scuola DEVE tornare ad essere il luogo del rigore e della serietà e non dell’irresponsabilità. Un conto è il paese dei balocchi, un altro conto è la scuola. Essa prima prepara alla vita, che non fa sconti, meglio svolge la sua funzione. In questo i classici possono indicarci ancora e sempre la via.

  6. Luca Fiocchi Nicolai, tu sei del tutto neutrale su se si tratti di insegnare nazionalismo patria e famiglia oppure umano a tutto tondo ma dai priorità a rigore che contrapponi al 6 politico, inclusicità, Fedeli, anche 68? Se critixhi il 68 lo fai costruttivamente e vedi validità in parte delle riforme che richiedeva in termini di autorità indiscutibile, mettendo il tutto in una prospettiva meno polarizzata e più condivisibile? Porrei meno l’accento personalmente su contrappisizioni all’inclusione come contrapposte al merito, secondo me nate da un malinteso. Non mi pare poi questo ciò che ha condotto alla clientelizzazione e al bullismo verso gli insegnanti che ora di dice di voler difendere, appropriandosi del tema, non te dico.
    Quanto all’articolo sulla questione liberali (o isti? è un po fivers) dei diritti umani, dell’ortopedizzazione (Fuffaro?) credo che si tratti più che altro di assicurare questi valori come patrimonio comune meno vulnerabili all’altrnanza tra socialisti e approcci più liberali rimanendo all’interno di un paradigma costituzionale, cosa che quindi è stata costruita dal populismo, in presenza di liberali, come una ipocrisia, tipo che nella crudezza del capitalismo ci sia spazio per considerazioni etiche come inclusione minoranze, lgbt etc. contrapposte a diritti sociali “guarda tu non sei protetto da questo abbraccio perche etero bianco cattivo” mentre si trattava più che altrp di protezione da svantaggi addizionalo. chiaro che in un contesto liberale, specie se liberista, spiccano contraddizioni tipo “e la bruttezza non è inclusa tra le discriminazioni” ovvio quindi che la naturale conclusionw di questo progresso sono appunto più protezioni e solidarietà e lotta a disuguaglianze sistemiche, che fa a botte con il liberismo.

  7. Rispondo ad Anto per la parte che mi riguarda.
    Sono per una scuola pubblica rigorosa e non demagogica, che non rompa le radici colla tradizione umanistica, ridia valore alla selezione del migliori (che esisteranno sempre in qualunque sistema sociale), e centralità al silenzioso studio individuale, senza telefoni o tablet, e restituisca autorevolezza e potere sanzionatorio agli insegnanti.
    Il discente che entra in un edificio scolastico deve sentirsi intimidito e avvertire la sacralità del luogo, non pensare di essere alla pari con professore o in un centro sociale. Deve comprendere l’importanza dell’esperienza formativa e appassionarsi allo studio.
    I libri di testo di una volta, dai titoli sobri ed essenziali, erano in certi casi vere e proprie opere letterarie (De Sanctis, Rossi, Russo, Sapegno, Marchesi, Paratore, Saitta, Villari) degne di far parte di una biblioteca selezionata.
    Quelli di oggi, dai titoli suggestivi quanto improbabili, dai testi scheletrici e impersonali, dalle copertine colorate e plastificate, infarciti di box di approfondimento nel migliore dei casi inutili, non valgono le vecchie enciclopedie per ragazzi della De Agostini.
    Se Luigi Russo sfogliasse uno di questi testi si rifiuterebbe di proporli come sussidiari per la scuola media inferiore.
    Quanto al 68, fu un movimento di origine borghese rivoluzionario e dai caratteri molteplici i cui esiti, a parte gli eccessi romantici o francamente nichilisti, e per una eterogenesi dei fini, sono serviti anni dopo… a Luigi Berlinguer per liquidare i vecchi ordinamenti e inaugurare un nuovo modello di Università che consente anche agli illetterati di arrivare alla Laurea.
    Se io facessi l’insegnante e, durante una lezione, mi trovassi a riprendere un alunno distratto o persino irrispettoso intento a bofonchiare dal suo ultimo banco, lo inviterei a sedersi al mio posto per dargli la possibilità, e l’onere, di fare lui la lezione.

  8. Grazie! Allora, colgo lo spirito positivo della replica, anche nella sua severità, quello che dico sempre è che di tutto, nella sua giusta misura, si può far buon uso e, per forza di cose la scuola deve integrare sia la rottura defli schemi e di messa in discussione, ma anche di quali schemi di stia parlando in primo luogo, quindi senza nichilismo iconoclasta bastian contraria che è stata secondo me una deriva nella critica a un sistema che andava comunque ripensato,
    e che, intercettata dai moderni populismi ci ha per dire riportato il morbillo, perche non distingue più critica al sistema e all’evidenza fattuale e as ogni criterio obiettivo aldilà delle costruzioni culturali.
    perchè almeno nella percezione c’era che bisognava obbedire perchè sì, che donne e uomini dovevano fare questo e non quest’altro. Al perchè sì non va certamente contrapposto un perchè no. Certo il perchè no di applica a molti discorsi di autonomia, del corpo, che sono molto importanti non contrapponibili agli appelli e richiami ad una serietà anche disciplinata

    “Il discente che entra in un edificio scolastico deve sentirsi intimidito e avvertire la sacralità del luogo, non pensare di essere alla pari con professore o in un centro sociale.”
    certo, ovviamente questa è una parte, più che altro deve imparare l’importanza della conoscenza, la sua fragilità con l’esempio della biblioteca d’Alessandria in fiamma, oppure l’Isis con Palmira e il Bardo e, spero non sia controverso il confronto, Trump che elimina dagli archivi telematici statali le misurazioni sulla Co2 e il cambiamento climatico, come ne fosse il padrone.
    Quindi la soggezione nel senso della sacralità in questo senso, la trovo come qualcosa che un ragazzo potrebbe tranquillamente capire trovando concretezza o collegamenti con cose che li incuriosirebbero.
    Attenzione al rispetto basato su gerarchie, chiaramente certo un insegnante non può essere un pari, a cui parli come uno del centro sociale, senza offesa, almeno per me, per il centro sociale in sè, come luogo di aggregazione su cui critiche costruttive sono sempre benvenute. Ma al tempo stesso se impari che devi rispettare perchè sennò sei punito, impari solo che devi rispettare chi è forte abbastanza e non invece per principio, quindi ti puoi sentire libero di bullizzare il ragazzo tranquillo che non reagisce, per questo non condividevo nè Salvini nè Serra (anche se lui parlavq piu di servizio civile) quando parlava di leva obbligatoria.
    Potrei essere più giovane e quindi non conoscere bene i trascorsi, hai nominato Luigi Berlinguer e Fedeli, saltando però Gelmini, forse perchè non includibile in quelli di ispirazione sessantottina? Fedeli era poi ministro con Renzi penso, non ci vedo molto quindi di “tradizione sessantottina” . L’esempio che fai sul Pci, non ho elementi per capire se sarcastico o no, sul latino. Do atto che capisco vuoi andare un po controcorrente e magari alla classica protesta in parte di maniera, ma anche liberatoria libertaria, umanista contro la scuola come istituzione che sforna tanti soldatini acritici (iperbole di approcci che avevano questa tendenza), tu dici perché no, facciamo gli avvocati del diavolo, la vita è dura e bisogna formare ad essa, no ok non dici questo, parli di un più condivisibile formare alla vita che in fondo erano gli approcci un po’ aziendalisti della “buona scuola”
    ok leggo che Fedeli è stata ministra pressoché un solo anno con il governo Gentiloni ed è stata criticata perlopiù da Adinolfi e associazioni per l'”ideologia gender” ma anche di non avere conseguito un diploma, critica forse più rilevante anche se usata qui a rafforzo della prima. Questo però perchè fu maestra delle materne quando ancora non era necessario.
    Con Renzi c’era invece Stefania Giannini, che io ricordavo erroneamente esserlo con Monti, essendo invece allora candidata ed eletta con la sua lista “Scelta Civica”, prima di passare al Pd con Renzi e diventare ministra :).

    Di certo può sembrare controcorrente anche dire che c’è un migliore, da contrapporre ad un’idea di uguaglianza buonista a tutti i costi, da attribuire al 68 non so se questo sia l’intento, il rischio uomo di paglia c’è da parte mia, nel vedere l’uomo di “pagliuzza” da parte tua, e nel farlo il mio potrebbe essere un uomo gigante del fienile, e spero con questa asserzione di fallibilità di sgombrare il campo da possibili rimpalli. Ne soni consapevole e cerco di evitarlo, ma il problema è anche il linguaggio che ragiona per contrasti come sfondi su cui le forme si stagliano per distinguerle. Eh lo so è un riflesso quando si dice che c’è qualcuno migliore di un altro in qualunque sistema. Il concetto è molto caricato drammaticamente per tutte le sofferenze che il suo abuso ha comportato, la discriminazione “vengo anch’io, no tu no, perchè? Perché no” quindi si è voluto ricostruire il concetto di migliore relativizzarlo ad uno scopo. Indubbiamente un chirurgo deve esseere bravo ad operare. Dobbiamo quindi riflettere sullo scopo del voto e della promozione, data automaticamente non avrebbe senso. Fermo restando una affermazione di equale dignità di base. Quindi migliore da solo hq certamente un portato problematico che può beffarsi semplicisticamente di molte complessità.

    Secondo me il 68 ha portato alla messa in discussione di molti aspetti dogmatici e non direi che il suo bersaglio fosse affatto l’umanismo, semmai forse la “ginnastica d’obbedienza” fine a sè stessa, una storia solo da un lato occidendentale, poco laica per un approccio più illuminista . Comunque intendo dire che ora abbiamo la maturità di creare, dagli errori passati, vaccini più mirati e meno “ideologici” che ci permettano di intercettare spinte sia di restaurazione del dogmatismo che di totale svacco stile “centro sociale” no?
    Semmai cosa potremmo dire dell’antiintellettualismo contro i “professoroni”?.
    Se è vero che ravvisi un impoverimento della lingua italiana, beh è qui c’è il valore del conservare, non buttarsi le cose alle spalle per via di mode e anche di tecnologie a cui si fa affidamento, di certo non la cultura

  9. Nessun sarcasmo sul PCI, i cui uomini migliori ci misero la faccia prendendo posizione sul merito delle questioni educative. Dico solo che le basi linguistiche della formazione culturale non sono di classe ma lo strumento migliore sia per l’elevazione intellettuale della persona, sia per comprendere chi siamo e da dove veniamo, sia per dare veste adeguata ai nostri pensieri.
    Risparmiare ai ragazzi il faticoso tirocinio dell’apprendimento del latino e, non dimentichiamolo, della lingua italiana, anche letteraria, non li rende migliori, ma inermi di fronte alle sofisticazioni del potere che, esso sì, la lingua sa usare eccome per convinvere delle sue ragioni, buone o cattive che siano.

  10. Lessi anni fa di Mario Rossi “Cultura e rivoluzione” e fu per me lettura ardua di saggi su Husserl, Hielmslev, la Poetica (non ricordo se nel solco di Della Volpe). Egli si dovette formare in altra scuola, altro clima, altro fervore intellettuale. E certo se le arti e le lettere poggiassero su robusti studi filosofici sarebbero più salde, come voleva Gentile che alla filosofia ridette centralità didattica e pedagogica. Ma egli pensava a una scuola per pochi, un élite consapevole e dotata di senso critico in grado, al termine del ciclo di studi classici, di tradurre all’impronta interi brani di autori greci e latini. E questa élite imbevuta di storicismo, che divenne prima crociana, gentiliana, poi marxista, per aprirsi in alcuni insoddisfatti o più curiosi, ad apporti speculativi diversi, ha dato lustro agli studi storici letterari filosofici artistici, ispirando editori illuminati e dando sovente autori di testi per le scuole. Il suo linguaggio restava però democraticamente accessibile, ostile allo specialismo e ai tecnicismi algebrici mutuati da altre discipline, al gergo dei gruppi separati che si parlano da soli; ed era un piacere leggere gli umanisti Sapegno e Russo, Longhi e Argan, Mila e Pannain, Villari e Saitta, Petronio e Getto, Marchesi e Paratore, Rostagno e Perrotta.
    Ma uno studente medio di oggi saprebbe apprezzarli? potrebbe concentrarsi per più di mezz’ora su un libro di carta senza soggiacere a sciocche distrazioni? quanto è ampio lo spettro del suo bagaglio lessicale? conosce il significato e la pratica del bello scrivere, chiaro e distinto o non va al di là di un post? a quali fonti attinge la sua “ricchezza” espressiva, ai classici o ai social? a Pascoli o Elena Ferrante? messo d’emblée di fronte alle Stanze del Poliziano, ne coglierebbe i diversi livelli di lettura? non ha la fortuna di mia madre, che allo Scientifico Cavour, l’unico in tutta Roma, lesse le Stanze nel commento del Muscetta.
    Nel secolo scorso il Francese era la lingua straniera normalmente studiata al Classico, dava accesso alla lettura diretta di tanti capolavori. Oggi è d’obbligo l’apprendimento dalle elementari dell’Inglese. Sì, ma quale, quello di Eliot o l’altro, dell’economia e di internet? dello storytelling aziendale pieno di mission e vision?
    Infine, ultima perla, la riscrittura ideologica di genere della storia letteraria: il tentativo, disperato, protervo e antistorico di imporci ed elevare a classici imperituri autrici minori e marginali delle nostre lettere, inserendole a forza nei manuali scolastici.
    Come se la critica di otto secoli avesse scherzato.
    Includiamo pure loro.
    Bisogna avere pazienza.

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