di Luigi Grazioli
Quanto incide sulla vita di una persona, sulle consuetudini e i comportamenti quotidiani, sulla sua mentalità e sulla stessa percezione del proprio passato, spostarsi da una regione all’altra, cambiare abitazione e posto di lavoro? Che cosa ogni nuovo passo, ogni incontro, ogni luogo apporta, modificando quello che precedeva senza cancellarlo, e anzi arricchendolo di ciò che ora si sente e si esperimenta, aggiungendovi nuove stratificazioni e interpretazioni ma soprattutto nuove forme e diverse chimiche? È di questo che parla il nuovo libro di Marco Belpoliti, Nord Nord (Einaudi, 2025). Il titolo è insieme corretto e fuorviante. Non è solo (o tanto) del Nord geografico, della sua relatività e delle sue specificità che il libro tratta (“Il Nord è solo un’idea, un fatto cangiante, qualcosa di relativo e persino di elusivo”), quanto degli aggiustamenti indispensabili a cercare di capire cosa ne è della propria vita nel mondo, a che punto è, quale orientamento ha preso, mobile come lo è il Nord, che l’ago magnetico fissa, ma resta poi sempre da rivedere, da aggiornare: nel mondo che interviene, determina e allarga la vita nel suo susseguirsi di chiusure e aperture, di prigioni che si rivelano opportunità e di solitudini che preludono a incontri e illuminazioni, di amici mai persi e altri incrociati per caso come se venissero da terre ignote, insospettati ma come attesi, tanto sorprendono e appagano. E nel mondo che cambia. I cambiamenti degli ultimi decenni affiorano in ogni capitolo e ne costituiscono una delle trame soggiacenti, che li percorrono come fiumi carsici e spesso si manifestano nell’idrografia di superficie, come i fiumi, i torrenti, i canali e i laghi reali di cui le regioni narrate sono ricche, a cui Belpoliti dedica uno sguardo insieme analitico e sottilmente poetico.
Il libro racconta tutto questo attraverso storie separate (e fotografie e disegni di mano dell’autore, che da ragazzo voleva fare l’artista, come ricorda in un capitolo), raggruppate in sezioni dal titolo geografico (Brianza I e II, Milano, Monza, Bergamo, Verso Nord) che pian piano vengono a comporsi in nuovi elementi di quella peculiare autobiografia estroflessa che aveva preso avvio quattro anni fa con il fortunato e apprezzatissimo Pianura (Einaudi, 2021). In esso Belpoliti, per la prima volta dopo tanti libri, azzardava, con tutto il pudore del mondo, un ingresso in punta di piedi nelle cose che descriveva e nelle storie che narrava, prudente, leggero, e solo quando necessario, per non attenuare con la propria ombra la loro chiarezza, la flagranza del loro apparire; e per non disturbare. L’impronta biografica, anche se mai invasiva, è stavolta più accentuata, meno filtrata, con maggiori riferimenti a luoghi, cose e persone e attività della vita quotidiana sociale e lavorativa dell’autore, scanditi in una progressione latamente temporale, anche se non lineare, con inevitabili riprese e deviazioni e soste, per nulla occasionali però, ordinate scientemente invece come tappe di una vita di cui vengono raccontati, e indagati, alcuni gangli significativi, lasciando il resto a se stesso, non perché insignificante (niente lo è per Belpoliti) ma perché implicito, da essi desumibile, con quell’arte del non detto, del tagliato o solo accennato e lasciato sullo sfondo, all’immaginazione e all’intelligenza del lettore, che fa l’arte di ogni narratore di valore, come lo è lui.
Viene così a delinearsi una forma di autobiografia indiretta, di rimbalzo, che passa da fuori e dall’altro, edificata insieme agli altri, raramente in solitudine, che rivela ogni volta all’autore stesso un aspetto, un angolo, una piega, un barbaglio, un segmento inopinato della sua vita: ciascuno minimo e decisivo. Un’autobiografia sfiorata, ma non per questo meno centrata e visibile nelle sue linee portanti, nonostante affetti e dolori siano più spesso taciuti che esibiti. L’intimo resta nascosto, per quanto talora, come si dice degli amici più cari, vicinissimo, come ciò che è più prossimo.
Ma per cominciare a parlare bisogna uscire di casa e che ci sia un interlocutore, che spesso è compagno e guida. Qualcuno che mostra una strada. “Siamo usciti di casa e abbiamo preso il sentiero che corre lungo il torrente”, è l’incipit del libro. C’è già molto di ciò che ci aspetta nelle pagine a seguire: la vecchia casa, che resta il luogo per antonomasia, presenza costante che sarà oggetto di vari, bellissimi capitoli, con la sua storia e la sua anima (“Per abitare bene una casa non è necessario essere in pace con sé stessi. Occorre piuttosto consegnare la propria anima al luogo, dolente o allegra che essa sia”: consiglio che vale anche per il libro, per la scrittura e la lettura), i suoi piccoli abitatori di ogni genere e specie, i suoi locali, i muri, la luce, la vista, i vicini, i pipistrelli, le rondini, i corvi – e gli scarafaggi, gli scorpioni, i falchetti e le coccinelle, a cui è dedicato uno splendido capitolo; poi c’è il noi, la compagnia, gli amici, il dialogo, senza i quali la vita si impoverisce e la conoscenza è monca; e infine il sentiero e il torrente: i percorsi, gli spostamenti prevalentemente a piedi, il territorio, la natura e la traccia dell’uomo in essa, in un intreccio di geografia e storia (e geologia e storia naturale) che caratterizza tutto il libro.
Non c’è gerarchia tra lo spazio fisico e quello umano e culturale. Di ogni luogo vengono colti e indagati i tratti caratterizzanti, lungo tragitti che si snodano per viottoli, sentieri, sterrati, strade e autostrade, linee ferroviarie, fiumi, laghi, con le relative forme paesistiche e specie animali o vegetali; ma a costituire il tessuto connettivo della geografia fisica e esistenziale, e immaginaria, sono gli incontri con le tante figure di amici, artisti, scrittori, designer, fotografi, maestri di una vita o solo occasionali, che ritroviamo in quasi tutte le sezioni. Alcuni sono notissimi, altri quasi sconosciuti (Ferdinando Scianna, Giulia Niccolai, Narciso Silvestrini, Enzo Mari e Lea Vergine, Mario Dondero, il clan dei Ballo, Umberto Fiori, AG Fronzoni, Marco Comolli, il Bandana, che ricorre in vari capitoli e diverrà quasi familiare, pur restando anonimo, al lettore, come qualcuno di quei personaggi straordinari che fioriscono in ogni paese o regione ma che a pochi chilometri nessuno conosce), molti di coloro che negli anni ’60 avevano fatto di Milano una “città di geni” (a differenza della Milano attuale, che è piuttosto una “città senza”), e gente all’apparenza comune, spesso, talvolta eccentrica, persone molto diverse tra loro ma tutte, o quasi, buone, gentili, positive, pur con tutti i limiti e le idiosincrasie che non è raro trovare in personalità spiccate nei rispettivi campi. Uomini e donne che infondono speranza; la cui stessa esistenza, al di là di tutte le loro opere e qualità, è già una speranza. Una direzione. Un Nord. Quasi mai citata, la speranza, sia detto di passaggio, è infatti uno dei sentimenti di fondo che sottendono il libro, non conclamata o idealizzata, ma con quel senso di pacificazione che si prova quando si incontrano esseri umani giusti e buoni, non nel senso pietistico o zuccheroso comunemente inteso, che comunque è sempre meglio di quello acido e amaro oggi prevalente, ma per il loro semplice modo di essere al mondo, di porsi e di agire, per la luminosità che senza neppure sospettarlo emanano. Belpoliti ne traccia ritratti-medaglioni di poche righe o paragrafi, in sintesi molto penetranti che puntano all’essenziale mediante mirati dettagli rivelatori, quasi di passaggio, descrivendo i luoghi della loro vita, gesti e posture, più che usando immagini, quasi dei correlativi oggettivi che però non sostituiscono l’osservazione psicologica o caratteriale, e persino sociologica.
Il tono è quello di una conversazione, di cui ha tutta la naturalezza, con i suoi andirivieni e sospensioni, riprese prolessi e analessi, che, come è noto, è uno degli effetti stilistici più difficili da ricreare. Il narratore si rivolge a un amico, reale (credo), risalente ai tempi del liceo probabilmente, che condivide con lui una rete di altri amici, destinatario che resta anonimo favorendo in chi legge l’impressione che quel “tu” sia proprio lui, tanto che a volte, di fronte a certi nomi propri, a chi Belpoliti lo conosce vien da dirsi: ma questo chi è?, glielo devo proprio chiedere.
La conversazione, che inanella storie, divagazioni e riflessioni, assieme a un cospicuo numero di informazioni enciclopediche, ma sempre a prevalenza narrativa, è rilassata, affabile (l’affabilità è un altro degli assi portanti, e dei valori, del libro: un modo di essere e una proposta del fare). Anche se l’interlocutore, diretto o, come il lettore, implicito, non interviene, si avverte la sua presenza, e le sue possibili domande o osservazioni o obiezioni vivificano il discorso, obbligando a soste, riprese e variazioni, innervando e connettendo tra di loro i diversi piani in cui si dipana.
Diventa facile allora accompagnare il narratore nei suoi vagabondaggi lungo le vie maestre del territorio e della cultura, della storia maggiore o infima e della scienza, e ritrovarsi a seguirlo ammaliati quando le abbandona per inoltrarsi in “terreni senza giurisdizione”, come quelli ai margini dei binari dove vivono erbe e “migranti senza casa”, condividendo senza fatica la sua sconfinata curiosità per tutto. Scoprendo di averne anche noi una riserva che ignoravamo, convinti di averla esaurita con la fine dell’infanzia. Una curiosità assoluta (un affetto, un amore) per tutta la vita nelle sue varie forme, dagli insetti ai mammiferi, dai pesci ai batteri, dagli alberi alle erbe, ai muschi, alle spore, al regno minerale, che una volta si chiamava inanimato, e invece un’anima ce l’ha eccome, immensa, delicata, sensibile, fragile perché ancor meno visibile di quella degli animati, come tutto quanto ci circonda e avvolge e protegge dimostra. Per la vita del mondo. Niente è trascurabile, tutto ha importanza. Tutto va conosciuto, e accudito, specie gli spazi e le cose di solito non guardati, rimossi o solo non visti, catturati da una sempre desta visione periferica. Strana, insospettabile delicatezza, per un uomo che a volte non riesce a nascondere un carattere un po’ infiammabile, diciamo così, sia umorale che passionale. Che forse è solo esasperazione per ciò che non va, per tutto ciò che non risponde al proprio dover essere, alla perfezione che ogni cosa e creatura incarna (o dovrebbe) per il semplice fatto di esistere, di essere lì. Qui.
È quanto confessa lui stesso, parlando di Lorenzo Lotto: “…ci sono in lui cose che mi commuovono, come il suo carattere sensibile e generoso, come dicono i suoi studiosi, ma anche il risvolto opposto: era pignolo e pedante. Un solitario e inquieto, in cui mi riconosco, e anche con una suscettibilità e persino una ipersensibilità che mi appaiono a tratti anche mie. // Lo guardo da distante anche se sono trascorsi vari secoli, ma capisco bene il suo desiderio di vedersi riconosciuto per il lavoro che aveva fatto: una gran fatica. E io?”)
Ogni capitolo è una storia a sé, e tutte assieme vanno a comporre un reticolo tridimensionale, con dei filamenti (di temi, persone, luoghi, vicende) di diverso colore che riprendono e rimandano a filamenti analoghi che nelle altre storie erano secondari o solo accennati, quasi inavvertiti, se non a posteriori, perché funzionali a ciò che di volta in volta veniva messo a fuoco.
Per innescare queste connessioni Belpoliti attinge a letture vastissime quanto all’apparenza eterogenee, che poi vengono amalgamate da capacità narrative e descrittive non comuni, favorite anche dalla lunga esperienza giornalistica e riscontrabili in tutti i suoi libri. Il dettato è piano, la forma semplice come risultato, per quanto complessa sia la costruzione sottesa.
Tutto diventa occasione di racconto, che il tema sia storico, folcloristico, zoologico, geologico, personale… Per capire di cosa sta parlando, per intendersi e informare, il racconto è necessario. Belpoliti lo faceva già quando era soprattutto un critico letterario (ma scriveva anche racconti e romanzi nel frattempo: pochi, quanto basta, come recita il titolo di uno di essi, ma belli), e poi ha elaborato (inventato) questa sua forma peculiare di scrittura che è appunto insieme saggistica e narrativa, dove l’erudizione e l’analisi, più che servirsi della narrazione vi approdano e si fondono con essa, trovando il modo di giungere al lettore senza il peraltro santo e indispensabile gravame degli studi e delle ricerche che stanno alla loro origine.
Luoghi cose e persone hanno tutti la loro storia, anche minima, che insieme contribuiscono a disegnare (a scolpire) la fisionomia degli spazi, spessori temporali frammentati in emergenze che in genere neppure si notano e sono stati dimenticati da quasi tutti nel corso dei secoli, tranne sparuti cultori, cioè persone che si prendono cura, che coltivano il ricordo, lo vanno a cercare anche negli anfratti più bui e muschiosi, setta di carbonari della memoria che tengono vivi i racconti, chissà per quanto e chissà per chi. E così emergono storie di muratori genovesi chiamati in Brianza a tirar su muri a secco per fare da contrafforte alle colline; facchini bergamaschi in giro per il mondo che monopolizzano carico e scarico nel porto di Genova; un’avventuretta erotica di Stendhal piuttosto squallidina che boccaccesca; storie di passaggi di lanzichenecchi, di pestilenze; di macerie e di città d’acqua sotto i nostri piedi… Storie che ne richiamano di analoghe in chi legge, che Belpoliti raccoglie premurosamente, a volte da narratori improbabili, da specialisti del minimo, dello strano, dell’impalpabile, e che disegnano una loro invisibile rete, segnali di passaggi per il resto cancellati o assimilati in altri contesti, come i massi erratici lasciati dalle glaciazioni tra le colline della Brianza fino al piano, che punteggiano con la loro presenza aliena e perturbante, in un testo sedimentato in strati su cui Belpoliti effettua carotaggi che ne evidenziano la composizione e le età, le ere geologiche e quelle biologiche, le persistenze e le peripezie delle piante, quelle degli insetti e degli animali, fino a quegli animali particolari che sono gli uomini (ma tutti lo sono, e Belpoliti lo sa e ne trae le conseguenze: per quanto la maggiore affinità possa indurre a maggior fastidio, se non irritazione).
Quello che importa è che a ogni cosa si presti attenzione e si dedichi la dovuta cura, per evitare quanto più possibile il dolore agli altri e a sé. Eppure, per quanta sia la cura, non si possono evitare errori e questo è tanto più doloroso per chi, come il narratore, non accetta l’imperfezione, salvo poi produrne altri quando si tenta di rimediare, pur con tutta la buona volontà. L’effetto spesso si scopre solo dopo, magari molto più tardi, quando tutto era già stato dimenticato, ma il rimorso che sorge allora, inutile, immeritato in una certa misura, è insanabile. Da isolato che era, si lega ad altri eventi simili, o a gesti, parole e tonalità emotive, e torna ogni volta intatto, e se possibile più acuto. Non si merita niente, si pensa allora, se non il castigo, che segue ogni colpa, anche quelle sconosciute. Specie quelle involontarie, se mai esistono. Vedi la tristissima storiella delle rondini narrata in uno dei capitoli dedicati alla casa.
La vita ne è piena. Per quanto si desideri conoscere, molto sfugge, forse l’essenziale. Nel capitolo dedicato a Narciso Silvestrini straordinario quanto poco conosciuto personaggio, suo maestro e amico, questi, dopo aver detto che “i colori non esistono. … È il nostro sguardo che feconda il mondo”, aggiunge: “Il colore nasconde la tragedia e la catastrofe dei bordi delle cose”. “Presi come siamo a osservare il mondo nella sua interezza, non vediamo quasi mai i margini, gli orli e i contorni. Un giorno, mentre parlavamo del nastro di Möbius disegnato da Escher in una sua famosa incisione… “, aggiunge il narratore, Silve mi ha fatto notare che il nastro è come la vita umana: dolorosa su entrambi i lati”.
Siamo insieme su un lato e su un altro del nastro. Osservando un disegno di Athanasius Kircher, nello stesso capitolo (riprodotto qui sopra), Belpoliti scrive: “io sono lo scarabeo che compie il suo tragitto senza avere alcuna idea del disegno che traccia nel percorso. Al tempo stesso io sono colui che guarda da fuori questo tragitto di forma geometrica e ne distingue la forma complessiva. Una doppia visione che mi ammalia.” Così in fondo è anche il lettore, che a sua volta disegna un percorso seguendo delle tracce, o dei binari, già tracciati, dall’autore ma non solo, senza sapere che disegno va formando, spinto a continuare, finché alla fine si trova espulso fuori, e solo allora può cercare di farsene un’idea, ma senza riuscirci completamente, tanto che allora prova e riprova a ricostruire alcuni percorsi, tutti interessanti, nessuno del tutto soddisfacente, così che, se vuole, può ricominciare, riprendere, anche se mai da capo. Da capo non si ricomincia mai.
Ogni minima cosa va osservata e indagata e amata, specie quelle meno attraenti e invisibili, come i lombrichi di Darwin, presenza costante negli scritti di Belpoliti, che riprende il libro ad essi dedicato legandoli a una sua vicenda di giardiniere occasionale, per arricchire il piccolo terreno adiacente e abbellire la casa. È il canto delle minuzie che danno vita a sommovimenti giganteschi, dell’invisibile che cambia i connotati del visibile. Un numero incalcolabile di eventi minuscoli, insignificanti, inavvertiti, senza apparenti conseguenze, ma che poi, assieme, producono effetti giganteschi, sovvertimenti impensabili, che cambiano il volto del paesaggio, erodono, distruggono anche ciò che appariva indistruttibile, inalterabile, eterno; o anche solo che sono necessari per produrre anche il più piccolo cambiamento, per dar luogo a tutto ciò che esiste, anche a loro stessi, frutti di eventi a loro volta infinitamente piccoli, infinitamente complicati. Dell’invisibile, o del poco visibile, dell’inavvertito che cambia i connotati del visibile e della vita. È questo che anche a Belpoliti importa; è questo che ci racconta e insegna.