di Fabio Pusterla
[Esce oggi per Marcos y Marcos Fiumi nefrite vortici, il nuovo libro di poesia di Fabio Pusterla. Ne anticipiamo in anteprima alcuni testi].
Airone dell’alba
Airone dell’alba, grigio di sangue rappreso
vola senza rumore sul territorio indifeso
sopra le case dei miseri che aspettano la guerra
sopra la terra e il frumento i fiori di prato e di serra
vola radendo la terra che fuma e si copre di nebbia
vola il tuo mesto volo sfiora chi attende in gabbia
i prigionieri e i fuggiaschi sopra le fosse dei laghi.
Vola, tu.
*
Fiumi, nefrite
«Molte cose iniziarono in me
molte finiscono, fiumi tanti
che scendono sotto le rocce si essiccano
diventando mistero o nulla si nascondono
nel cuore nero di strati profondi verso il magma
nel grande oblio nelle tenebre.
Europa di corsi d’acqua e fiumi macabri
io adesso vedo soltanto una vipera verde
una colonna armata che si avvicina
nefrite nefrite il mio rene è l’Ucraina
il mio corpo è l’Europa avvelenata
un crollo inarrestabile
nefrite Eurasia mente inagibile
quale sarà l’ultimo
quale sarà l’ultimo fiume
nefrite grigioverde di fango e bitume
nefrite piscio e merda
nefrite che nuove leggi infauste promulghi
Elba Donau Neva Vistola Volga
Jenissei d’ampio respiro grande storia
e il vasto Reno e il Rodano dorato
tutti verdi grigioverdi devastati
tutti ultimi fiumi cosparsi
di cenere e muffa e fanghiglie
nell’Europa dei diritti e dei rovesci le frattaglie
del mio corpo dolente dolina
che declina e rinsecca
nella mia mente infetta sfatta sfitta
che centrifuga
spazi tempi memorie
in vortici disattenzioni incurie
atomi impazziti scorie punti di fusione
mediocri marionette sopra i troni
io non più io
io già senza di me
d’altri padroni…»
*
Addio a un’associazione letteraria
Car* collegh*,
asterischini per bene abiti adatti
a sembrare per quel che si può degli artisti
sempre vagamente alternativi allineati mai,
mi dite che non è più tempo questo
di politica, oppure che la politica adesso
sta nella lobby del libro, nella difesa
dei diritti (d’autore) e che davanti
ai quotidiani massacri è preferibile
la dignità del silenzio. Perdonatemi se non vedo
nessuna dignità in questo silenzio
tanto comodo, a poco prezzo dignitoso.
Così subìto, non detto. Si può dire
(si deve?) il silenzio? Non è questo
il compito di chi sceglie
la scrittura?
Vi scrivo da una cantina della storia,
un vecchio bunker trasformato in bilocale
minuscolo. Giungono qui i rumori
del mondo, gli indizi.
Gli indizi del mondo, quello distante
e l’altro, piccolo, in cui tutti viviamo: se in entrambi
una trama si tesse costante, di rapina
e violenza. Una menzogna
esibita come unica realtà.
Non anche di questo
dovremmo parlare? Non soprattutto
di questo? A modo nostro, obliquamente,
sempre parlando d’altro eppure ritornando
a questo sempre, alla cosa che attenta e va contro
la vita. Ma non sento le voci ora chiuse
e distratte. Perfette
nella loro rinuncia, che sottrae
chi potrebbe parlare al suo rischio,
all’imperfezione della parola davanti alla cosa.
L’imperfezione, l’errore, l’inesatto,
persino a volte l’ipocrita
dichiarazione con cui qualcuno credeva possibile
salvarsi l’anima e lavarsi la coscienza.
Certo. Ma oggi: meglio il silenzio? O l’entertainment?
Davvero? Ieri il ministro della guerra
del nostro neutralissimo Paese
chiedeva 32 miliardi per ammodernare
l’esercito. Ci sono domande, osservazioni, commenti?
Non vedo mani alzate, ragazzi. Va bene così,
dunque? Tutti allegri e contenti,
tutti impegnati a scrivere
libri di futuro improbabile successo
(quante copie vendute: 3000, 5000 se va bene?)
e al presente sussidiati dagli uffici
statali più o meno competenti?
Nessuna pecora nera, nessun ratto?
Conta qualcuno altrove invece i morti: altri numeri.
30.000: Gaza. 40.000 (almeno): soldati russi in Ucraina.
(Quanti, quanti Ucraini?) Nonsisaquantimila: in fondo al mare
o nei lager di Libia. Cifre in costante crescita, bestsellers.
Giorni fa, dentro il bar di un ospedale,
ho incontrato una donna che guidava il marito
nel suo Parkinson. Una coppia
di vecchi compagni, sulle spalle
il XX secolo. Mi ha chiesto, lei, di colpo:
dove sono finiti gli intellettuali? Cosa fanno,
dove vivono oggi? Ho saputo non ho saputo
risponderle. E certamente la domanda era sbagliata,
direte voi, non senza ragione. Ma da qui vi saluto,
da questo irragionevole dolore. Quello che vedo dalla mia finestra
non è un passato da rimpiangere. Un futuro, piuttosto,
molto incerto, da inventare. Le domande
le faccio tutte a me stesso, non temete. Quelle sbagliate,
le poche forse giuste. Sembrano uncini i punti di domanda
e come uncini lacerano la pelle del mondo vicino e lontano:
mi fanno compagnia. Li preferisco
agli asterischi, ai puntini
di sospensione un po’ patetici, al pantano.
Non ho non mi aspetto risposte.
*
A che punto è la notte
Molto male poco bene
torna il tempo delle iene.
Poco bene molto male
viene impazza il fortunale
*
Tullio in rivolta
«E quando è dopo? Adesso è dopo!» e tu gridando
fermamente in faccia al mondo queste parole
senza saperlo eppure sapendolo enunci un principio
di rivolta gioiosa.
Nessuna delega nessuna attesa
nessuna dolciastra gioia più compita. Né altrove
o campo eliso o promessa. Adesso qui è la vita
e basta con le favole:
ci cresce eccome ci cresce nei giardini del re
e noi andremo a rubarla, l’erba voglio.