di Diego Bertelli
[E’ appena uscita per Carocci la monografia di Diego Bertelli intitolata «Un felice viaggio». Poesia e destino in Bartolo Cattafi (1951-1961). Ne proponiamo un estratto].
Biografia e ritualità
Tattica è il titolo di una poesia rimasta inedita fino al 2004 e risalente al periodo compreso fra 1971 e 1973, quando Cattafi accumula oltre seicento testi dopo una impasse creativa lunga circa nove anni, interrottasi alle quattro del mattino di un giorno di fine marzo.
È una poesia breve, di valenza particolare, in cui il pensiero del poeta mostra la propria strategia di sopravvivenza:
Non conviene mi vedano
seduto in piena luce
stanco
con gli oggetti del mio potere
una mano
un fazzoletto bianco.[1]
Come ogni eroe, il poeta ha con sé i propri oggetti “del potere”, i quali permettono di non soccombere alla costante minaccia della morte: la mano rimanda immediatamente al titolo della prima plaquette, mentre il fazzoletto bianco allude a un evento sconosciuto, di cui Ada De Alessandri, moglie del poeta, ha gentilmente concesso la trascrizione:
Avevo visto questa busta gialla che conteneva un fazzoletto bianco legato con un nodo mentre sistemavo alcune cose nell’armadio una delle prime volte che eravamo stati nell’appartamento di via Venini, a Milano, e avevo chiesto a Bartolo una spiegazione, incuriosita. Lui in maniera molto sbrigativa, quasi a cenni, mi chiese di non toccarlo, e che dovevo lasciarlo così com’era. Disse che gli era stato raccomandato di fare questo nodo al fazzoletto da una donna zingara, incontrata sulla spiaggia del fondo di Archi, che gli aveva letto la mano. Una sorta di esorcismo dovuto a una profezia negativa. La cosa finì lì, non ne parlammo più, e io non toccai mai questa busta. Almeno fino al giorno in cui, in vista dell’ultimo ricovero di Bartolo presso la clinica La Madonnina, a Milano, eravamo rientrati da Cimbro e avevamo pernottato in via Venini. Bartolo era stato male, aveva avuto una specie di mancamento, e io non sapevo con cosa detergergli la fronte. Avevo eliminato tante cose perché l’appartamento di via Venini era divenuto solo un punto d’appoggio. Non avendo nulla a portata di mano, sciolsi senza pensarci il nodo di quel fazzoletto per usarlo. La mattina dopo fu ricoverato per l’ultima volta; era il 6 marzo. Il 13 marzo, intorno alle sette del mattino, spirò[2].
Stando a quanto riportato nei diari da una mano debole e stanca, il 6 marzo non è solo il giorno del ricovero, ma anche quello in cui Cattafi lascia le sue «ultime precise volontà poetiche» a Raboni, che era passato a trovarlo in clinica.
Non è difficile, leggendo altre poesie, ritrovare riferimenti alla busta e al fazzoletto custoditi nell’armadio, come nel caso di una lirica di Chiromanzia d’inverno intitolata Al momento giusto, che in calce riporta come data e luogo «Milano, La Madonnina, 22-23 gennaio 1979»: «Queste quattro cose quadrate / bigie sfilacciate di buon senso / vecchie di anni e anni / a mo’ di busta chiuse»[3]. Nella scena che si profila il poeta ricoverato sta osservando alcuni oggetti o forse degli incartamenti. Sono “cose” che appartengono al passato: scrigni o time capsules chiuse in maniera simile al nodo di fazzoletto in una busta. Il tempo in Cattafi è il risultato di una progressione circolare, che può essere rappresentata dall’immagine della spirale. Spirale di un nastro, per l’esattezza, che in Segni è l’emblema di una scrittura che si ribella al contenuto, rappresentato dalla vita: «Uscito snodandosi da qualche cavità un nastro a spirale d’inchiostro / nulla di nuovo dice / nulla ripete / giace inutile e smorto / tu lo colmi di spicchi / di polpe del tuo mondo / e lui stride e schiuma / quel contatto quel peso non sopporta» (Un nastro)[4].
La scelta di Raboni di intitolare l’ultimo libro di Cattafi Chiromanzia d’inverno, uscito postumo nel 1983, conferma la visione, insieme progressiva e circolare, dell’esistenza e della poesia. Il libro non è solo il suggello finale al percorso artistico del poeta e dell’uomo: l’immagine del palmo della mano, che richiama la pratica della lettura/interpretazione delle linee del palmo, conferma la continuità di visione che Raboni riconosce, nel solco del tema del destino, alla poesia cattafiana. Racchiuso nel suo disegno immutabile («tu non puoi scompagnare / le linee della mano»[5] [Chiromanzia, ne L’aria secca del fuoco]), il destino costituisce l’ossatura simbolica dell’opera cattafiana, affiorando di libro in libro; la mano è lo spazio biologico e segreto dove compiere l’anabasi poetica assoluta: quella di chi si orienta tra luoghi sconosciuti per rinvenire le coordinate (il mestiere prima dell’esploratore romantico — ennesima variazione sull’archetipo di Ulisse —, poi quello, più riflessivo, del geografo).
Un testo di Chiromanzia d’inverno intitolato Geografo delinea il modo in cui va inteso questo ruolo, che mette in rapporto poesia e verità:
Non ho altro da dirvi
ho detto tutto
quel che dovevo su mari monti selve
tribù amiche-nemiche
non ho altro da dirvi
per mentirvi
tutto ho stravolto mutato adattato
a un diverso disegno
ho parlato di me
ho confessato andando
dal massiccio montuoso all’alga all’erba
spinto dalla bisogna
ad una verità vestita di menzogna.
Il testo riporta in calce luogo e data: «Mollerino, 18 dicembre 1978»[6]. Il tono è perentorio e, nel finale, venato d’ironia. Geografo ritualizza nella forma di un testamento poetico rapido e mordace la perdita insanabile, sul piano razionale, di una verità che la poesia, con le sue molteplici relazioni simboliche e le sue trasfigurazioni, ha strenuamente tentato di colmare sin dagli esordi (i generici riferimenti alla natura e le parole tribù, selve, disegno rimandano direttamente alla Nota d’autore di Poesia italiana contemporanea in cui Cattafi esplicita il nesso tra poeta, poesia e destino).
Se la dialettica tra verità e menzogna è da ricondurre all’impossibilità di giungere razionalmente alla verità, valutata in senso storico-filosofico già negli anni Quaranta, al poeta resta adesso un genere di conoscenza paradossale, data per rivelazione dalla fede. Sembrerebbe la conclusione di un percorso che segue uno svolgimento preciso; siamo in realtà giunti al punto di partenza: in quel “centro della mano” dove il destino, assunta la forma piena cui l’io poetico è andato adeguandosi («tutto ho stravolto mutato adattato / a un diverso disegno»), rimane il medesimo, solo e necessario evento del principio, quando l’attesa di Dio è invocata a risolvere le contraddizioni dell’esistenza e la morte a dare significato alla vita. Si tratta di ammettere in via definitiva la convivenza di elementi in opposizione sul piano razionale, esattamente come nel caso di una parola vicinissima in Cattafi al significato di Dio, luce. Le sue qualità fisiche, di particella e onda elettro-magnetica[7], si addicono bene a un dogma definito, nella tradizione cristiana, attraverso l’insieme simultaneo di una e tre persone. La fede in Dio, infine assunta a prescindere da ogni esame critico, è dunque l’unica verità possibile, in quanto capace di risolvere ogni contraddizione senza negarla. Una fede per la quale, come per la luce, «ci vuole fegato»[8], perché in grado di accecare e bruciare quando ti investe. Esattamente come Dio, di cui Cattafi rivela la fisicità attraverso le conseguenze riportate sull’uomo che chiede di ottenere almeno il segno della sua presenza: «l’altra grazia / che c’imbratta la faccia / di fiamme e fumo / che ci rammenta d’essere / schiatta di legna da ardere al buon Dio»[9] (La grazia).
Il tema del destino attraversa come un fiume carsico la lirica di Cattafi, emergendo inaspettatamente. Gli eventi e le cose della poesia assolvono perciò una funzione di verifica nei confronti del destino che è costante: tutto è lettura e interpretazione dell’esistenza, tutto è chiromanzia. Si legga Chiromanzia d’inverno:
L’inverno scacciò le zingare chiromanti
dal cancello dell’istituto dei tumori
chi entrava invece andava
al caldo
si spogliava
s’infilava a letto
si teneva ben stretto nell’ascella
il termometro
ingerita la pillola fidata
togliendole ridandole fiducia
mandava lontano i suoi pensieri
(strade d’autunni estati primavere
d’altre ancora stagioni immaginate)
si guardava da sé
il palmo della mano[10].
Nel testo l’immagine del palmo della mano subisce una sterzata brusca, passando dall’associazione con le zingare, che l’inverno scaccia dall’«istituto dei tumori», al poeta-paziente, che dopo una sequela di azioni finisce per guardarsi il palmo, forse ancora in cerca di un senso, del proprio destino. Non è l’ultima poesia del libro[11], ma idealmente traccia una conclusione, altrettanto circolare e progressiva. La vicenda della lettura della mano sulla spiaggia, da parte di una gitana sconosciuta, il nodo fatto al fazzoletto bianco, l’attenzione con cui Cattafi lo custodisce sono alimento ricchissimo per la poesia.
Il nodo di fazzoletto ricompare in una lirica del 1977 pubblicata ne L’allodola ottobrina, insieme a una presenza: «qualcuno porta scompiglio / nel folto dei miei anni / tasto taciti segni / nodi di fazzoletti»[12] (Gli anni passati). La sensazione che qualcuno o qualcosa incomba e sia sempre sul punto di sparigliare le carte, che nulla possa essere sancito, acquisito, dato per certo nella vita è un meccanismo poetico primario, come l’attenzione per ogni particolare e simmetria, cui attribuire un significato. Cattafi fa caso agli anni, alle date, alle ore, sia in poesia sia nei suoi diari, tutt’ora inediti. Diari nel vero senso della parola, scritti con l’intento di fare la cronaca quotidiana, a guisa dei mercanti medievali, di eventi, spese, impegni. Un serbatoio di informazioni che proietta il lettore in anni fondamentali (dal 1971 al 1979), quando Cattafi soggiorna in Sicilia, in contrada Mollerino, nella casa colonica fatta ristrutturare a partire dal 1968.
L’impegno della compilazione è tale che presto la scrittura diaristica si intreccia con quella della poesia, dando adito a contaminazioni[13]. La tendenza a trovare corrispondenze, indizi, legami, segrete tangenze fra calendario, anniversari, eventi di un tal mese o di un tal giorno è continua e rivela una compulsione sublimata poeticamente. Si consideri la ricorsività del mese di marzo. In Con J., in Trafalgar Square Cattafi nomina «marzo o un altro / nome che gira insieme agli astri / e piomba su di noi»[14]. Possiamo desumere che l’«altro nome» di marzo sia quello del destino: marzo è il mese nel quale Cattafi perde il padre nel 1922 — pochi mesi prima di nascere — e il mese della sua morte, nel 1979 (sul rapporto fra marzo, padre, oroscopo e destino, ci sono due testi esemplari in 18 dediche: A mio padre e Nell’oroscopo). Marzo è, soprattutto, il mese che segna sia la nascita dell’ispirazione poetica nel 1943 sia il ritorno alla poesia, dopo nove anni circa, nel 1971. Lo stesso mese ricorre in altri momenti del percorso poetico di Cattafi, sempre in relazione al tema del destino; lo ritroviamo citato in poesia (si ricordi A un poeta che non ama marzo, lirica poi esclusa dall’Osso, l’anima) e nel titolo del volume del 1977, Marzo e le sue idi. Sempre a quel mese, nel 1979, risalgono le ultime poesie di Cattafi.
Marzo è dunque parola-simbolo, saldamente associata al destino personale e a quello della poesia, e legata, per questo, alla nascita e dunque agli astri (Cancro). Astro, oltre a essere un vocabolo del lessico ricorsivo cattafiano, è parola prossima, per analogia e per suono (le consonanti sono le stesse), a Cristo. L’astro-stella, nella Bibbia (i termini si alternano a seconda delle traduzioni), è simbolo e prefigurazione di Cristo. In Numeri 24, 17 si legge: «Io lo vedo, ma non ora, / io lo contemplo, ma non da vicino: / una stella spunta da Giacobbe»[15]. Si tratta, nel contempo, di un retaggio ungarettiano, a conferma di un intreccio costante tra piano teologico e letterario: «Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre» (Mio fiume anche tu, ne Il Dolore)[16].
In Partenza da Greenwich sono almeno due i testi dove simbolismo cristiano e tema del destino si saldano: Cabotaggio e Con J., in Trafalgar Square. Nel primo componimento troviamo una ciurma di marinai — di cui fa parte anche il poeta e che ricorda quella di Partenza da Greenwich — che «volge il timone, / verso casa, la terra / coi numi familiari appesi al muro, / Cristo»[17] (Cabotaggio). Da figura protettrice, Cristo diviene per analogia un «geranio, l’ascia / di sangue e ruggine che fu / confitta nel cuore dei tesori / e portò luce alla carne / di popoli mesti, dal pianto melodioso, / giungendo all’osso perenne della morte»[18] (Cabotaggio). Assimilato a un geranio e a una cruenta ascia di sangue e ruggine, il Figlio dell’uomo giunge all’osso della morte. Compare qui il primo dei due termini-chiave della poetica cattafiana: l’osso rappresenta sin da ora l’essenza stessa dell’uomo e delle cose, a tal punto che sarà l’anima a esserne assimilata.
Le incursioni e i raffronti testuali mostrano che l’elaborazione di immagini e lessico in Cattafi obbedisce a un ordine superiore a quello della mera scansione per tappe, confermando una continuità tutt’altro che episodica. Raboni è il primo a far convivere passaggi necessari e ininterrotto svolgimento della poesia cattafiana; un modo di procedere che svela la «capacità […] di guadagnare terreno secondo una freccia, una direzione determinata, dando l’impressione di non far altro che esplorare e riesplorare di continuo, circolarmente, il terreno intorno a sé, ma in realtà estendendo e spostando a poco a poco, millimetro dopo millimetro, il raggio di controllo e d’intervento»[19], con la «misteriosa naturalezza, la fatale e astuta ostinazione biologica del modo di muoversi, di vivere o sopravvivere nel proprio ambiente»[20].
Se nel 1978 Raboni invita il lettore a non rispettare la diacronia per abbandonarsi a un genere di esperienza surréaliste («non scegliere affatto, abbandonarsi al flusso dell’indistinto e al fascino dell’indistinguibile: come se le mille e più poesie che compongono quest’opera, e le quasi quattrocento poesie che compongono questo libro, fossero in realtà un’unica poesia»[21]), Nino De Vita[22] fa notare che Raboni avvertirà presto la necessità di una rettifica: «Dire (come anch’io con un po’ di imprudenza o, comunque, in un modo troppo scorciato […]) che la poesia di Cattafi non ha storia, che è tutta contemporanea a se stessa e, per così dire, “rimescolabile”, rischia di non rendere ragione di questa assoluta singolarità motoria […] a suo modo, irresistibile»[23]. Per De Vita sta «in questa contraddizione — in questo aggiustamento, in questa precisazione — il problema […]. Perché Cattafi è un poeta che dice al lettore: “Vieni, ti faccio vedere da dove ho cominciato e dove mi è accaduto di finire, cosa ero e cosa sono diventato, cosa ignoravo o appena appena percepivo e che cosa ho scoperto”. […]. Bisogna leggere la sua opera tenendo presente questo parallelo: cresce nella narrazione poetica l’uomo, la storia della sua vita e, se si leggono attentamente i suoi versi, ci si accorge che cresce anche — in una costante ricerca, nel tormento — lo spirito del poeta»[24].
Il giudizio di De Vita si allinea perfettamente con quello di Carlo Bo, che nel 1979 rinviene nella poesia di Cattafi la «costante […] continua convergenza fra il vivere e il poetare»[25]. Un’affermazione che svela fino a che punto l’uomo e il poeta siano, nel profondo, inseparabili; non tanto per come l’uomo è vissuto o il poeta si è mostrato, ma perché la poesia ne ha concretamente indirizzato l’esistenza, rendendo Cattafi l’uomo e il poeta che leggiamo.
Note
[1] B. Cattafi, Tutte le poesie cit., p. 665.
[2] Testimonianza di A. De Alessandri [Milano, 22 marzo 2023].
[3] B. Cattafi, Tutte le poesie cit., p. 615.
[4] Ivi, p. 631.
[5] Ivi, p. 322.
[6] Ibid.
[7] Un suggestivo accostamento tra poesia cattafiana e fisica quantistica è contenuto in C. Barnett, On translating Cattafi, «Gradiva» 64, 2023, p. 149.
[8] Così recita Luce, in Marzo e le sue idi: «Come avanza la luce / a onde / a segmenti / a spezzoni fluttuazioni / a shrapnel / a trance rotolanti / a gorghi alla van gogh / a trucioli che si srotolano / a sberle in faccia / a ditate negli occhi / colpi bassi / tutto colpito / ci vuole stomaco / fegato per la luce» (Ivi, p. 421).
[9] Ivi, p. 518. Anche qui Cattafi riporta in calce luogo e data: «Mollerino, 4 dicembre 1978».
[10] Ivi, p. 580. Stavolta, in calce, Cattafi riporta solo la data: «1978».
[11] Si tratta di Stato puro, datata 4 marzo 1979; una descrizione/visione di presenze (anime o angeli) che rovesciano il mito midiano della trasformazione degli oggetti in oro: «Oh loro sì che possono / raffinare lingotti / ridurli a un lieve stato puro di natura / ombre macchie presenze rifulgenti / scintille incancellabili negli occhi» (Ivi, p. 596).
[12] Ivi, p. 535.
[13] Cfr. D. Bertelli, Qualcosa di altrettanto preciso: il diario nell’esperienza poetica di Bartolo Cattafi, in ID., Viaggio al termine della scrittura. Calvino Pasolini Bazlen Parise Cattafi, Firenze, Le Lettere, 2016, pp. 139-163; già «Qualcosa di altrettanto preciso»: l’esperienza del diario nella poesia di Bartolo Cattafi, «Otto/Novecento», XXXVIII, 2, maggio-agosto 2014, pp. 113- 129.
[14] B. Cattafi, Tutte le poesie cit., p. 55.
[15] M. Scarpa (a cura di), La Bibbia di Gerusalemme, presentazione di G. Ravasi, Bologna EDB, 2009, p. 324.
[16] G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano, Mondadori, 2009, p. 269.
[17] Ivi, p. 52.
[18] Ibid.
[19] G. Raboni, Introduzione agli Atti del Convegno di Studi su Bartolo Cattafi organizzato dal gruppo Ciclope cit., p. 3.
[20] Ibid. M. Stilo parla di «viaggio-periplo», in ID., Viaggio-periplo di Bartolo Cattafi, in Bartolo Cattafi. Atti del Premio Nazionale di Poesia “Bartolo Cattafi”, VII e VIII edizione cit., p. 85.
[21] G. Raboni, Introduzione, in Cattafi, Poesie scelte (1946-1973) cit., p. 15.
[22] N. De Vita, Testimonianze, in D. Bertelli e F. Rognoni (a cura di), Per Bartolo Cattafi, «Paragone», a. LXXIII, n. 162-163-164 (870-872-874), agosto-dicembre 2022, pp. 23-25.
[23] G. Raboni, Introduzione, in Atti del Convegno di Studi su Bartolo Cattafi organizzato dal gruppo Ciclope cit., p. 4.
[24] N. De Vita, Testimonianze cit., p. 24.
[25] C. Bo, In corsa con se stesso, in Atti del Convegno di Studi su Bartolo Cattafi organizzato dal gruppo Ciclope cit., p. 30.