di Riccardo Capoferro

 

Un ebreo iracheno

 

Tra gli intellettuali ebrei che durante il bombardamento a tappeto di Gaza hanno criticato con più forza lo stato di Israele c’è anche Avi Shlaim, uno dei “nuovi storici” che dagli anni ’80 hanno reinterpretato gli snodi fondamentali della storia israeliana, sottraendoli a narrazioni apologetiche e filonazionaliste.

Nella distruzione sistematica di Gaza, Shlaim ha riconosciuto un intento genocidario. Non solo per il numero smisurato di morti tra i civili – messo in conto dai pianificatori dei bombardamenti –, anche alla luce della retorica usata da vari politici israeliani (e da molti dei loro elettori). Tra di essi c’è infatti chi ha auspicato la cancellazione di Gaza dalla faccia della terra e chi, dichiarando di volerne radere al suolo gli edifici e affamare la popolazione, ha paragonato i palestinesi a bestie da sterminare[1].

Gli interventi di Shlaim – raccolti nel libro Genocide in Gaza – mettono in luce come la rappresaglia israeliana a Gaza sia del tutto in linea con decenni di politiche di ultradestra, e sia espressione del progetto sempre più esplicito di costruire un “grande Israele” a spese dei palestinesi[2].

 

Shlaim nota per esempio che l’opinione secondo cui Netanyahu abbia prolungato il conflitto per allontanare i procedimenti giudiziari a suo carico lascia in ombra la sua lunga carriera di ideologo e leader. L’obiettivo di Netanyahu è stato fin dall’inizio la piena annessione della “Giudea e della Samaria” (cioè la Cisgiordania). Negli anni ’90, nel corso dei negoziati di Oslo, non ha esitato a sabotare il processo di pace, incoraggiando la colonizzazione dei territori occupati.

Shlaim ha evidenziato, inoltre, che il massacro di Gaza non nasce dal nulla. Nel corso dell’operazione “Piombo fuso”, condotta tra il 2008 e il 2009 e guidata da Ehud Olmert – laburista – il bombardamento di Gaza ha mietuto circa 1400 vittime di cui più di 300 bambini e ha distrutto fabbriche, ospedali, moschee e infrastrutture civili. L’espressione “falciare l’erba”, comune tra i militari israeliani, designa da anni le operazioni aeree e terrestri nella striscia, considerate di routine.

 

La posizione di Shlaim è coerente con la sua identità di storico, in particolare con lavori come Il muro di ferro[3]. Al tempo stesso, è il frutto della sua esperienza personale. Shlaim racconta di aver creduto nelle ragioni di Israele fino alla Guerra dei sei giorni (1967), e di aver poi attraversato una fase di disincanto, nutrita da una lunga ricerca d’archivio che lo ha messo di fronte all’evidenza[4]. Ma con ogni probabilità è anche in virtù delle sue origini che ha potuto guardare con distacco a fini, mezzi e ideali della politica israeliana.

Nato a Baghdad nel 1945, Shlaim viene da una famiglia di ebrei iracheni, poi assimilati ai mizrahi (cioè “orientali”): gli ebrei sefarditi dei paesi arabi e africani – Iraq, Yemen, Siria, Egitto, Libia, Etiopia, Marocco – emigrati in Israele all’indomani del 1948.

 

La vicenda degli ebrei israeliani di origine irachena è ripercorsa da Shlaim in Three Worlds: Memoirs of an Arab Jew (2023), lo splendido memoir in cui racconta il suo mondo d’origine e si sofferma sugli aspetti meno noti e per molti versi sconvolgenti dell’esodo dei mizrahi[5]. Alla rievocazione personale Three Worlds intreccia l’analisi e la ricerca: i ricordi di una singola vita si fanno documento di grandi trasformazioni sociali, inquadrate grazie all’ampiezza di campo del discorso storiografico.

Le testimonianze e le ricostruzioni di Shlaim sono più che mai rilevanti. Ci consentono, infatti, di risalire alle radici culturali dello stato di Israele, e di individuarne le contraddizioni di fondo. È a questo fine che mi addentrerò in Three Worlds, affiancandogli un altro importante lavoro sui mizrahi, della studiosa ebreo-irachena Ella Shohat. Con un allargamento di prospettiva, concluderò con una riflessione sui rapporti – non scontati – tra sionismo ed ebraismo della diaspora.

 

Mizrahim

 

La famiglia di Shlaim è vissuta per generazioni in Iraq. Suo padre era un commerciante facoltoso, che con l’immigrazione in Israele perse tutto. La comunità ebraica era ben radicata nella società irachena. Tra gli eventi ricordati da Shlaim in Three Worlds c’è n’è uno che sa di fantastoria: l’arrivo di re Feisal in Iraq nel 1921.

Dopo la rivolta araba e la Prima guerra mondiale Feisal, della dinastia hashemita – qualcuno se lo ricorderà con il volto di Alec Guinness in Lawrence d’Arabia – salì al trono di Siria, poi, dopo essere stato detronizzato dai francesi, per volontà degli inglesi salì a quello d’Iraq.

Uno dei suoi primi atti fu salutare la comunità ebraica di Baghdad, che aveva dato un ricevimento in suo onore in sinagoga. Feisal ringraziò gli ebrei in quanto “spirito vivente della popolazione dell’Iraq”[6]. (Si può aggiungere che il primo ministro delle finanze del regno d’Iraq fu Sir Sassoon Eskell, di una ricca famiglia ebraica).

 

Ma con la morte di Feisal nel 1931 e con l’ascesa del primo ministro Nuri al-Said la situazione degli ebrei iracheni iniziò a peggiorare. La dichiarazione Balfour (1917) e l’aumento dell’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria avevano già suscitato diffidenza nel mondo arabo, e negli anni che condussero alla Seconda guerra mondiale la propaganda antisemita tedesca raggiunse anche l’Iraq. Il cambiamento più drammatico avvenne, tuttavia, all’indomani del 15 maggio del ’48, il giorno in cui fu proclamata la nascita dello stato di Israele.

Come ricorda Shlaim, dopo il ’48 gli ebrei di Baghdad furono vittime di ben cinque attentati dinamitardi, che li indussero a lasciare il paese. A marzo del 1951, più della metà aveva fatto domanda di espatrio, una scelta che comportava, a seguito di una legge voluta da Nuri al-Said, la rinuncia a tutti i loro beni.

 

Gli ebrei iracheni che si trasferirono in Israele persero tutto. E nel nuovo stato non trovarono molto. All’arrivo in Israele i mizrahi venivano cosparsi di DDT, ammassati in campi di transito improvvisati e non di rado privati del loro nome. Venivano poi immessi in un faticoso e il più delle volte frustrante percorso di integrazione, che li relegava ai gradini più bassi della società israeliana.

Considerati corrotti dal mondo arabo, diventarono presto oggetto di stereotipi razzisti e discriminazioni programmatiche. Shlaim ricorda come intorno alla metà degli anni ’50 il ministro dell’educazione israeliano, Zalman Aran (esponente del Mapai, il partito della sinistra israeliana) considerasse gli ebrei orientali alla stregua di una razza inferiore.

L’opinione di Aran era condivisa da politici e ricercatori, come il pedagogo Karl Frankenstein, che paragonava i mizrahi ai ritardati mentali[7]. Nel 1960, David Ben Gurion affermò che gli ebrei provenienti dai paesi arabi, vissuti in contesti arretrati, non erano all’altezza delle qualità morali e intellettuali di coloro che avevano creato lo stato di Israele[8]. L’“uomo nuovo” israeliano non poteva essere un mizrahi.

 

È anche al senso di estraneità legato alle sue origini che Shlaim riconduce le sue difficoltà di adolescente e il suo scarso rendimento scolastico. I suoi insegnanti trasudavano disprezzo per gli ebrei orientali, e il sistema educativo israeliano era apertamente discriminatorio.

Le sue insicurezze si placarono solo dopo il trasferimento in Gran Bretagna, il terzo mondo a cui allude il titolo del suo memoir. Lontano da un’eredità di sradicamento e di perdita, poté godere dell’incoraggiamento degli insegnanti della Jewish Free School di Londra. Nel giro di poco diventò uno studente modello e maturò la decisione di diventare uno storico.

 

Esodi

 

Three Worlds mostra in modo vivido come il processo di  marginalizzazione e stigmatizzazione dei mizrahi sia stato a lungo parte integrante del progetto nazionalista israeliano. Alle radici dell’identità di Israele c’era – e c’è – l’identità ashkenazita, cioè dei coloni emigrati, fin dalla fine dell’Ottocento, dall’Europa centrale e orientale. I leader storici israeliani sono stati ashkenaziti, e tra gli ebrei di origine europea i mizrahi erano oggetto di pregiudizi e diffidenza – non molti di loro, del resto, si erano appassionati alla causa sionista. (“Il sionismo è una cosa da ashkenaziti”, sentì dire Shlaim da sua nonna).

Tuttavia, la loro immigrazione in Israele non fu scoraggiata. Tutt’altro: fu voluta e agevolata dalle autorità israeliane. Le fu attribuita una funzione precisa: gli ebrei orientali avrebbero occupato spazio che altri – i palestinesi – potevano occupare, e avrebbero fornito manovalanza agricola e manodopera industriale.

 

Fu anche per questo che la dirigenza israeliana decise di indurli, con l’inganno, ad abbandonare i loro paesi d’origine. In Three Worlds, Shlaim sostiene, prove alla mano, che, nell’ambito dell’“Operazione Ezra e Nehemiah”, gruppi coordinati da agenti del Mossad furono responsabili di attentati ai danni degli stessi ebrei iracheni, con l’obiettivo di terrorizzarli e spingerli alla fuga.

Shlaim ne ha trovato prova quasi per caso grazie a un vicino di casa di sua madre di nome Yaacov Karkoukli, un altro ebreo iracheno, avvicinatosi ai sionisti in gioventù. L’ormai ottantanovenne Karkoukli gli ha permesso, nel 2017, di risalire a una rete formata da agenti israeliani ed ebrei iracheni. Tra questi ultimi c’era un uomo di nome Yusef Basri, il cui referente era Max Binnet, un agente israeliano di stanza a Teheran, con il quale si incontrava regolarmente oltre il confine iracheno.

 

Basri fu poi arrestato dalla polizia irachena insieme al suo assistente, Shalom Salih Shalom. Sotto tortura, confessarono che tre degli attentati ai danni della comunità ebraica erano stati opera loro e di un terzo militante, Yusef Khabaza, poi arrestato a sua volta. La polizia irachena riuscì a scoprire l’intera rete, e Basri fu impiccato. Prima di salire sulla forca – riferisce Shlaim – gridò “lunga vita allo stato di Israele!”.

Un altro attentato, nella Sinagoga di Mas’uda Shemtob – in cui morirono quattro ebrei – fu commesso da un arabo di nome Salih al-Haidari, reclutato da un poliziotto arabo iracheno prezzolato da un agente israeliano.

A partire dalle rivelazioni di Karkoukli, Shlaim ha fatto ulteriori indagini, che lo hanno portato a un giornalista iracheno, Shamil Abdul Qadir, autore di uno studio sui movimenti clandestini sionisti e il loro ruolo nell’emigrazione dall’Iraq del 1950-51. Attraverso il confronto con Qadir, Shlaim è giunto alla conclusione che dei cinque attentati ai danni degli ebrei iracheni quattro furono organizzati da agenti sionisti, e solo uno da un estremista arabo.

 

Vittime

 

A Three Worlds si può affiancare un saggio di Ella Shohat, Le vittime ebree del sionismo, uscito negli Stati Uniti nel 1988 e tradotto in italiano nel 2015, con un’introduzione di Vera Pegna che mescola saggio e testimonianza. Come Shlaim, Shohat è una studiosa ebrea irachena, specializzatasi in studi postcoloniali e formatasi negli Stati Uniti. Il suo lavoro sulla storia e l’identità dei mizrahi è confluito nel libro On the Arab Jew, Palestine, and Other Displacements[9]. Nata ad Alessandria d’Egitto, Pegna – anche lei ebrea – ha alle spalle una lunga e vivace carriera di attivista che l’ha vista contrastare la mafia siciliana nella Partinico degli anni ’60 e in seguito denunciare l’oppressione sionista dei palestinesi.

Shohat e Pegna mettono in luce fatti e testimonianze coerenti con le tesi di Shlaim. Tra le voci che hanno suggerito la presenza di cospirazioni sioniste nei paesi arabi c’è anche quella orgogliosa del celebre generale israeliano Moshe Dayan, uno degli architetti dell’occupazione della West Bank, spesso ricordato per la sua aria da duro, il suo occhio bendato e le sue amanti. Nella sua autobiografia Dayan ha raccontato di aver personalmente portato un carico di armi – bombe comprese – in Iraq[10].

 

Se Shlaim è uno storico delle relazioni internazionali, lo studio di Shohat, sotto molti aspetti pionieristico, si muove nell’alveo della critica culturale postcoloniale, sulla scorta di Edward Said. Oltre che sulla storia dei mizrahi si concentra, infatti, sulle forme della demonizzazione sionista degli ebrei arabi, assimilati a creature inferiori per mezzo di stereotipi orientalisti di matrice coloniale.

Shohat ricostruisce la politica discriminatoria di Israele e l’ideologia che l’ha innervata. Per i fautori del progetto nazionalista israeliano, la vita dei mizrahi aveva un valore perlopiù strumentale. Nei campi di transito c’erano malnutrizione, malattie e un’elevata mortalità infantile. In alcuni casi, emissari israeliani avevano tentato una selezione preliminare, basata sulle caratteristiche fisiche, dei candidati all’immigrazione destinati a diventare la forza lavoro del nuovo stato (una pratica che ricorda le selezioni eugenetiche a Ellis Island all’inizio del Novecento).

 

Nulla era lasciato al caso. I mizrahi venivano spesso alloggiati in città di nuova fondazione in zone rurali o di frontiera, più esposte degli insediamenti ashkenaziti. Se gli ebrei ashkenaziti (o più in generale europei) avevano facile accesso a carriere amministrative, i mizrahi – anche se qualificati – riuscivano ad accedere solo a lavori di livello inferiore. Nel corso dei decenni, il divario socioeconomico tra i sefarditi e gli ashkenaziti è diminuito ma non si è annullato, ed è tuttora oggetto di studi e dibattiti.

Il ruolo di “altro” interno dei mizrahi solleva domande di natura politica. Qual è stata la loro posizione sulla questione palestinese? Shohat si sofferma sulla linea adottata da associazioni politiche create da mizrahi. Significativamente, negli anni ’70 furono dei giovani mizrahi a fondare (secondo alcuni dopo un incontro con Angela Davis) le Pantere nere israeliane. Negli stereotipi negativi che li riguardavano, prodotti dalla macchina ideologia sionista, riconoscevano analogie con gli stereotipi razzisti partoriti dalla cultura coloniale. Le Pantere nere d’Israele sostenevano la necessità di un dialogo con i palestinesi, dei quali riconoscevano il diritto all’autodeterminazione. Negli anni ’80, organizzazioni israeliane di sinistra animate da mizrahi come East for Peace e The Oriental Front promossero apertamente l’idea di uno stato palestinese amministrato dall’OLP.

 

È importante aggiungere, tuttavia, che l’ascesa repentina della destra del Likud e del suo leader Menachem Begin fu resa possibile, negli anni ’70, dall’ampio consenso che riscossero tra i mizrahi, continuato negli anni successivi. Come nell’Europa dell’ultimo decennio, il sostegno all’ultradestra è venuto dalle aree depresse, e si è accompagnato alla demonizzazione di un’etnia altra che minaccia le frontiere. Lo schema è quello consueto. I movimenti ultranazionalisti stimolano la coesione sociale agitando spauracchi ed evocando invasioni, e così facendo permettono alle vittime di diventare oppressori.

 

Fedeltà complesse

 

Oltre a far luce su una pagina importante di Israele e sui suoi vizi congeniti, Three Worlds e Le vittime ebree del sionismo ci ricordano che il sionismo non è l’ebraismo. La matrice coloniale dello stato di Israele è stata evidenziata fin dai suoi albori da molti ebrei della diaspora, che hanno espresso le proprie critiche sulla base delle motivazioni più varie, a volte politiche a volte religiose, non di rado incentrate su un’idea dell’ebraismo come comunità culturale e spirituale. A volte la presa di distanze dal nazionalismo israeliano è nata da un’esperienza diretta dell’oppressione sionista.

 Le posizioni di dissenso di Shlaim e Shohat non sono, insomma, espressione di un paradossale spirito antiebraico. Se si allarga lo sguardo, si rivelano in linea con un’attitudine che ha reso la grande cultura ebraica centroeuropea – la cultura di Marx, Freud, Kraus, Kafka e Benjamin, per nominare solo alcuni – uno dei pilastri dell’occidente moderno: dalla vasta realtà ashkenazita otto- e novecentesca è nato non soltanto lo stato d’Israele.

 

Con le identità nazionali questa cultura ha avuto un rapporto tormentato ma fecondo. La perenne oscillazione tra estraneità e assimilazione l’ha resa un focolaio di spirito critico. Il senso di sradicamento e il cosmopolitismo che l’hanno a lungo permeata si sono tradotti in idee e valori dal respiro universalista, in particolare nella capacità di osservare dall’esterno i meccanismi infidi dell’identità nazionale. 

La sua carica scettica è stata ben evidenziata – e perpetuata – da un altro importante intellettuale ebreo attivo in tempi più recenti. Si tratta del comparatista George Steiner, nato a Vienna e formatosi in Francia e negli Stati Uniti, che nel saggio “Una specie di sopravvissuto”, del 1965, ha espresso forti perplessità nei confronti della politica di Israele[11].

 

Vorrei soffermarmi, per concludere, sulle parole di Steiner, perché pur riportandoci al cuore dell’Europa pre-nazista ci consentono di mettere ulteriormente in discussione l’equazione tra sionismo ed ebraismo, e perché quel che è successo nell’ultimo anno e mezzo le rende ancora più significative.

Steiner prende le mosse dal suo rapporto con l’Olocausto, dal quale si salvò grazie alla decisione di suo padre di riparare negli Stati Uniti. “Il cupo mistero di quanto accadde in Europa non è per me separabile dalla mia stessa identità”, scrive Steiner, in anni in cui la memoria collettiva dell’Olocausto era tutt’altro che sviluppata. Si sofferma poi sull’incubo della violenza antisemita e con decisione scinde l’esperienza ebraica, specialmente quella posteriore all’Olocausto, dall’ortodossia religiosa: “l’antisemita non è un teologo, ma la sua definizione è comprensiva. E dunque ce ne saremmo andati tutti insieme, l’ortodosso e io”.

 

È sempre sullo sfondo dell’Olocausto che Steiner inquadra la natura dello Stato di Israele, che “fa senza dubbio parte dell’eredità dello sterminio di massa tedesco”, perché “dall’orrore è scaturita la possibilità nuova”. Ma in questa possibilità non sembra vedere una garanzia di progresso morale e civile, né un modo per redimere l’orrore da cui è scaturita. Nel destino nazionale incarnato da Israele Steiner non si riconosce. Il suo ideale punto di riferimento è, di contro, quel che l’Olocausto ha drasticamente interrotto: una stagione della storia culturale ebraica lunga circa un secolo e fatta da un’élite intellettualmente molto vivace, inserita in una civiltà borghese (ebraica e non solo) che ne ha accolto e sviluppato le invenzioni. Una cultura che si è espressa in un ricco “umanesimo centroeuropeo”, ricco di posizioni eccentriche o di aperto dissenso.

 

Definendone le radici e i tratti, Steiner mette l’accento – forse echeggiando Hannah Arendt – sulla condizione di “paria” vissuta, per secoli, dagli ebrei; in particolare su “un senso della nazionalità […] critico e instabile”, che si è contrapposto alla ferocia dei nazionalismi. Osserva poi che l’ebreo ha finito col pagare il debito contratto (metaforicamente) con la creazione dell’idea del “popolo eletto, di nazione esaltata sulle altre da un destino particolare”: tra le idee fondanti di una cultura occidentale che, specialmente negli anni del colonialismo, si è distinta per la sua tendenza a produrre nazioni convinte della propria superiorità e della propria vocazione alla supremazia. “Ma se il veleno”, prosegue, “è, per la sua antica origine, ebraico, ebraico forse è anche l’antidoto”, che potrà rendere “scettico e umano l’esercizio della propria lealtà”.

Secondo Steiner, la distanza dai nazionalismi che ha caratterizzato l’umanesimo ebraico centroeuropeo e l’esperienza plurisecolare dell’ebraismo della diaspora possono costituire un’alternativa alla militanza sionista. Il modo in cui nelle righe successive descrive la vicenda di Israele lascia poco spazio ai dubbi: “germinato dalla disumanità e dall’imminenza del massacro”, Israele “ha dovuto trasformarsi in un pugno chiuso”. È invece in questi termini, di tutt’altro segno, che immagina il ruolo della cultura ebraica:

 

Anche se va contro la sua volontà tormentata, la sua stanchezza, l’ebreo – o almeno qualche ebreo – può svolgere un ruolo esemplare. Mostrare che mentre gli alberi hanno radici, gli uomini hanno gambe e sono gli uni ospiti degli altri. Se non vogliamo che il potenziale della civiltà venga distrutto, dovremo sviluppare delle fedeltà più complesse e più provvisorie. Vi sono, come insegnava Socrate, dei tradimenti necessari se si vuole che la città sia più libera e più aperta all’uomo.

 

“Una specie di sopravvissuto” è del 1965: lo Stato d’Israele esisteva solo da diciassette anni, e nonostante avesse preso forma grazie all’espulsione di massa dei palestinesi sembrava più impegnato a consolidare le sue fondamenta che a perseguire un’aperta politica espansionistica. Ma alla Guerra dei sei giorni mancavano solo due anni. E c’era già chi, come Menachem Begin, per cinque anni capo dell’organizzazione terroristica Irgun e, come sappiamo, futuro capo del Likud, chiedeva l’annessione della Giudea e della Samaria e non esitava a mostrare la sua ostilità verso gli arabi (e i comunisti). Parallelamente, nel mondo occidentale la memoria dell’Olocausto cominciava a mettere radici nell’identità occidentale – sia europea che angloamericana – e, più saldamente, in quella ebraica.

 

Questo processo ha raggiunto il culmine negli Stati Uniti negli anni ’90. Nella società nordamericana post-bellica, la memoria dell’Olocausto non aveva avuto un grosso peso, e l’antisemitismo era ancora tangibile. Ma dall’inizio degli anni ’70, dopo la guerra dello Yom Kippur, le cose hanno cominciato a cambiare. La posizione degli ebrei americani si è rafforzata, e la loro identità si è ridefinita attraverso il culto dell’Olocausto e, inscindibilmente, il sostegno a oltranza a Israele. Le due cose si sono intrecciate: l’Olocausto è stato ed è abitualmente evocato anche in funzione antiaraba[12]. Al tempo stesso, l’antisemitismo si è fatto un po’ meno minaccioso, fino al paradosso dell’America di oggi. Tra i finanziatori di Trump, apertamente filoisraeliano, c’è la Republican Jewish Coalition, che ne ha sostenuto la campagna con una donazione di quattordici milioni di dollari[13], mentre molti del suo entourage si lasciano andare a gesti antisemiti che non danno scandalo e non hanno grosso seguito[14].

 

Il cambiamento politico attraversato dalle comunità ebraiche, in particolare da quelle nordamericane, è ben descritto da Enzo Traverso in La fine della modernità ebraica: dalla critica al potere[15]. Lo studio di Traverso segue infatti il passaggio, successivo alla Seconda guerra mondiale, da una cultura del dissenso specialmente centroeuropea piuttosto scettica nei confronti delle ideologie nazionaliste a una dominante culturale ebraica filo-occidentale, antiaraba e, ovviamente, filoisraeliana, legata a doppio filo all’egemonia statunitense. È un’attitudine ben rappresentata nella sfera pubblica – Henry Kissinger ne è una figura emblematica – e che sembra mettere in ombra altre eredità.

C’è ancora spazio, dunque, per l’auspicio che troviamo in “Una specie di sopravvissuto”? Sulla carta, si direbbe di sì. Il senso comune suggerisce che chi è ebreo e chi è vicino all’esperienza ebraica non possa che sentirsi lontano dai fervori nazionalistici, non possa che essere sensibile all’eventualità  che la logica quotidiana delle identità si trasformi in una macchina mortale. Nei fatti, però, non sempre le cose stanno così. Come abbiamo visto, l’Olocausto è stato eletto a segno del destino unico di un popolo. Ed è diventato l’alibi per un nuovo sterminio.

 

Ma la memoria dell’Olocausto può tornare feconda nel momento in cui sia usata costruttivamente, in una prospettiva universalistica che non rinunci a indagare le differenze storiche: per esempio ragionando comparativamente su Olocausto e Nakba, o ricordandoli insieme[16]. E questo può avvenire non solo in ambito accademico. Può avvenire anche sul piano civile e politico, nella piena coscienza di un’eredità ebraica che ha come fondamenti il dialogo, la multiculturalità e l’ospitalità: un’eredità che andrebbe rivendicata, e contrapposta all’ultranazionalismo di ispirazione sionista.

 

Il mondo di oggi non è più quello in cui Steiner ha riflettuto sulla sua condizione di sopravvissuto. Ma il suo sogno è più attuale oggi di allora. E non cade nel vuoto, anche se la strada è ancora lunga. Una capacità di fedeltà più complesse l’hanno dimostrata, sessant’anni anni più tardi, le realtà ebraiche che dopo il 7 ottobre del 2023 hanno criticato l’operato di Israele, come, negli Stati Uniti, Jewish Voice for Peace e, in Italia, il Laboratorio Ebraico Antirazzista, promotore di un appello di ebrei italiani recentemente pubblicato su “Repubblica” e “il Manifesto”. Esempi di un’apertura convinta a istanze di pace, dialogo e rispetto reciproco, come pure dell’adesione a una prospettiva ebraica non difensiva ma aperta alla storia, che concepisce la casa della memoria come luogo di incroci, conversazioni e analogie. E in tempi di nazionalismo diffuso e di connivenze tra nazionalismi le fedeltà complesse non possono e non devono riguardare solo un gruppo. Una volta ancora, l’esperienza ebraica sembra assumere un significato più ampio.

 

Note

 

[1] Nissim Vaturi: https://x.com/nissimv/status/1710694866009596169; Moshe Feglin: https://www.newarab.com/news/israel-diplomat-calls-destruction-gaza-tv-rant; Yoav Gallant (e altri): https://www.icj.org/resource-region/middle-east-and-north-africa/palestine.

[2] Avi Shlaim, Genocide in Gaza: Israel’s Long War on Palestine, The Irish Pages Press, Belfast, 2024.

[3] Avi Shlaim, Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, Il ponte editrice, Firenze, 2003 (ed. or. 2000).

[4] https://novaramedia.com/2025/03/21/were-witnessing-the-last-gasp-of-israeli-violence-in-conversation-with-avi-shlaim

[5] Avi Shlaim, Three Worlds: Memoirs of an Arab Jew, Oneworld, London, 2023.

[6] Three Worlds, p. 30.

[7] Ella Shohat, Le vittime ebree del sionismo, a cura di Cinzia Nachira, introduzione di Vera Pegna, Edizioni Q, Roma, 2015, p. 56.

[8] Three Worlds, p. 231.

[9] Ella Shohat, On the Arab Jew, Palestine, and Other Displacements, Pluto Press, London, 2017.

[10] Moshe Dayan, Story of My Life, Weidenfeld and Nicolson, London, 1976, p. 55.

[11] In George Steiner, Linguaggio e silenzio. Studi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, Garzanti, Milano, 2001.

[12] Cfr. Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano, 2025, pp. 161-204.

[13] https://www.trackaipac.com/trump

[14] https://www.vox.com/on-the-right-newsletter/404898/trump-pro-israel-antisemitism-musk-columbia

[15] Enzo Traverso, La fine della modernità ebraica: dalla critica al potere, Feltrinelli, Milano, 2013.

[16] Cfr. per esempio, Bashir Bashir e Amos Goldberg (a cura di), Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, Altrimondi, Viterbo, 2023 (ed. or. 2019).

 

[Immagine: Jonah Braverman/Novara Media].

1 thought on “I tre mondi di Avi Shlaim: Israele e le vittime ebree del sionismo

  1. L’articolo è davvero molto interessante per l’argomentazione e le fonti citate. Grazie davvero.
    Solo una piccola notazione. Il libro citato nell’ultima nota, Olocausto e Nakba, contiene una citazione in parte sbagliata in quanto la casa editrice è: Zikkaron di Bologna
    grazie per l’attenzione, fabrizio m.

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