Ho 41 anni, e sono un nativo digitale.
Perché ho solo vaghi ricordi del prima. C’era il film su RaiUno il lunedì sera. Poi, a un certo punto, Dallas su Canale 5. Lunghi pomeriggi passati a casa a leggere, senza interruzioni. Un quotidiano solo, La Stampa (vivevo a Torino). Scrivevo e ricevevo lettere di carta, che in buona parte ho conservato in una scatola da scarpe, e devo dire che, tra le tante possibili, questa è l’esperienza che rimpiango più spesso, e che più mi dispiace non poter condividere coi ventenni di oggi: «Stringo nella tasca una lettera di stamani» è un verso di Fortini che mi ha sempre commosso. Vent’anni di internet (ho spedito la mia prima e-mail all’inizio del 1992) hanno fatto diventare remotissimo questo passato prossimo.
Così, per un certo periodo, per capire non solo ciò che mi stava succedendo intorno ma anche ciò che stava succedendo a me, ho letto tutto quello che mi capitava sottomano sul tema internet e, soprattutto, sul tema ‘L’istruzione, l’informazione e la circolazione delle idee al tempo di internet’. Ho smesso di farlo per due ragioni. La prima è che la situazione è così fluida che qualunque saggio sul tema invecchia in pochi mesi: non si fa a tempo a preoccuparsi di Second Life che Second Life passa di moda; non si fa a tempo a dire che il mondo del futuro avrà bisogno soprattutto di esperti in decimazione che già il mondo del futuro dimostra di non sapere bene che farsene, dei decimatori. Ogni analisi, ogni previsione, diventa subito archeologia. La seconda ragione è che i saggi che leggevo tendevano a polarizzarsi tra favorevoli e contrari, come se invece che di capire la trasformazione in corso si trattasse di fare il tifo.
I favorevoli erano molto favorevoli: non era chiaro che internet avrebbe realizzato, con altri mezzi, i sogni irrealizzati del Sessantotto? I contrari erano molto contrari. Non era chiaro che internet avrebbe distrutto la civiltà che avevamo costruito con infinita pazienza nel corso di secoli e che al suo posto avrebbe messo, esattamente, niente? I favorevoli erano intelligenti, brillanti, inattendibili e un po’ fatui. In Cultura convergente (Apogeo 2007), Henry Jenkins riesce a trovare bello tutto, proprio tutto quello che corre online, dai pomeriggi passati a chattare sul tema ‘Chi è il prossimo a uscire dalla casa del Grande Fratello’ ai pettegolezzi su American Idol («Storicamente, il gossip è stato relegato a ‘chiacchiera oziosa e inutile’, ma, negli ultimi decenni, le studiose femministe hanno cominciato a rivalutarne l’importanza nella comunità delle donne»: ma tutto il paragrafo Come il gossip stimola la convergenza fa sognare). In Tutto quello che fa male ti fa bene (Mondadori 2006), Steven Johnson difende con argomenti anche sensati la causa dei videogiochi e delle serie televisive, ma poi il ruolo che si è scelto gli prende la mano, esagera, scrive cose come: «Non è richiesto un grande stimolo cognitivo quando si imparano le regole di un telefono a disco. Ma si può perdere una settimana esplorando tutti gli angoli nascosti e le pieghe di Microsoft Outlook» (p. 108). E perché mai, si vorrebbe domandare a Steven Johnson, una persona sana di mente dovrebbe passare una settimana ad esplorare «tutti gli angoli nascosti e le pieghe di Microsoft Outlook»? A che serve reagire a questo stimolo cognitivo? E non sta qui, in questo capovolgimento tra mezzi e fini, una delle giuste ragioni d’allarme degli intellettuali su cui ironizzano Jenkins e Johnson?
I contrari erano intelligenti, colti e un po’ più grigi, e molto meno fatui. Magari non per indole, ma perché questo è il ruolo che tocca a chi non abbraccia volentieri il cambiamento: gli euforici sono gli altri. Il libro migliore che io abbia letto, all’interno di questo genere, è Against the Machine di Lee Siegel, tradotto l’anno scorso da Piano B Edizioni col titolo (un po’ infame) Homo Interneticus. Lo consiglio caldamente. Sulla linea critica, anzi ipercritica, di Siegel, esce ora da Garzanti un libro di Raffaele Simone dal titolo Presi nella rete (ma uno sforzo di fantasia, o editori italiani, almeno nei titoli?).
Simone ha un profilo molto diverso rispetto a quello di coloro che si occupano in genere di questi argomenti: è uno dei linguisti italiani più insigni, ha scritto saggi belli e importanti sull’istruzione (L’università dei tre tradimenti dovrebbe essere una lettura obbligatoria per le matricole di tutte le facoltà) e un romanzo sugli ultimi mesi di vita di Cartesio (Le passioni dell’anima, Garzanti 2011). Da uno studioso con questa formazione ci si poteva aspettare un libro risolutamente contrario alla civiltà digitale: alla sua fretta, alla sua approssimazione. Presi nella rete non tradisce le attese: l’inciviltà digitale – sostiene Simone – rende i media ubiqui e ossessionanti (cellulari che squillano ovunque, brandelli di conversazione altrui che siamo costretti ad ascoltare); restringe lo spazio della lettura e della scrittura e amplia enormemente quello dell’immagine, che è più semplice e più povera di contenuto, e asseconda la pigrizia; indebolisce la memoria; mette a rischio l’integrità dei testi (citazioni che rimbalzano di sito in sito, interpolazioni e tagli arbitrari); asseconda le opinioni irriflesse e dà a qualsiasi idiota la facoltà di urlare la propria (basta un giro tra i commenti su YouTube, o nei blog culturali); è per natura nemica dei saperi tradizionali, quelli che si acquisiscono attraverso lo studio; fa piazza pulita della varietà linguistica imponendo a tutti quanti un inglese da aeroporto; isterilisce l’«arte del narrare» perché modifica radicalmente le forme dell’esperienza umana. Eccetera.
Dato che collaboro al supplemento culturale del Sole 24 ore, temo di condividere molte delle preoccupazioni e delle insofferenze di Simone. Fossi un entusiasta del web, scriverei su Nova, e sarei meno nervoso. Di fatto, il libro di Simone dice dei media attuali molte delle cose che sui media attuali penso anch’io nei miei momenti di cattivo umore. Ciò che trovo contestabile non è il fatto che Simone non spenda una parola su quanto di buono in internet c’è o ci potrà essere in futuro: Simone ha tutto il diritto di scrivere un saggio a tesi. Ciò che trovo contestabile è che, in tutto il libro, Simone contrapponga un modo giusto a un modo sbagliato di fare, pensare e comunicare le cose, e che il modo giusto sia sempre quello di ieri, e il modo sbagliato sempre quello di domani. Il testo digitale non porta tracce fisiche di chi l’ha scritto, e questo è un male; la lettura non si fa più soltanto in spazi isolati e silenziosi ma anche in mezzo alla folla, in modi «vaghi e irriverenti» (Steiner), e questo è un male; l’e-book non si può sfogliare, e questo è un male; i giovani «hanno un’idea di narrazione e di ‘storia’ […] del tutto diversa dalla nostra, cioè da quella dei componenti delle generazioni del dopoguerra», e questo è un male…
Ripeto: io credo che Simone abbia spesso ragione nello specifico; ma credo che abbia torto nell’impostazione generale del discorso. Da circa un secolo a questa parte (più precisi? 1912: l’anno in cui comincia Downton Abbey) tutti i nonni sanno che i loro nipoti vivranno in un mondo molto diverso da quello in cui hanno vissuto loro. Negli ultimi decenni il tempo è andato più in fretta, e non accenna a rallentare, così la forbice ha cominciato ad aprirsi tra i genitori e i figli, tra i figli maggiori e tra i figli minori. Soggettivamente, non è un processo facile da accettare: a quarant’anni, uno si trova a scuotere la testa davanti a un mucchio di cose. Se poi è laureato in Lettere, gli capita spesso di prendersi la testa fra le mani. Ma è una debolezza a cui dovremmo cercare di resistere. Non perché non serve a niente e vi fa il vuoto attorno (anche). Ma perché proprio l’esperienza del passato ci dice che, se saremo fortunati, nel mondo di domani i nostri figli avranno problemi e opportunità che oggi neppure immaginiamo, e che gli strumenti di cui si serviranno per risolvere questi problemi e per approfittare di queste opportunità avranno poco a che fare con quelli che oggi ci sono familiari; e perché forse la loro stessa intelligenza, plasmata dal nuovo ambiente nel quale vivranno, seguirà vie che oggi noi non siamo in grado di vedere. È una prospettiva che può generare ansia: a me la genera. Ma nella riflessione sull’avvenire dovremmo sforzarci di abolire parole come ‘meglio’ o ‘peggio’, ‘giusto’ o ‘sbagliato’, e accontentarci di ‘diverso’; dovremmo privilegiare l’analisi rispetto al giudizio (di fatto, mi pare che le cose più interessanti sulla svolta digitale non le stiano scrivendo né i filosofi né i moralisti ma gli psicologi e i sociologi: per esempio Sherry Turkle in Insieme ma soli, Codice Edizioni 2012); e dovremmo cercare di ridurre al minimo i confronti col mondo del passato: non tanto perché a una certa età si diventa inadattabili, e si tende alla nostalgia (i due saggisti contemporanei che Simone cita più spesso, e con più favore, sono George Steiner e Giovanni Sartori, ed è chiaro che non va bene), quanto perché il mondo del passato non c’entra molto col mondo del futuro.
[Immagine: Bambino (cg)].
Condivido del tutto. Vivo quotidianamente in mezzo ai cosiddetti nativi digitali (quelli veri, quelli che hanno iniziato a muovere le dita su mouse e tastiere prima di avere sviluppato del tutto l’intelligenza logica e il linguaggio verbale), e alla fin fine non trovo di nessuna utilità le lamentazioni rivolte al passato. Bisogna solo analizzare, e poi fare una grande fatica per insegnare agli studenti come si usano gli strumenti. Forse molti di quelli che insegnano non hanno voglia di fare questa fatica. Aggiungo solo che, in Italia, la patologia del “torcicollo”, dello sguardo sempre rivolto al passato mentre si va avanti, è più grave: pervade ogni ambito della vita sociale, dalla politica alla cultura all’istruzione.
Mah, mi pare che il contenuto di fondo dell’articolo proposto sia quello di raccomandare la sospensione del giudizio: qualunque innovazione venga introdotta nella nostra vita quotidiana, non stiamo a perdere tempo per analizzarne la natura e i suoi potenziali effetti più o meno remoti, ma adeguiamoci senza rompere le scatole.
Ebbene, proprio questa stessa convinzione è il frutto più significativo dei nostri tempi, e spiega perfettamente come la tecnologia e i suoi più improbabili sviluppi possano determinare le nostre vite senza che ci sia qualcuno che rifletta su quello che succede.
Sarà anche una cosa complicata fermare un treno in corsa, ma qui addirittura lo si teorizza come comportamento augurabile: adeguatevi e smettete di esercitare una qualsivoglia capacità critica, alla tecnologia ed al suo libero dispiegarsi le analisi critiche non solo non servono, ma anzi disturbano, tutti cheti ad introiettare l’ultima idiozia che ci viene propinata.
@Cucinotta
io credo che la posizione di Giunta sia l’unica posizione realistica. La tecnologia dà forma a un’epoca e non può essere eliminata. L’unica cosa che possiamo fare è usarla criticamente e starci dentro, per quanto possibile. Però io capisco il suo sdegno di fronte a quelli che si esaltano per l'”ultima idiozia che ci viene propinata”, soprattutto quando leggo articoli cretini come questo:
http://www.repubblica.it/scuola/2012/05/24/news/scuola_ricerca_ipsos-35795034/?ref=HREC1-11
Evidentemente per La Repubblica gli insegnanti che “non chattano e non utilizzano i network sociali” sono oggetto di ludibrio, come se per un insegnante fosse doveroso chattare. Le opinioni degli “euforici” (come li chiama Giunta) sono le più fastidiose da sostenere.
Questo è uno degli articoli più belli che ho letto su LPLC – per il taglio narrativo, per il tono e per quello che dice.
“Se poi è laureato in Lettere, gli capita spesso di prendersi la testa fra le mani. Ma è una debolezza a cui dovremmo cercare di resistere. Non perché non serve a niente e vi fa il vuoto attorno (anche).”
I cambiamenti della nostra forma di vita e delle condizioni dell’esperienza – una generazione dopo l’altra – portano sofferenza a chi si trova nel passaggio; affrontarli è, in un certo senso, come morire e rinascere. I libri e la letteratura occupano un posto diverso nelle vite degli studenti che incontro, rispetto al posto che ancora occupavano (o che credevo occupassero) nella mia vita – ed era ancora diverso il posto che occupavano nella vita dei miei insegnanti. Aprire gli occhi su questo, come ci permette di fare qui Claudio Giunta, è come svegliarsi da una condizione angosciante di dormiveglia.
Io dentro questo mondo digitale ci sto da tanto tempo – è il mio lavoro – da prima di internet, più o meno dal periodo in cui si incominciò a parlare di personal computer, quando gli hard disk più capienti erano da 20 megabyte; eppure non riesco ad essere del partito dei “molto favorevoli”. Certo, ridursi a fare i Don Chisciotte contro le nuove tecnologie è un atteggiamento un po’ ingenuo: queste sono qui, la stragrande maggioranza delle persone le usano, e le usano soprattutto in modi abbastanza discutibili se non ridicoli, ma tant’è. Personalmente non rinuncerò mai ai libri stampati in favore di eBook o derivati, che trovo, tra l’altro, sostanzialmente un modo per accrescere i profitti da parte delle case editrici, abbattendo i costi di lavorazione e delle materie prime – tra l’altro facendoci anche ipocritamente una bella figura come difensori delle foreste!
Riguardo poi ai modi di usare le tecnologie – che forse è il problema più importante – non ritengo che ci si debba sentire in colpa se non si partecipa ai forum, se non si è iscritti a Facebook o a Tweeter, o che ci si debba sentire sminuiti se si vede poca televisione o non si è in grado di spedire sms alla velocità del suono usando un italiano alquanto improbabile. Quello che deve far riflettere è invece se non esistano modi diversi e più intelligenti di quelli citati per usare la tecnologia: io – ma ammetto la mia ignoranza in merito – non ne conosco molti, e vedo solo primeggiare idiozia e vacuità. Ci sono buone probabilità che se ne inventino nel futuro, ma ovviamente non si può dire. Se poi invece il discorso si riduce solo ad aspetti economici e di comodità – è più facile e veloce reperire le informazioni, si possono creare, con gli iperlink, molti più collegamenti e rimandi – non mi sembra che nel passato questo abbia frenato, quando internet non esisteva, dal produrre conoscenza significativa e lavoro scientifico rilevante. Magari si doveva solo lavorare un po’ di più… senza poi citare l’importantissimo problema del controllo della qualità delle informazioni presenti oggi in rete, e spesso purtroppo usate acriticamente.
Cerchiamo pure di curarci il torcicollo, come dice Mauro Piras, ma io non penso che scimmiottando con i nuovi “giocattoli” elettronici i vecchi modi – vecchi, ma comunque validi – di produrre e di fruire cultura, si migliori in modo significativo la qualità della conoscenza. Probabilmente ci sono degli aspetti molto sottili relativamente all’uso di questi strumenti, legati al funzionamento cognitivo della mente, che non sono ancora del tutto chiari, ma che non è detto che siano necessariamente positivi. Claudio Giunta cita alcuni titoli, io mi permetto di aggiungerne uno al partito dei tecnoscettici: “Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello”, di Nicholas Carr.
Il solo atteggiamento che credo sia auspicabile è quello (severamente) critico, non luddista, ma soprattutto creativo, perché forse – e sottolineo il forse – quello che si può utilmente fare con il “digitale” non è ancora stato inventato.
Condivido ogni lettera e tutto lo spirito dell’intervento. Soprattutto lo spirito, anche perché è applicabile praticamente a tutti i problemi in cui si dibatte la cultura umanistica, altro che solo scuola e tecnologia.
Definirei l’atteggiamento di Giunta “scetticismo ottimista”. Di fondo, c’è il pessimismo o realismo (fate voi) di chi comprende che “la storia non è prodotta / da chi la pensa e neppure / da chi l’ignora. […] La storia non giustifica / e non deplora”: per cui, preliminarmente, forse converrebbe accordarsi sul fatto che accadrà quel che deve accadere. Su questo fatalismo si innesta però l’intelligentissima incongruenza dell'”eppure”: è così, eppure…
Finché siamo in vita, qualche speranza c’è e a noi spetta comunque (nonostante tutto, per quanto sembri assurdo) agire. Se fossimo fuori della speranza saremmo già più non vivi: morti, morti in vita, o anelanti il suicidio. Spes contra spem.
Probabilmente Giunta è anche molto più ottimista di Montale, il cui residuo di speranza era comunque ben meno largo del suo, visto che i suoi sopravvissuti non sanno di esserlo e la storia vince definitivamente sulla coscienza che l’uomo ne ha: “La storia gratta il fondo / come una rete a strascico / con qualche strappo e più di un / pesce sfugge. / Qualche volta s’incontra l’ectoplasma / d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. / Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. / Gli altri, nel sacco, si credono / più liberi di lui”. Giunta invece crede che comunque il futuro darà ragione al nostro presente: “nel mondo di domani i nostri figli avranno problemi e opportunità che oggi neppure immaginiamo, e che gli strumenti di cui si serviranno per risolvere questi problemi e per approfittare di queste opportunità avranno poco a che fare con quelli che oggi ci sono familiari; e perché forse la loro stessa intelligenza, plasmata dal nuovo ambiente nel quale vivranno, seguirà vie che oggi noi non siamo in grado di vedere”.
Per tutte queste ragioni, mi sentirei di dissentire vivacemente da Cucinotta, che trova in queste parole un invito al passivo adeguamento all’ananke: mi sembrano invece un pragmaticissimo invito ad agire, lasciati da parte tanti pseudoproblemi che invece che portarci nel cuore del fenomeno, ce ne allontanano arzigogolando (in questo cenno alla malizia non mi riferisco a lei, Cucinotta, sia chiaro).
(Mi scuso con l’autore se sono andato forse ben oltre le sue intenzioni: ho interpolato qualcosa del mio, ma fa piacere trovarsi proprio sulla stessa lunghezza d’onda).
Trovo molto interessante questo post. Però trovo un po’ sconfortante l’immagine del laureato in lettere che si mette le mani tra i capelli più spesso degli altri, segnato intimamente da una maggiore debolezza rispetto al resto degli esseri umani (con i quali dovrebbe adottare un silenzio alla Nicodemo…).
Non mi ci ritrovo, pur essendo laureato in lettere, per di più classiche. Non sento nostalgie di sorta, o quasi. Anzi, provo un certo fastidio per chi mi viene a fare l’elegia del libro di carta (chissà, forse perché sono asmatico o perché trovo che un libro di carta, soprattutto se con copertina rigida, sia scomodo da leggere a letto), mi irrito con chi pensa che internet stia ammazzando la spiritualità e chi ha nostalgia dei tempi in cui certi libri li potevi leggere solo in sperdute biblioteche sotto l’occhio vigile di torvi bibliotecari. Al limite mi arrabbio perché nessuno ha ancora digitalizzato un sacco di roba interessante su cui vorrei mettere le mani, mentre mi compiaccio delle chicche che trovo in giro negli archivi digitali on-line. Mi piacciono gli aggregatori di notizie, le nuove forme di espressione, ecc. ecc. Non lo faccio in maniera resistenziale, ma convinta.
Poi, oh, sarà banale, ma a me la mia formazione “classica” piace (anche se me la sono modificata abbastanza rispetto a come mi è stata consegnata a scuola e all’università). Mi dà profondità storica, stimola la mia curiosità, mi permette di relativizzare molte cose e di apprezzare di più il presente o di criticarlo con più cognizione di causa. Non la vedo messa in pericolo dal progresso. Anzi, mi piace proprio vedere come l’uomo risponda ai propri bisogni oggi e come vi rispondeva decenni o secoli fa o altrove.
E questo mi permette di fare un lavoro, l’insegnante, che mi sembra ricco di senso, e non mi sento un sacerdote di un culto morente.
Ecco, quello che penso, in effetti, è che le lettere, la storia e l’umanesimo in genere funzionano meglio nelle scuole che nell’accademia, dove è facile prendere atteggiamenti di sdegnosa lontananza e autoreferenzialità, se devo dirla tutta. Anzi, il loro ruolo è di stare nel mondo, e internet gli permette di farlo.
Forse sono andato fuori traccia, di sicuro sono stato prolisso. Però, insomma, quel che volevo dire l’ho detto.
Grazie per la lettura e i commenti, sensati e più pieni d’esperienza dell’articolo. L’articolo in realtà voleva essere non su internet i cellulari etc. ma sulla retorica del discorso su internet i cellulari etc. Non sulla cosa ma su come parlare della cosa. Perché quanto alla cosa io la penso esattamente come tutti, tutti gli intervenuti: cioè cambio idea di continuo a seconda dei giorni, delle ore e delle occasioni che si presentano. Cosa pensi di internet finisce per essere una domanda simile a ‘cosa pensi della vita?’. Beh, bella a volte, rischiosa, inutile, ma già che c’è viviamola… Di qui l’idea di fondo che parlare (da filosofi-moralisti) della svolta digitale sia un po’ come parlare della vita in generale: troppo vago, troppo astratto, troppo difficile perché possa venir fuori qualcosa di interessante. Meglio chi ne isola dettagli e li approfondisce. O meglio tacere. Dunque l’idea era appunto questa: capire come bisogna parlare delle cose e, soprattutto, come non bisogna parlarne – una questione ovviamente meno cruciale della Cosa in sé, ma secondo me importante.
Comunque, a parte i libri citati (tutti meritevoli di lettura, e senz’altro anche quello di Simone [ma di Simone è notevolissimo soprattutto “L’università dei tre tradimenti”, che magari qualcuno non ha letto: eccellente]), dedico a tutti questi otto minuti di genio in un americano un po’ spietato – si parla di cellulari e aerei, e il tono mi sembra quello giusto:
Tanto per dare alle fonti quello che è delle fonti:
http://www.minimumfax.com/libri/scheda_libro/173
In realtà la battuta è vecchia di cinquant’anni e, insieme alla variante “La nostalgia non è più quella di una volta”, viene attribuita a Yogi Berra, mitico allenatore di baseball incline alle gaffes (cioè, un lettore americano pensa subito a lui: Strand pensa a lui). Se ne trovano un po’ (compresa quella sul futuro) qui:
http://www.yogiberra.com/yogi-isms.html
Ah, segnalo, oltre ovviamente alla “Terza fase” del già citato Simone, Lucio Russo, “La cultura componibile”. Contiene acute riflessioni su università, iperspecialismo, cultura umanistica e scientifica, … Se si ha la pazienza di leggerlo fino alla fine (è un pamphlet di poche pagine, non è difficile), si scopre che, proprio in cauda, l’autore rivela di essere tutt’altro che apocalittico, a suo modo aperto al nuovo.
Totalmente d’accordo con Cucinotta.
Giunta non ha letto “Presi nella rete”, o, se lo ha letto, non lo ha capito, o peggio, lo ha volontariamente travisato.
Purtroppo…
Approfitto dell’atteggiamento dialogico (ed invero un po’ ecumenico) di Giunta per entrare minimamente nel merito.
Ciò che proprio non posso accettare della sua inpostazione è il trasformare una riflessione di tipo filosofico in una riflessione di tipo psicologico, questa derubricazione di qualsiasi obiezione sulle novità tecnologiche in un problema quasi di carattere personale.
Questa, di tutte le possibili operazioni, è la più autoritaria che si possa concepire, come se io parlassi con qualcuno e gli imponessi a un certo punto di prendersi uno psicofarmaco perchè sta delirando, come appunto si usano gli ospedali psichiatrici con i dissidenti. Quando lei afferma che non intendeva parlare delle novità tecnologiche, ma della retorica del discorso che le concerne, lei non fa altro che mettersi in cattedra e guardare alle persone come se fossero animali da laboratorio, anche se benevolmente ci concede che anche lei è come noi (però ha questo posto di osservazione privilegiato esterno al nostro mondo quotidiano.
Mettersi da un non luogo guardi che lo sappiamo fare in tanti, ed anche io credo che lei esprima con questo atteggiamento filosofico solo la tendenza istintuale dell’uomo ad imitare chi ci sta attorno, anche il suo atteggiamento da studioso di psicologie collettive è assoggettabile allo stesso tipo di approccio, ma così il discorso si incarta all’infinito.
Lei ha tutto il diritto di obiettare sul merito delle accuse che un cretino come me può fare alla tecnologia, ma non ha nessun diritto di considerarmi un poveretto incapace di adattarsi a un nuovo contesto, perchè criticare è anch’essa una forma, invero alquanto sofisticata, di adattamento ambientale, non è molto perspicace credere che l’unica forma di adattamento sia quello di accettare tutto senza obiezioni.
Guardi Giunta che il futuro ha moltissimo a che fare col passato, non è qualcosa che nasce dal nulla, niente nasce dal nulla, tutto il futuro ha la sua fonte nel passato, ed è non solo naturale ma anche logico considerare le novità, anche quelle tecnologiche, per il loro impatto su ciò che preesisteva. Mi pare molto più stupido fare tabula rasa della propria esperienza e sapienza del mondo allì’arrivo dell’ultimo oggetto tecnologico.
Infine, non capisco cosa lei intenda quando parla di analisi come alternativa al giudizio, l’analisi ha senso solo se si è in grado di esprimere giudizi, non è che si tratti di due termini alternativi tra loro, un criterio di giudizio ci vuole in ogni caso se si vuole esprimere una critica, dire che non ha senso esprimere giudizi di merito significa solo che dobbiamo comportarci come se fossimo bot invece che uomini.
Mi stupisce constatare come sia sfuggito a Claudio Giunta, che si autodefinisce (con un certo orgoglio, mi pare) “nativo digitale“, che Raffaele Simone ha studiato filosofia (http://host.uniroma3.it/dipartimenti/linguistica/doc_simone.html), e matematiche e diritto (http://it.wikipedia.org/wiki/Raffaele_Simone).
A quanto pare – e Giunta sta qui per dimostrarlo – il fatto che la rete sia colma di pareri, sfoghi, informazioni e sapere, spesso alla rinfusa e alla portata di tutti, non rende i nativi digitali più capaci o veloci di attingere informazioni, elaborarle e produrre giudizi ben ponderati.