di Alberto Comparini

 

[E’ da poco uscito per la Stanford University Press Lives of the Voice. An Essay on Closeness di Hans Ulrich “Sepp” Gumbrecht. Pubblichiamo un’intervista di Alberto Comparini all’autore].

 

AC: se provassimo a tracciare un’evoluzione del tuo pensiero, intellettuale e accademico, a partire dalla tua tesi di dottorato (Funktionswandel und Rezeption, 1972) fino a Prose of the World. Diderot, Goya, Lichtenberg, and Mozart and an End of Enlightenment (2021), uno dei concetti chiave che torna, direttamente e indirettamente, è quello di Stimmung. Inizierei, dunque, da questo aspetto: che ruolo ha avuto la Stimmung nel tuo percorso biografico?

 

Sepp: non ricordo di aver usato esplicitamente la parola Stimmung [atmosfera, clima] nella mia tesi di dottorato. Se si esclude il fatto che quel lavoro trattava di testi medievali (principalmente in francese e in lingua castigliana), e che la cultura medievale continua ad essere un’ispirazione per il mio pensiero, oggi mi sento abbastanza distante da quel libro, e sfortunatamente non riesco a considerarlo come «origine» del mio lavoro. Quindi la risposta puramente fattuale alla tua domanda è che la «Stimmung», come concetto e come dimensione dell’esperienza estetica, divenne per me una preoccupazione e un vero e proprio fascino molto più avanti. È successo dopo il 2005, credo, quando il mio amico Henning Ritter (in quel momento l’editore del supplemento settimanale «Geisteswissenschaften» del giornale «Frankfurter Allgemeine Zeitung») mi incoraggiò a partecipare all’esperimento di fare un lavoro concettuale (o filosofico?) innovativo, in forma di testi brevi e saggistici. Così ho scritto una decina di brevi articoli sulle Stimmungen in testi letterari di diverse lingue e periodi storici – e quei pochi saggi sarebbero diventati la base per il mio libro sulla Stimmung. Retrospettivamente, tuttavia, sono tentato di dire che la Stimmung (in qualche modo avant la lettre o avant le mot) aveva avuto un ruolo nel mio lavoro In 1926. Living on the Edge of Time (pubblicato nel 1997 per Harvard University Press), il libro che considero più determinante per il mio lavoro – e che considero anche come la soglia che ho dovuto attraversare per arrivare a definire la dimensione di «Presenza» per la quale non avevo ancora concetti teorico-filosofici adatti o ben definiti. Oggi posso vedere che In 1926 c’era un tentativo di descrivere l’identità storica di un particolare anno come Stimmung. Ora, se oggi (e dopo il libro Stimmungen lesen. Über eine verdekte Wirklichkeit der Literatur del 2011) mi propongo ancora di capire questa parola come riferita agli stati innescati negli individui dalle diverse modalità del tocco più leggero possibile che il nostro ambiente materiale può avere sui nostri corpi, ciò significa che la Stimmung appartiene a quei fenomeni culturali che ho cercato di portare alla ribalta attraverso il concetto di «Presenza». Ciò detto, penso che le Stimmungen abbiano sempre avuto un ruolo esistenziale particolarmente rilevante nella mia vita (anche indipendentemente dal mio lavoro intellettuale), probabilmente da due angolazioni diverse. Il primo angolo è collegato a ciò che Martin Heidegger (in Sein und Zeit) evidenzia attraverso la descrizione di Stimmung come un caso di «caduta». Noi non possiamo controllare gli stati d’animo in cui ci troviamo; essi semplicemente accadono, compaiono nella nostra vita – e la «serenità» (Gelassenheit) a cui il filosofo tedesco Hans Blumenberg si riferiva una volta come la sua «virtù maschile preferita», ecco, la serenità è, tra le altre cose, la capacità di accettare tale «caduta». Allo stesso tempo probabilmente mi sono sempre – e pre-consapevolmente – basato sul valore ispiratore delle Stimmungen che rendono il mio concetto in qualche modo pesante e quasi rozzo, rispetto ad altre versioni, più «eteree» di esso.

 

AC: attraverso le tue analisi degli stati d’animo culturali del nostro tempo, in particolare a partire dal libro Production of Presence. What Meaning Cannot Convey (2004), la tua tesi – semplifico – è che la nostra esperienza estetica sia una forma di «Presenza». Cosa significa, dunque, produrre, creare «Presenza» e come e quanto è legata alla tua idea di ‘Latency’ [latenza]?

 

Sepp: Ciò che volevo ottenere in gran parte dei miei libri dopo In 1926 era un’apertura di possibili domande e preoccupazioni nelle discipline umanistiche e artistiche che andassero oltre l’ermeneutica e l’interpretazione, intese come pratica intellettuale tradizionalmente centrale (senza finire per polemizzare contro le medesime). In altre parole, volevo – e voglio ancora – andare oltre la portata esistenziale e intellettuale di una concezione puramente cartesiana, puramente basata sulla mente, di ciò che è umano. Se potessimo dire che l’homo sapiens non può aiutare a reagire ciascun oggetto intenzionale in due modi e su due livelli, cioè cercando di attribuire un significato all’oggetto intenzionale («interpretazione») ma anche postulando il nostro corpo e i nostri sensi in relazione ad esso, allora chiamo “presenza” questa seconda dimensione che gli studi umanistici avevano in gran parte abbandonato. Per darti un esempio molto elementare: studiare le scienze umanistiche attraverso la presenza implica, tra tanti altri cambiamenti e innovazioni, concentrarci, con una complessità intellettiva molto maggiore che mai, sulla funzione della forma prosodica di una poesia – anche se, tradizionalmente, ci siamo concentrati solo sulla semantica della poesia e quindi a malapena si usava menzionare o identificare la sua forma prosodica. Con la parola “produzione” (nel senso letterale del latino «pro-ducere», cioè «portare alla ribalta») voglio sottolineare che i fenomeni di presenza, come fenomeni che si originano e/o colpiscono un corpo, occupano uno spazio, a tal punto che esso può anche muoversi nello spazio stesso – uno spazio diverso da quello che chiamiamo «spirituale».

 

Ora, come si può ricondurre tutto questo all’esperienza estetica? Attraverso una sua storicizzazione. Se, in linea di massima, possiamo dire che, approssimativamente dal Settecento, le culture occidentali hanno posto tra parentesi la dimensione della presenza (questo è ciò che una volta chiamavamo trionfalmente «razionalità»), capiamo perché un nuovo status di presenza così come un concetto di «estetica» emerse, verosimilmente, tra il 1650 e il 1750. Gli oggetti riconducibili all’«esperienza estetica» divennero quegli oggetti intenzionali che imposero la loro dimensione di presenza contro il generale sostegno istituzionale: per esempio, poesia, musica, danza, teatro. E come si arriva infine dalla «presenza» alla «latenza»? La mia risposta è che passiamo dalla «presenza» alla «latenza» tramite la Stimmung. Mi piace pensare alla «latenza» come la paradossale certezza che qualcosa è lì, senza sapere esattamente dove si trovi questo qualcosa o che cosa sia (cioè senza alcuna conoscenza della sua identità). Ma come possiamo essere certi di qualcosa che non percepiamo? Spesso sembra accadere attraverso le Stimmungen. Quando diciamo, per esempio, che «qualcosa è nell’aria», allora vogliamo dire che, attraverso una Stimmung, abbiamo l’intuizione che qualcosa di materiale che non vediamo è vicino a noi.

 

AC: Presenza, Latenza, Stimmung. Dalla fine degli anni ‘80, mi sembra che il tuo lavoro abbia intrapreso, consapevolmente, un percorso diverso sia dal decostruzionismo, sia dai decostruzionisti. Qual è il ruolo del linguaggio, e per così dire del corpo, nella nostra esperienza e nella nostra comprensione dei fenomeni culturali?

 

Sepp: Per quanto riguarda il decostruzionismo, può essere che io fossi uno dei pochi studiosi della mia generazione che non provò mai un’attrazione nei suoi confronti, né tantomeno sentimenti ostili. Per esempio, ho invitato Jacques Derrida a Siegen, l’ultima università tedesca dove ho insegnato, e anche diverse volte a Stanford – e devo ammettere che siamo sempre andati molto d’accordo (forse ha aiutato il fatto che io non appartenessi a ciò che i francesi chiamano la chapelle di Derrida). Ciò che mi ha affascinato in quegli anni è stato “il movimento del decostruzionismo” come una sindrome e un sintomo storici perché, durante la mia vita, non ho visto un altro stile intellettuale che, tutto ad un tratto, sembrava essere così irresistibile per tante persone – e che successivamente persero questo fascino in pochissimo tempo. In definitiva, ricordo il decostruzionismo più come uno stile esistenziale che come uno stile filosofico, figuriamoci come un «sistema filosofico». Dal primo momento in cui mi sono imbattuto in questa corrente, sono rimasto impressionato da un passaggio nel primo capitolo di Grammatologie (1967) in cui Derrida ha scritto che noi (cioè coloro che fanno parte della «cultura occidentale») non possiamo né tornare alla metafisica né lasciarla alle nostre spalle. Se «metafisica» per Derrida era sia la certezza (infida) che gli umani possono ricondurre (in senso linguistico) a fenomeni al di fuori delle loro menti, sia la fiducia nella credenza che fossero possibili significati stabili e trasparenti nel linguaggio, egli voleva sottolineare che entrambe queste ipotesi fossero problematiche – ma che difficilmente possiamo vivere senza di loro. La sua reazione a questa intuizione fu – in gran parte – malinconica. A volte pensavo che il decostruzionismo finisse per essere un planctus, un blues esistenziale in cui la gente poteva indulgere, invece di cercare di formulare argomenti sistematici. Ho accolto e tuttora accolgo alcune traiettorie del pensiero di Derrida, ma le nostre conclusioni non solo sono diverse, ma quasi sempre opposte. Quando voglio parlare di «presenza» devo agire come se potessi riferirmi al mondo materiale fuori dalla mia mente – e lo faccio davvero in piena consapevolezza dell’impossibilità di questa affermazione o, per essere più precisi, nella piena consapevolezza della impossibilità di sapere con certezza se possiamo cogliere la parola intorno a noi. Forse anche questa è melanconia, ma con una chiave musicale diversa (metaforicamente parlando).

 

AC: Relativamente alla nostra estetica della ricezione, lo spettatore riveste un ruolo significativo nel tuo lavoro. Invece di prendere il teatro come ‘case study’, nel tuo libro del 2006 In Praise of Athletic Beauty [In lode della bellezza atletica, Luca Sossella 2015] parli dell’evento sportivo come chiave per comprendere le radici filosofiche e sociologiche della società occidentale. Che cosa aggiunge la bellezza atletica all’esperienza estetica dello spettatore?

 

Sepp: La tua idea di utilizzare i fenomeni sportivi come chiave per comprendere le radici filosofiche e sociologiche della società occidentale è davvero meravigliosa – vorrei che fosse mia. La tesi principale del mio libro sugli spettatori sportivi è che ciò che attrae uno spettatore in uno stadio (e non sto parlando solo di spettatori che hanno un dottorato di ricerca, ma dello spettatore medio) corrisponde esattamente (e non penso di esagerare) a ciò che Immanuel Kant descriveva come la situazione del giudizio estetico. In questo senso, non sono così sicuro che sperimentare lo sport in modo estetico aggiunga qualcosa di specifico alla nostra esistenza – piuttosto, sperimentare gli sport è un equivalente funzionale, in condizioni sociali e culturali diverse, di andare ad un concerto di musica classica. Ma per seguire la tua idea di utilizzare la partecipazione sportiva e sportiva come luogo per capire le radici della cultura occidentale, è interessante, ad esempio, vedere che Pindaro fu il primo poeta lirico della cultura occidentale a elogiare poeticamente gli eroi atletici. Allo stesso tempo, una nuova attenzione alla storia dell’atletismo potrebbe essere un’ottima chiave di lettura per capire come, dal tardo Medioevo e, in particolare, dal diciottesimo secolo, la cultura occidentale avesse progressivamente perso il livello di presenza.

 

AC: Nel tuo ultimo seminario a Stanford [‘Literature and Bliss,’ trimestre invernale 2018], parte della discussione era dedicata alla Silicon Valley. Inoltre, in Weltgeist nella Silicon Valley. Leben und Denken im Zukunftsmodus (2018) ha al centro della sua narrazione la Stimmung della Silicon Valley. Viviamo ancora in un breite Gegenwart, in un ‘ampio presente’, come avevi sostenuto nel tuo libro del 2010?

 

Sepp: Credo che la risposta sia sì, viviamo ancora nella forma istituzionalizzata della temporalità che chiamo «ampio presente» – con l’unica cautela, già fatta nel libro sotto questo titolo, che l’«ampio presente» è la temporalità dominante nella vita quotidiana della cultura globale, mentre (secondo la logica dell’«ampio presente» che denuncia l’incapacità di lasciare nulla in-dietro) la temporalità precedente, cioè la visione del mondo storico, è ancora attiva in alcune parti della società odierna. Una di esse è la cultura accademica (nessuno potrebbe ottenere un dottorato in un dipartimento di storia senza aderire a questa visione storica del mondo), un altro è la democrazia parlamentare, la quale non è praticabile senza una credenza nello specifico futuro («aperto») del mondo storico (che è in un futuro concepito come un orizzonte aperto di possibilità tra cui scegliere). Ora la Silicon Valley, la zona di massima condensazione nella produzione di tecnologia elettronica, ha una doppia relazione con l’ampio presente, sia attraverso il suo specifico futuro sia attraverso il suo presente specifico. Se il futuro dell’«ampio presente» è occupato da pericoli che sembrano muoversi lentamente e irreversibilmente verso di noi, possiamo dire che l’Intelligenza Artificiale, attraverso ciò che le persone nella Silicon Valley chiamano “Singolarità”, attraverso la prossimità temporale di un prodotto artificiale, l’intelligenza che può essere superiore all’intelligenza umana è il più grande di quei pericoli e rischi che stiamo già affrontando dal futuro. Perché un’intelligenza superiore agli umani può decidere, infine, di sterminarci.

 

Per mancanza di un’ispirazione migliore, ho usato la mia descrizione del nuovo presente come un «nuovo presente di simultaneità» (in contrapposizione al «presente impercettibilmente breve della transizione», nella visione storica del mondo) per nominare la nuova temporalità. Un altro tentativo di descrivere il nuovo presente ha portato al concetto di un «universo di contingenza». Se in precedenza la scelta per l’esistenza umana era un «campo di contingenza», cioè un orizzonte di opzioni che non erano né necessarie (né «destino») né «impossibili» (opzioni che potremmo immaginare senza che esse siano accessibili agli umani), allora questi poli del «necessario» e dell’«impossibile» si stanno ora dissolvendo, in parte a causa della tecnologia elettronica. Fino a qualche decennio fa, il sesso in cui una persona era nata era considerato destino (o necessità). Oggi, con la chirurgia transessuale, iniziamo nuovamente a sognare il sesso come scelta. Se, d’altra parte, potevamo precedentemente immaginare la vita eterna ma non eravamo in grado di collegarla alla vita umana, la vita “eterna”, per così dire, è ora in procinto di diventare un incarico di ricerca per la scuola medica. Queste sono enormi conquiste della libertà – ma, allo stesso tempo, la vita in un universo di complessità può essere travolgente e invariabilmente stressante. Pertanto, se mai mi venisse chiesto di cantare le lodi dell’«ampio presente» (o della tecnologia elettronica) preferirei rifiutare.

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