[Questo articolo è già uscito sul supplemento “la Lettura” del “Corriere della Sera”].
Per chi scrive oggi il critico? A chi sono diretti i suoi affondi, le sue analisi, le sue discettazioni? E, quando queste ultime si presentino come suggestioni, impressioni, divagazioni, quale può esserne la destinazione o il «recipiente» (con una polemica definizione d’autore)? La critica, ci ha insegnato un dibattito più che ventennale, è soprattutto ermeneutica: corpo a corpo con il testo, dialogo con la comunità degli interpreti, o, più in generale, con i lettori, alla ricerca dei significati. In che modo dialoga, rispettivamente con il testo, con la comunità degli interpreti e con i significati, un libro come Montale sentimentale, di Giorgio Ficara?
Del testo, diremo dopo. Cominciamo con l’elemento più debole: i lettori. Per costoro, nessuna pietà. Chi volesse affrontare il saggio senza le poesie montaliane sottomano (ad esempio in treno, come a chi scrive è capitato) non vi troverebbe praticamente nessun riferimento puntuale o supporto alla memoria atto alla loro identificazione, se non nelle ultime pagine. Certo, se ne propone la rilettura sequenziale, l’analisi, cioè, delle poesie che il testo in oggetto (meglio, la sezione del testo) compongono, nell’ordine esatto in cui esse si presentano, ma il lettore che non le abbia tutte in mente, deve via via dedurre che di ciò si tratti, perché nessuno ha pensato di indicarglielo preliminarmente, com’è uso nella tradizione saggistica, anche rispetto al più vulgato dei canti leopardiani. E, per amor di didattica, si poteva indicare anche, da qualche parte del libro (magari nei primi capitoletti “estravaganti”, che fungono da introduzione al resto) che i Mottetti di cui si sta parlando sono una sezione, appunto, e la seconda, per la precisione, delle Occasioni, seconda raccolta montaliana? Non ci pare lo si dica mai, nemmeno nella bandella, così come non ci s’incarica di nominare, se non in sparuti casi, l’incipit o il numero del singolo componimento all’inizio o all’interno delle “divagazioni”. Si dirà: abbiamo a che fare con il più celebre poeta del Novecento italiano, che tutti conoscono e studiano a scuola. Benissimo: ma ciò non esime un montalista come Luigi Blasucci dall’esordire in questo modo, in due dei suoi affondi (analisi, mai discettazioni): «Casa sul mare fa parte della penultima sezione di Ossi di seppia, intitolata Meriggi e ombre», oppure, «Il titolo del componimento [Nuove stanze], il quartultimo dell’ultima sezione delle Occasioni…», e via così.
Riguardo, insieme, al testo e alla comunità degli interpreti (che i due aspetti fatalmente si legano, in virtù del carattere di classico che l’autore in questione ha assunto, e dunque di scrittore su cui, nel tempo, si è addensata una fitta bibliografia critica con cui ogni nuova analisi dovrà porsi in dialogo), rispondere alla domanda (una delle domande) da cui siamo partiti, implicherà precisarla e riformularla nel seguente modo: a chi, ma anche a cosa serve questo saggio. A scoprire (cioè a ricordarci) che la donna dei Mottetti (ma delle Occasioni) è figura dell’assenza e della mancanza, o che la donna stessa, insieme all’Amore, è, leopardianamente proprio, l’unica fonte di consolazione in un mondo inospitale? O a rinfrescarci che “ti amo” (come ribadito nella quarta di copertina) è la più noiosa e insieme la più rassicurante (e menzognera) delle dichiarazioni (e questo, con Montale?). Al di là dell’opportuno rilievo dato alla definizione continiana delle Occasioni (definizione riduttiva, peraltro, rispetto agli Ossi e invisa perciò all’autore), come libro riguadagnato a un «contenuto» e, nello specifico, a un contenuto «d’amore», sembra poi effettivamente una sorta di romanzo (o «romanzetto autobiografico», per citare al quadrato, cioè riprendere la citazione che Ficara recupera, dei Mottetti, dallo stesso Montale) questo attraversamento condotto in (sola) chiave sentimentale, e non è l’unico caso di mimetismo (un po’ forzato) nel panorama critico contemporaneo. È quanto accade, infatti, già ad Emanuele Trevi col Petrolio di Pasolini nel suo recente Qualcosa di scritto, romanzo-saggio in cui l’io che narra somiglia (o vuol somigliare, o fa mostra di somigliare, in qualche modo) a ciò che è il narratum, la materia di cui fatalmente si viene appropriando (fino a proporre, sulla scorta di un viaggio in Grecia, un’interpretazione forzatamente “eleusina” dell’opera postuma pasoliniana, trascurandone o ridimensionandone il valore politico, connesso a quello polemico). Operazione legittima, o perlomeno attesa, quando l’oggetto di studio sia particolarmente consentaneo al critico: e così pare del Montale “innamorato” per Ficara. Ma aggiunge qualcosa all’esegesi montaliana il rilievo o la sopravvalutazione degli stereotipi in materia di fenomenologia d’amore? «Ardua è l’attesa di lei che non viene incontro, ma si allontana»; «nella vita e nella poesia, la fedeltà è un valore negoziabile»; «che si fa insieme, eternamente?»; e, infine: «di che dovrebbe scrivere, dopotutto, un poeta?». Di tante cose, come Montale in effetti fa e Ficara in qualche caso evidenzia. Di che (o come) dovrebbe scrivere un critico, «oggi qui non mi tocca riconoscere» (La canna che dispiuma, mottetto XIX – o XX, a considerare il Balcone esordiale: ma qui si aprirebbe una piccola questione filologica assai lontana dal “sentimentale”).
[Preso atto della difficoltà di moderare un dibattito quando questo non si svolga in modo paritario per tutti i partecipanti, e alle firme per esteso possano replicare (specie con intenzione aggressiva o molesta) identità mascherate o fittizie, con effetti inevitabili di deriva e degenerazione della discussione in rissa, da questo momento in poi i miei post saranno da considerare aperti ai soli commentatori disposti a identificarsi nella discussione stessa o almeno nella mail da cui ricevo i commenti. Ringrazio tutti della collaborazione (gp).]
[Immagine: Irma Brandeis (gm)].
Non entro nel merito dell’analisi del libro, che non ho letto, né delle poesie di Montale (non è il mio campo e finirei per dire cose che non stanno né in cielo né in terra). Mi interessa invece il discorso iniziale sul lettore e sostanzialmente concordo con Gilda nel porre l’accento sulla poca attenzione che si riserva a chi legge come se scrivere un libro non presupponesse un pubblico seppur minimo. La banalità è ovvia, ed è dietro l’angolo, si scrive perché qualcuno legga e è quindi necessario che a questo qualcuno vengano dati tutti i mezzi per comprendere il testo in questione.
d.
E chi ci pensa al lettore della recensione?
Non ho ancora comprato il libro di Ficara, per cui ho letto il suo pezzo (già su La Lettura) con grande interesse. Le confesso però che mi ha lasciato molto deluso: a parte la puntigliosa critica sull’impostazione del saggio, sull’assenza di (più?) opportuni riferimenti ai testi (e qui verrebbe da chiedersi: ma un saggio critico dev’essere sempre, necessariamente “didattico”?), non c’è quasi nulla, nessuna informazione utile sul contenuto. E un giudizio che suona, per chi ha l’orecchio un po’ allenato, come una stroncatura aprioristica.
Ribadisco: non l’ho ancora letto. Eppure mi sembrano strani, conoscendo altre cose di Ficara, la sua (di lei, non di Ficara) attenzione a una consonanza continiana, l’accostamento a Trevi e, soprattutto, la riduzione – qui acritica – del senso del saggio a un’interpretazione schiacciata bidimensionalmente sul suo stesso titolo: è sicura che Ficara ci stia rendendo un Montale semplicemente e banalmente “sentimentale”?
Per cui, parafrasando, le chiedo: per chi scrive oggi il recensore? a chi, ma anche a cosa serve questa recensione?
Potremmo continuare così, di deriva in deriva: e a chi serve questo commento, cioè un commento che affermi che il mio saggio riduce l’interpretazione del libro in questione al solo titolo, ammettendo, anzi, dichiarandolo preliminarmente, di non averlo letto, il suddetto libro? Per chi scrive il recensore, è presto detto: per la comunità degli interpreti, augurandosi che l’atto interpretativo voglia muovere dagli oggetti, non da una partigianeria di sorta. Poi, ne convengo, una recensione (anche) metodologica si espone a una critica come quella che lei abbozza: ma solo se si parte dall’assunto, non dimostrato, che una recensione debba essere l’interpretazione valida una volta per tutte. Qualcuno trova, invece, che il tema del libro recensito non sia la proposta di una lettura di Montale (e di un certo Montale) nella chiave sentimentale dichiarata in apertura e perseguita ostinatamente nel percorso di rilettura dei Mottetti? Bene, discutiamone. Però pure in tal caso a partire dal libro, non dalla difesa partigiana o a spada tratta dell’autore del saggio, che possiamo tutti stimare a prescindere, ma il giudizio critico di un testo, è un’altra cosa.
Il critico scrive per lo più per il concorso universitario che deve vincere, e sì che la lettura partecipata, partecipe di un testo letterario non può che farsi esercizio dell’arte del fiato perso, come disse Celati: segugio che a furia di sniffare la pista si fa lepre, il critico si accorge degli zamponi da salto e delle orecchie lunghe a metamorfosi avvenuta. Segue piccola felicità, poco conosciuta nell’Accademia. Scrive per il lettore ( e chi è ?) o per la comunità degli interpreti? Fa di spada, le prende e le dà, non per l’uno e non per l’altra. Lo sfidato lo annusa da vicino, e magari è morto da secoli.
Condivido la perplessità di Mussi (che non mi sembra affatto segni una «deriva» della discussione). Potremmo riflettere a lungo su che tipo di ‘genere’ sia la recensione; ma certo a ogni recensione che si possa dir tale non dovrebbero mancare alcune informazioni basilari (proprio come fa nei suoi magnifici esercizi di lettura Luigi Blasucci, citato a esempio da Policastro). E qui queste informazioni indubbiamente mancano. Di che parla nella fattispecie il libro? Come è articolato? Qual è la tesi di Ficara? Io, che non ho letto il saggio, che conosco poco Montale e ancor meno Ficara, non trovo una risposta chiara a nessuna di queste domande nello scritto di Policastro. Ricavo solo l’impressione di una sfocata ostilità nei confronti del libro ‘recensito’, che viene criticato – in modo indiretto e un po’ sibillino – per aspetti del tutto diversi tra loro, che per altro sarebbe stato bene tenere nettamente distinti: un conto è che Ficara non dia i riferimenti bibliografici e non si mostri diciamo così ‘affabile’ anche nei confronti di lettori non montalisti; un conto è che spacci desolanti luoghi comuni come fossero folgoranti verità critiche (se è questo che fa secondo Policastro). Una recensione, a mio modo di vedere, dovrebbe pagare il pedaggio di qualche prova o di qualche affondo sul testo, non mettere avanti una serie di impressioni apodittiche e di domande lasciate ad aleggiare senza risposta.
Lei sostiene che il recensore scriva per la “comunità degli interpreti”, io invece penso che il recensore – a meno che non si tratti di riviste specialistiche – debba mettersi al servizio proprio di quel lettore (del quotidiano o del settimanale) che il libro recensito non l’ha letto. E che magari, spaurito, è alla ricerca di un aiuto o un supporto per orientarsi nella Babele editoriale.
Le mie riserve sul suo pezzo sono rivolte al metodo più che al merito. Ficara può anche aver sbagliato libro ed è possibile che lei, alla fine, nella sua conclusione, abbia perfettamente ragione.
Il problema (per me) è capire come arriva a quella conclusione e quali sono gli argomenti su cui poggiano la sua interpretazione e il suo giudizio.
Nessuna difesa a spada tratta.
Non credo di finire off topic, se, pur non avendo letto (ancora) il libro su Montale, intervengo, in quanto lettore di parecchi altri saggi di Ficara (Solitudini, Il punto di vista della natura, Casanova e la malinconia) e suo orgoglioso ex-studente. No, non si preoccupi, non sono mosso da partigianeria: almeno, non solo (gli amori di gioventù non si rinnegano, in effetti). Intervenendo, spero di contribuire a difendere qualcosa di più alto che un semplice critico letterario: forse un modo di fare critica.
Anche lei riconosce che la sua recensione è, anche, metodologica: ammette, dunque, che il suo oggetto non sia solo QUESTO saggio, ma un CERTO modo di fare critica. Ecco, se il tema è questo, mi sento parte della comunità ermeneutica.
Non so se sintetizzo male, ma mi pare che le sue perplessità relative al saggio “Montale sentimentale” si concentrino su tre punti: a chi parla l’autore? E’ legittimo fare critica senza citare puntualmente il testo sottoposto a esegesi? “Aggiunge qualcosa all’esegesi montaliana il rilievo o la sopravvalutazione degli stereotipi in materia di fenomenologia d’amore”?
Provo a rispondere alle sue domande (sempre che le abbia ben riformulate) mettendo al centro la risposta alla prima (le altre verranno di conseguenza): a chi parla l’autore?
Ho avuto la grandissima fortuna di seguire le lezioni di Giorgio Ficara all’Università di Torino. Non pago del corso sul personaggio del romanzo, reiterai: Petrarca. Come me molti altri. Di Ficara, del suo insegnamentio critico e delle sue lezioni discutevamo con fervore; queste ultime erano sempre affollatissime, e fino alla fine, quando invece la stanchezza per la verbosa inconcludenza di molti professori spingeva inesorabilmente gli studenti a preferirne altri o il “chi fa da sé fa per tre”. Se i lettori del critico sono tanti e affascinati come gli studenti del professore, be’ credo che la sua domanda abbia già una prima risposta: essi sono tanti e interessati.
Che cosa colpiva – e continua a colpire ancora oggi, immagino – gli studenti della Facoltà di Lettere di Torino in quelle lezioni? Innanzitutto l’oratoria straordinaria, ma questa è dote che può essere ammirata solo dagli happy few che vivono qui. Tuttavia quell’oratoria ha, credo, una qualche relazione con lo stile di scrittura dell’autore e non credo di essere l’unico ad essere intimamente convinto che uno stile di scrittura sia IN SE’ ermeneutico. Continuo ad apprendere molto di più – in termini di intelligenza critica della letteratura intendo, non di capacità scrittoria – dalle pagine di Contini, Serra, Barthes, che da quelle di altri critici stilisticamente sciatti e grigi. (E la diversità dei modi di far critica dei tre citati dovrebbe dimostrare che non intendo riferirmi a uno stile in particolare, ma alla semplice PRESENZA di uno stile). Ora, in Ficara lo stile presuppone un riassorbimento delle parole dell’autore studiato entro quelle del critico stesso. Non cita, ma riformula. Può non piacere, ma non trovo che sia una mancanza di rispetto verso il lettore.
Anzi, ascoltarlo a lezione e leggerlo faceva e fa crescere come lettori, per il suo convinto praticare una critica che egli stesso collocava sotto la specie della “forma-saggio”, che è qualcosa di diverso e direi di più che una semplice “divagazione”. Lei chiede, comprensibilmente, alla critica un corpo a corpo con il testo e credo che con questa parola intenda qualcosa di molto preciso: un certo numero di poesie, con un certo titolo, dentro un certo recinto fisico. Senza disturbare il già citato Barthes e l’idea che la critica e la letteratura siano indistinguibili, mi pare però che si possa almeno dire che è lecito fare critica, altrettanto comprensibilmente e legittimamente, anche di qualcosa di più largo del testo inteso nella accezione che ne dà lei, anche se ciò rende l’oggetto più sfuggente: le poesie di Montale sono una meravigliosa concrezione nel flusso della cultura di secoli e ad esso possono essere ricondotte e in esso immerse. Credo che sia proprio quello che fa Ficara. Lei nota, un po’ malignamente, che non si può scrivere un nuovo saggio su Montale senza aver preso visione della precedente critica montaliana. Vorrei dire che ciò è giusto e sacrosanto, eppure forse non funziona (più). Infatti, anche solo per banali ragioni di tempo e di brevità della vita, un montalista potrà leggere tutta la bibliografia su Montale, ma per farlo dovrà sacrificare la lettura di molte altre opere di più ampia escursione. Pefetto, dirà forse cose precisissime su Montale, ma le saprà poi inserire in un contesto più ampio? Se ci fa caso, l’intertesto delle opere di Ficara è sempre molto più largo di quello della bibliografia critica sull’autore oggetto di studio. Leggendolo, si ha sempre come l’impressione che tutto si tenga, ogni volta: tutta la letteratura, tutta la cultura. Ecco, parla di Montale, ma in realtà sta parlando di tutta la letteratura, di tutta la cultura, e, soprattutto, di che cosa possiamo farcene ancora oggi. Se accetta questa prospettiva, forse anche quelli che le paiono stereotipi sull’amore diventano invece, per così dire, archetipi culturali secolari (e, gli archetipi, ne converrà, presi alla lettera e in apparenza, sono sempre piuttosto banali).
Tiro le somme di tutto quello che ho detto: una critica come questa si espone a una quantità di critiche che sono ben peggiori della sua. Forse qualche positivista potrebbe persino ridurla a chiacchiera. Io credo che proprio oggi, in quest’epoca, essa sia fondamentale per la passione e l’interesse verso la letteratura che sa risvegliare, per la capacità che ha di creare ponti dalle arcate vaste tra letterature di diverse lingue, e letteratura del presente e del passato, e letteratura e filosofia. Lo so che la precisione dello studioso è un valore, ma, mi creda, in un tempo in cui il dantista iperspecializzato non potrebbe parlare di Petrarca senza sentirsi tacciare dai petrarchisti di genericità critica, saper ridare ancora e sempre un senso profondo alla nostra passione di lettori non è cosa da poco.
Per concludere, se sono riuscito a difendere in modo convincente un certo modo di fare critica, che a lei non piace, forse ho difeso anche QUESTO saggio in particolare, senza averlo ancora letto. Dopodiché, sono pronto a entrare nel merito dell’altra questione da lei posta (Montale sentimentale?) non appena avrò letto il libro, da me già felicemente acquistato, ma temo che il post sarà già invecchiato.
@D’Onghia: deriva è deriva, se anziché avviare un discorso critico sui contenuti, qui parliamo esclusivamente della recensione come forma: perché, allora, ribadisco, potrei intervenire a mia volta sulla forma commento, rilevare l’impertinenza e l’improprietà del suo, a questo punto, e non ne usciremmo più. Non nego certo la parzialità della mia riflessione su questo libro, che non ne esclude altre, ovviamente, a patto che il libro stesso (e questa questione è imprescindibile) lo si sia letto però: non se ne esce, ripeto. Non si può dire di una recensione se sia fondata o meno, senza conoscerne l’oggetto. Si può trovarla incoerente, parziale, faziosa, urtante, demenziale, persino, ma non si può dire che sia ”sbagliata”, senza nessun termine di confronto col ”giusto” (nemmeno con la propria personale idea di ”giusto”, se l’asserzione di partenza è: ”il libro non ce l’ho”). Faccio molta fatica poi a identificare quel lettore smarrito e spaurito di cui parla @Mussi, col lettore di un supplemento culturale e della sezione ”saggi”, nella fattispecie. Se esiste tutto questo pubblico assetato di indicazioni teoriche sulla letteratura, non vedo perché gli scaffali di critica letteraria siano stati ormai, se non aboliti o accorpati nelle più varie scienze sociali o saggistica in generale, relegati nei sottoscala delle librerie (così nel posto in cui ho acquistato la mia copia di ”Montale sentimentale”, ad esempio, e cioè l’enorme libreria della stazione Termini, laddove in altre, del libro – e dello scaffale corrispondente-, non v’era nemmeno traccia). Mi ha riconfortato, infine, leggere il commento di @Lo Vetere, perché, in sostanza, per l’eterogenesi dei fini, conferma il mio giudizio (ristretto però, nel mio caso, a questo solo libro, non al profilo dello studioso nel suo complesso, che non sono chiamata a ripercorrere in una nota critica di 5mila battute) specie quando allude alla ”bella chiacchierata colta”, di cui mi è sfuggita (mea culpa?) l’utilità e ”il recipiente”. Non ho espresso altro che questo concetto (oltretutto sottolineandolo coi famigerati pallini: lo stile, impeccabile ed elegante, ne ha 3), a ben leggere.
Conosco abbastanza bene Montale, non ho letto il saggio di Ficara (né altri suoi), quindi mi manca uno dei tre elementi per formulare il giudizio (gli altri due sono: la poesia di Montale e la sua recensione presentata qui).
Spesso tutti questi conflitti di vedute derivano dal fatto che la propria visione della critica è lasciata implicita, e quindi fatta passare per assoluta. Ad esempio, io posso criticare (una volta letto) il saggio di Ficara perché si focalizza su Montale e non sulla sua testualità, ma nel farlo debbo buttare giuù le carte e dire che a me “l’autore” biografico non interessa, perché (da empirico quale sono) non si può tracciare un chiaro legame tra risorse linguistiche e retoriche del testo e biografia o altro materiale extra-testuale. Ma è solo un esempio.
Oltre al non capirsi sulla critica (quale debba essere la sua funzione: per me queste sono molte, e variano a seconda della scuola d’appartenenza e della prospettiva), non ci si capisce sulla recensione: quale funzione deve avere? anche qui, le risposte sono molte e variano a seconda dell’intenzione del recensore, dell’attesa del lettore, del contesto, ecc.
Tornando al punto: quanto alla sua recensione, condivido i rilievi metodologici sul dover citare i testi (anche se andrebbe meglio contestualizzata la natura e l’intenzione dell’opera di Fiacara per capire se è stato coerente o no: sovrapporre le proprie aspettative alle intenzioni dell’autore è una fallacia comune), ma, anche qui, e sulla scia di Luca, mi aspetterei che venissero criticate parti del saggio riportate tra virgolette: altrimenti viene meno la verificabilità di quanto si dice, e quanto viene detto (dietro la maschera di una generalizzazione) rimane debole, sospeso perché non si capisce il suo preciso bersaglio. Credo che la critica – sia di altra critica, di poesia o narrativa – non possa, mai, prescindere dal citare passaggi testuali e discuterli. E’ un fatto di chiarezza e trasparenza, e onestà, a mio personalissimo modo di vedere.
Capisco che leggere 5000 battute sia meno arduo e più immediato che leggersi un libro, però secondo me continuare con la metadiscussione sul genere recensione è piuttosto improduttivo: sa di difesa partigiana dell’autore del libro, più che del libro stesso, nel merito del quale ci si rifiuta (o ci si deve impedire, non avendolo letto) di entrare. Come ho già scritto rispondendo a @Mussi, sono ben consapevole che una recensione metodologica o metacritica (anche, non solo) offra il destro a questo tipo di rilievi (e allora tu, che nel pezzo non hai trascritto parola per parola o riassunto ogni capitolo del libro; eh, ma appunto: non c’era riassunto possibile, alle ”divagazioni montaliane”), ma forse ci si può sforzare di uscire da questo genere di avvitamento e ripartire, se proprio non ci sentiamo di affrontarne la lettura, almeno dal titolo: vi torna, un Montale sentimentale? A me (e ad altri), proprio no. Poi, la mia interrogazione iniziale non era affatto retorica: mi pareva anzi urgente, come sottolineava anche @demetrio all’inizio, chiedersi a chi fosse destinato questo libro e, in generale, la critica letteraria di una certa fattura (elegante, colta, ma senza una vera messa in questione dell’oggetto, attraverso una nuova e fondata proposta interpretativa). Il volume accademico fitto di note ha una sua destinazione, il libro meramente divulgativo, ne ha un’altra, praticamente opposta. La cosa a metà, non mi pare feconda, e non ne vedo il posto nel dibattito critico: a chi giova? Se si riesce a rispondere a questa domanda, secondo me si avanza di un passo, altrimenti rimaniamo prigionieri della logica dello ”specchio riflesso”, come si diceva da bambini per rimbalzarsi vicendevolmente le accuse.
Allora, venendo al contenzioso (e’ Montale sentimentale o no?): a me Montale non sembra sentimentale, ma per poter rispondere bisognerebbe avere alcuni elementi in piu’:
1. siamo sicuri che parliamo tutti della stessa cosa, quando ci riferiamo a “sentimentale”? qual e’ l’accezione che ne da’ Ficara (se ne da’ una). Perche’ le connotazioni di “sentimentale” vanno dal melenso all’elegiaco, nostalgico (e forse Montale lo e’) o altro ancora. Se si confonde con “sensibile” pero’, la cosa si complica.
2. si parla della figura biografica o dell’io poetico come si evince dai mottetti? perche’ una cosa e’ il gossip letterario, un’altra la valutazione della voce poetica per come appare veicolata dal testo.
Ecco, lasciando la metacritica alla recensione e venendo al dunque, credo che nessuna risposta possa ignorare almeno questi due punti, e ciascuno dovrebbe chiarirsi su questo.
”A me non sembra” e basta, non mi pare un commento soddisfacente, se continuiamo (e continuiamo) col metadiscorso. E no, a melenso e nostalgico non ho pensato; piuttosto a Schiller, Schlegel e Leopardi, leggendo il termine ”sentimentale”: ma nel libro in questione non ve n’è traccia (della discussione dei romantici sul tema, dico, né forse rilevava, all’interno delle ”divagazioni”, riferirsi a quel precedente). Comunque sono contenta di aver suscitato tali curiosità, ma continuo a non capire perché le si voglia appagare attraverso il questionario al recensore e non direttamente attraverso la lettura del libro, come sarebbe logico e, direi, automatico.
Ho detto “a me non sembra” perché, modestamente, non sono un montalista ma un suo lettore appassionato e (solo) discreto conoscitore; e poi perché questi “luoghi critici” (per me inutili: non sono queste le domande che vorrei la critica si ponesse), rimanendo al confine dell’opinabile e della percezione individuale, non avranno mai risposta definitiva ma infiniti dibattiti (a che serve dibattere se Montale sia sentimentale o no? non si cade nella percezione individuale così, come il mio “a me non sembra” sottolinea?)
E no che non lo compro il libro (che sarà il 1000esimo uscito su Montale: le mie tasche e i miei interessi domandano altro): e perché dovrei, quando lei è la prima a stroncarlo eppure si aspetta che chi commenta il post l’abbia comprato? a me sembra un controsenso.
Poi: dato che questo non è un sito dedicato ai montalisti, è assai più normale interrogarsi sull’evidenza (la recensione, appunto), perché ciò che si commenta sono i post, almeno per quella che è la mia esperienza; rifiutare a priori le critiche sull’assunto che sono mal poste (cosa che nessuno poteva sapere, perché altrimenti si doveva scrivere: “intervenite solo sul merito della questione e non su come ho recensito il libro”, dato che non c’è un’etichetta dei commenti chiara e condivisa da tutti) mi sa di “difesa preventiva”, e non mi piace. Poi, ovviamente, posso sbagliarmi.
Spero di riuscire a leggere quanto prima il libro. Se il dibattito nel frattempo non sarà già defunto, potrò interloquire su ciò che interessa di più a Policastro. Sull’accezione del termine “sentimentale” credo comunque che abbia ragione quest’ultima: è quella schilleriana. Cito dal saggio di Ficara su Leopardi (fra virgolette trovate citazioni da Leopardi e altri autori, ma non copio le note):
La superiorità della natura sul pensiero è garanzia di funzionalità del pensiero stesso, e il “senso della verità” impresso dalla natura al pensiero è la dimostrazione che che l’uomo può effettivamente, ed efficacemente, pensare. La natura libera i pensieri dalla loro prigione di chiarezza [cartesiana, nota mia]: “una piccolissima idea confusa” annota Leopardi è “sempre maggiore di una grandissima, affatto chiara”. La natura è il di più che l’uomo di genio pretende dai propri pensieri, è il semper divinum atque infinitum di cui parla Cicerone e che tormenta da secoli la nostra ragione. Che cosa vogliamo noi, vivi e ragionevoli, di fronte alla natura esistente e irragionevole? Forse ciò che la natura stessa può darci, cioè un contrasto con le nostre idee, un “effetto poetico generale” e quasi un “entusiasmo della ragione”. La voce della natura, che l’uomo può “ascoltare dentro di sé, con quella reverenza con cui si ascolta una voce non umana”, non soltanto dichiara se stessa alla mente, ma ne trasforma intimamente la struttura: la mente diviene poetica, la ragione entusiasta, i pensieri alti e grandi. Questa trasformazione o naturalizzazione della mente, questo “solo piccolo pensiero” – per dirla con Wittgenstein – è alla base dei Canti: se non gli è più possibile essere uomo- natura, come nell’età dell’oro, se l’imitazione della natura gli pare un manierismo logoro, se l’esercizio del pensiero astratto lo delude, Leopardi può ritrovare nel canto l’unità di natura e mente, la stessa unità “distrutta dall’astrazione” di cui parlava Schiller [in nota si rimanda ovviamente a “Sulla poesia ingenua e sentimentale”, nota mia]. [“Il punto di vista della natura”, in “Il punto di vista della natura. Saggio su Leopardi”, Il melangolo, 1996, pp. 37-38. Trovate il saggio anche in introduzione all’edizione Mondadori dei “Canti”]
Leopardi non può più fare poesia ingenua, come gli amati classici; tuttavia non ama troppo la poesia contemporanea, romantica, sentimentale: il suo genio poetico consiste proprio nel tentare una lirica “dal punto di vista della natura”, nel far cantare nei propri versi la voce divina di questa (altro che Natura matrigna!), tentando così un recupero, in qualche modo illogico (e sovrastorico), di quella felice condizione di unità di pensiero e sentimento, natura e cultura, che precede la civiltà.
A me questa applicazione delle categorie schilleriane a Leopardi e la loro, per così dire, evasione critica, è sempre sembrata molto produttiva. Immagino che Ficara abbia invece dedotto da esse, stavolta, un Montale sentimentale.
Mi fermerei qui, alla parte costruttiva, propositiva, civile e dialogica, ma, pur amando poco le polemiche, non riesco proprio a tacere, semel anno.
Capita che un lettore quotidiano di LPLC vi legga una recensione al libro di un critico che egli conosce bene. Dissente dal punto di vista del recensore e interviene. (In postilla, il recensore ha anche aggiunto che non accetterà commenti non firmati. Il lettore approva, perché ama la discussione costruttiva e trova che, seppur non tutti coloro che si firmano con nickname lo facciano allo scopo di mascherarsi come franchi tiratori, è vero che l’anonimato garantisce l’impunità e favorisce l’offesa gratuita e la degenerazione o deriva del dibattito).
Questo lettore, proprio perché in primo luogo lettore e solo in secondo ordine commentatore, ha per norma quella di leggere con attenzione il testo e solo dopo, eventualmente, se lo ritiene utile, intervenire, e sempre restando “sul pezzo”. Gli sembra di poter consentire, perciò, anche con un’altra norma posta dal recensore, quella di evitare ogni tipo di metadiscussione, per concentrarsi sull’oggetto.
Ora, questo lettore pensa di aver notato nella recensione due isotopie: una strettamente legata al topic, “Montale non era sentimentale”; l’altra relativa piuttosto a perplessità sulla metodologia critica dell’autore del testo recensito. Anzi, il lettore trova che questa seconda isotopia sia addirittura preponderante: a contarli, ci sono più argomenti a sfavore di un certo modo di fare critica che argomenti a favore dell’assunto di cui al titolo. (Di qui il fastidio di altri commentatori per la forma stessa di questa recensione?)
Essendo un conoscitore abbastanza approfondito dell’opera del critico criticato, il lettore fa osservare che il suo è uno stile peculiare, ma non casuale (egli cita il richiamarsi di quest’ultimo, metodologicamente e teoricamente consapevole, alla “forma-saggio”); cerca di spiegare quale sia, secondo lui, la funzione capitale di questo modo di fare critica; fa capire più volte come ritenga che comunque anche altri modi di fare critica siano del tutto legittimi. Fa tutto ciò con spirito costruttivo, con argomenti – egli crede – pacati, e tono cortese.
Il recensore replica e la risposta consiste, grosso modo, in un esercizio di capziosità e sarcasmo: tenta di annettere alla propria l’argomentazione del lettore, parlando di “eterogenesi dei fini” – argomento vincente solo sul piano formale-retorico, visto che su quello sostanziale è impossibile non vedere che lettore e recensore sono d’accordo solo sulla definizione di quel modo di far critica, non sul giudizio da darne, che è opposto -; ironizza sulla difesa, da parte del lettore, dell’importanza dello stile nella critica letteraria (“pallini… stile … impeccabile”, ecc…); ironizza anche sulla “bella chiacchierata colta”, invertendo ancora una volta di segno quella che per il lettore era una grande qualità; infine, lascia velatamente intendere che il lettore non abbia neppure letto bene. (Il lettore, puntiglioso, rilegge, ma non vede dove stia il suo fraintendimento).
Il sarcasmo, per quanto urbano, nuoce sempre alla discussione, perché esclude delegittimando. La discussione va da qualche parte solo se, dialetticamente, si assume l’altrui posizione e se ne saggiano le ragioni, magari per confutarle (ma argomentando, non cachinnando).
Forse allora il recensore non vuole discutere davvero. Nel lettore questo sospetto viene accresciuto da un’altra osservazione: il recensore si mostra infastidito da ogni commento che non contribuisca alla disamina del caso “Montale sentimentale”: ha già detto che vuole discutere del merito. Ineccepibile. In astratto, però; perché nel caso specifico è evidente che il tema della recensione non è solo quello. A questo punto la discussione su “Montale sentimentale” sembra più un ballon d’essai, uno spunto di discussione lanciato ai lettori del blog, che il tema, stricto sensu inteso, della recensione. Ciò sarebbe anche legittimo; tuttavia il recensore insiste e etichetta come “metadiscussioni” diversi interventi, colpevoli secondo lei di eludere il testo dato. Essa insomma vuole fornire il testo e, insieme con esso, anche le chiavi di lettura – le uniche – autorizzate.
Sfruttando – malignamente, ma non l’ha sdoganato lui quest’uso – le potenzialità leguleiesche della lingua, il lettore vorrebbe conclude dicendo che non c’è chi non veda in ciò il sintomo di un atteggiamento (testualmente) autoritario.
Vorrei concludere, nonostante tutto, costruttivamente. Il problema delle regole di un dibattito on line è un tema importante e complesso. Sono in gioco aspetti non secondari della vita democratica. Ma taccio di ciò e mi soffermo piuttosto sul fatto che esso, più modestamente, è una bella palestra per affinare le nostre concezioni di interpretazione del testo e di regole e confini dell’ermeneutica. Quello che è accaduto in questa discussione è esemplare al riguardo. Inviterei a leggere o rileggere “Interpretazione e sovrainterpretazione” di Eco, dove all’intervento del semiologo seguono alcune risposte di altri studiosi: interessanti in particolare quelle di Culler e Rorty, interventi rispettivamente decostruzionista e pragmaticista (per chi non lo sapesse, il libro è basato sulla trascrizione di un confronto pubblico svoltosi in seguito a una Tanner Lecture dello stesso Eco). A Culler e Rorty Eco controreplica. E si sarebbe potuti andare avanti all’infinito. Per fortuna l’ora della cena arriva per tutti prima o poi.
Comunque, Eco invitava a considerare che esistono limiti all’interpretazione, e che questi sono forniti dal testo; Culler e Rorty, civilissimamente, in buona sostanza non accettavano nemmeno questo assunto, considerandolo assioma.
Chi stabilisce i confini di una discussione? Quale autorità può dire “si discute solo di ciò e non di altro”? Come fermare chi dice “ma io non accetto neanche la premessa dunque non ho vincoli”? Come interrompere la fuga degli interpretanti e vincolare chi si sposta dal piano x a quello x + 1 e metadiscute?
Sono temi ineludibili dentro un blog. Se non mi trattenesse una certa irritazione nei confronti dell’atteggiamento che Policastro ha avuto nei confronti del mio e di altri interventi, direi che essa ha già fatto una prima ottima cosa, ponendo la regola di tagliar fuori chi non si assuma la responsabilità delle proprie parole firmandole. Molto altro però è sul piatto e magari LPLC potrebbe pensare a postare, prima o poi, un intervento a nome della redazione proprio sul tema dei limiti dell’interpretazione, anche perché si è andati a sbattere su questo muro già in altre discussioni. So già che non ci metteremo d’accordo, ma almeno avremo esplicitato qualcosa che è implicato in ogni nostra presa di posizione.
…semel in anno…
Sia gentile, @Lo Vetere. Io sono stata nient’affatto sarcastica, bensì conciliante, per non essere crudele. Lei viene qui, dal primo intervento, a farci una lezioncina su quanto sia bravo Giorgio Ficara come studioso e a raccontarci quante belle cose abbia imparato da studente dalle sue lezioni (cosa che chiunque di noi potrebbe dire, peraltro, di qualunque docente al mondo, perché il primo amore – a proposito – non si scorda mai), e ribadendo di non aver letto il libro in questione, continua a difenderlo senza fondamento e senza costrutto, addirittura inferendone la (presunta) tesi di fondo da altri scritti. Qui non si tiene un seminario su Ficara, né deve spiegarci (a lettori di Benjamin, o anche solo di Berardinelli) cosa sia la forma-saggio. Quello di Ficara non è un saggio, ma un Montale per me/ secondo me, che è tutt’altro, e che ha suscitato, e continua a suscitare in me, la domanda (non retorica e non faziosa) sul destinatario. Ma non devo ripetere ciò che ho già scritto nella recensione: confidavo in interventi di montalisti lettori di questo libro, e non ne sono arrivati. Pazienza. Ma non posso perdere tempo a discutere una volta di più come si scrive o non si scrive (e per chi si scrive) una recensione, e perché una recensione non è un saggio (appunto), e perché il commento non può essere ad libitum metacritico. E non perché non abbia idee a riguardo, o interesse: anzi, vi ho dedicato ampia parte del mio ultimo libro. In cui, tra l’altro, si parla anche, e a lungo, di come si dibatte nel web. Dunque non è un sottrarmi ai miei obblighi (quali, poi?), ma semplice noia e rifiuto della ripetizione a oltranza. Ha mai partecipato a un convegno? Bene: il relatore si appunta le domande, poi decide a quali rispondere, in quale ordine e con quale impegno e approfondimento e dovizia. Non capisco perché in questo caso dovrebbe funzionare diversamente. Non è un convegno, questo? Allora, per favore, ci risparmi le citazioni chilometriche dal suo maestro. Oppure scriva un saggio, una nota critica, quello che le pare: il commento di un post funziona diversamente, e io ho proprio un limite ottico, nel leggerlo. Dopo tre quattro dei suoi paragrafi mi viene il mal di mare. Me lo consenta, visto che le piace tanto il critico passionale che, nel parlare delle cose, ci mette dentro un po’ di sé.
Rileggendo post e commenti (decisamente illuminanti le ultime osservazioni di Daniele Lo Vetere), la cosa più comica è che – secondo Policastro – per avanzare dubbi su una recensione bisogna preventivamente aver letto il libro recensito. Pensavamo, sbagliando, che la critica militante servisse, appunto, a orientare l’onesto lettore su cosa dovesse o non dovesse leggere. E che, trattandosi nel caso in questione di una sostanziale stroncatura, il lettore avvertito dovesse astenersi dall’attraversare le pagine di un libro che non “serve” leggere…
Ha ragione. Sono stato prolisso. Me ne scuso.
Un blog però non è un convegno. A questo partecipano esperti e studiosi, a un blog semplici lettori. Naturale che le conoscenze sul tema siano più labili e che si tenda a ricondurre la discussione a categorie ampie. Diversamente, sarebbe un dibattito specialistico e non pubblico. Se fossi ad un convegno su Montale tacerei e ascolterei.
Dopodiché, a me andrebbe anche bene che LPLC stabilisse come regola che i commentatori possono intervenire una sola volta e che l’autore del post replichi. Va bene, basta saperlo. Allora sarebbe davvero un convegno virtuale.
Se poi lei vuole ridurre il mio tentativo di fornire argomenti e testi proprio a favore della sua osservazione, che “sentimentale” sia usato nell’accezione schilleriana, e buttarla sul personale e irridere le passioni passate di uno studente e dire che intervengo solo per fare “la lezioncina e dire quanto era bravo il professore”, faccia. Mi dispiace: conferma solo la mia impressione di autoritarismo.
Cordialmente.
@Terragni, a mio avviso per definirsi ”onesto lettore” le mancano i requisiti di base, cioè tanto l’onestà, che la capacità di leggere. La mia recensione s’interroga sul destinatario, quindi non dice affatto: lettore non comprare (che non è in ballo un fustino, tra l’altro). S’interroga sul CHI (ma quante volte l’ho già scritto???) debba leggere questo libro, cioè, nelle intenzioni dell’autore, a chi sia effettivamente destinato. Aneddoto personale (che rileva in quanto offerta di una testimonianza utile ad andare avanti nella discussione, come spero): stasera mi ha telefonato un esimio studioso, per discutere con me, tra le altre cose, anche del pezzo ”montaliano”. Si diceva abbastanza persuaso dai miei rilievi metodologici, ma chiudeva la telefonata chiedendomi, tra il serio e il faceto: ”non ti seccherà, se lo leggo lo stesso?”. Non solo non mi secca, ma ne sarei felice, se lo si leggesse: per intavolare una discussione, mi pare il requisito minimo. E non credo di aver scritto che per esprimersi in merito a una recensione sia indispensabile conoscerne l’oggetto (non in questi termini così grossolani, comunque): ho specificato, invece, innanzitutto che è un atteggiamento ben curioso, di fronte a un argomento così controverso, concentrarsi sulla natura e la fattura del pezzo di servizio, e non voler risalire alla fonte. In secondo luogo, ho precisato che la fondatezza di una recensione è nella sua coerenza interna, e non mi pare che ne manchi, in questo caso. Gramsci diceva che le recensioni sono riassuntive, per quei libri di cui si vuol suggerire, all’atto pratico, l’inutilità della lettura, o critiche, per i libri la cui lettura s’intenda viceversa suggerire. Se la mia recensione è più critica che riassuntiva, è perché mi aspetto, da chi la legge e la discute, il conflitto delle interpretazioni, non di certo un esamino in 3 quesiti. Con obbligo di risposta, poi: figurarsi.
@Policastro: Gli specialisti sono tenuti a leggere il più possibile di quello che viene pubblicato sulla materia da cui si nominano. Viceversa, tutti gli altri, cioè l’universo mondo, non vi sono tenuti né per virtù di professione né per amore della morale, di Dio o della democrazia.
Non so l’universo mondo, ma io non ho quattrini da buttare in chiacchiere. Se mi si dice che un libro non è né innovativo come un saggio accademico che si rispetti né didattico come un buon testo divulgativo, io – che montalista non sono né bramo diventare – non lo compro neanche se l’ha scritto mio cugino; né lo leggo se me lo regala, corta com’è la vita.
Perché dà per scontato che chi voglia commentare la sua recensione debba anche e prima di tutto aver letto il libro? A che pubblico si rivolge Lei? Se l’argomento è “così controverso” da richiedere necessariamente una lettura del libro, e se addirittura “confidava in interventi di montalisti” che l’avessero letto, perché ha pubblicato la recensione su un blog? Non sarebbe stato più opportuno sottoporla esclusivamente all’attenzione degli “esimi studiosi” in più severo e nobile consesso?
A proposito degli obblighi di chi scrive su un blog come LPLC. Lei si chiede fra parentesi: “quali?”
A un dipresso, i seguenti:
La coerenza con le dichiarazioni di principio (http://www.leparoleelecose.it/?page_id=2).
La consapevolezza che si scrive da una posizione di potere (istituzionale, mediatico).
Il rispetto – perciò accresciuto – che si deve in egual misura a qualunque lettore, e in modo particolare al subalterno (per prestigio, per cultura).
L’impegno – che ne deriva – a non sottoporre alla sua attenzione discorsi scadenti (per difetto di qualità o di accessibilità; comprensibile il primo, molto poco scusabile il secondo).
Per queste ragioni, trovo inammissibile il fatto che Lei si rivolga ai Suoi educati interlocutori cominciando preliminarmente col tacciarli di fare “lezioncine” o di non essere né onesti né lettori, confessando fra l’altro di aver loro risparmiato la Sua crudeltà a beneficio, magnanima, di una superiore conciliazione.
Mi risponda: Le passerebbe mai per la testa di adoperare simili espressioni nei confronti dell'”esimio studioso” che Le ha telefonato? Le è mai balenato in mente che la cura e il riguardo che si devono a Daniele Lo Vetere e a Dario Terragni possono essere esattamente uguali a quelli che regolarmente si tributano all’esimio montalista di turno? E che, anzi, essi dovrebbero essere incrementati nella speranza di arricchirsi di un punto di vista nuovo, rinfocolati nel desiderio di resuscitare e di condividere un sapere già da lungo tempo tumulato fra gli scaffali delle biblioteche di dipartimento?
Fuor di retorica, ce l’hanno tutti con te o ti piace la provocazione?
Venendo alla rete da tutt’altro tipo di formazione (accademica, critica), sono spesso oggetto di attacchi indiscriminati che non hanno come obiettivo la mia persona, o almeno spero, quanto piuttosto il ruolo che incarno, ovvero “il critico”, un ruolo percepito come stantio, non al passo coi tempi. I miei interlocutori sono anche se non prima di tutto gli altri critici: e nella rete ce ne sono ancora pochi. Come in tv, fa audience la rissa, l’insulto.
http://www.unita.it/culture/gilda-policastro-a-i-maigeneration-i-br-attenti-ai-padri-assassini-dei-figli-1.270240
“non c’è scampo: per giudicare un libro e scriverne, devo averlo letto. Per giudicare la fondatezza della recensione, bisogna aver letto il libro.” (Gilda Policastro su facebook, 28 maggio alle ore 13.08)
Nella mia conclamata povertà intellettuale e pur mancando dei requisiti di base per definirmi onesto e lettore – come lei puntualmente rileva nella sua sempre generosa e ben nota assenza di contenuti dialettici -, posso ancora tuttavia contare su un qualche talento nascosto in materia di citazioni letterali. Ribadisco, dunque, la vocazione comica di una simile affermazione. Che in un contesto meno precario farebbe parimenti sghignazzare esimi studiosi, parrucchieri, critici militanti e impiegati del catasto.
Confermo che non sa (o non vuole) leggere, @Terragni (poi citare da Fb, questo sì, che è comico), perché ho ben (ri)spiegato cosa intendessi, con quell’affermazione. Ma poi, comica, ”notoriamente (a chi?) poco dialettica”…e state qua, a far cosa? Andate a parlare altrove, di Montale, o d’altro. Magari con Ficara, perché no. No, eh? Vuoi mettere, il pesce piccolo, che divertimento.
OT: non ho nessun contatto Fb di nome Dario Terragni, quindi se non è un fake qui, lo è lì, fra i miei cosiddetti ”amici”: in ogni caso, confermo che è disonesto, e non risponderò a nessun altro commento con questa firma. La prego di non insistere. Grazie.
(Intervengo soltanto – e per l’ultima volta, raccogliendo con l’ennesima risata il prevedibilissimo invito di Policastro – per puntualizzare che all’anagrafe sono Terragni Dario fu Luigi, mentre in un luogo ameno come facebook ho preferito optare per un nickname meno ingombrante, senza per questo dover giustificare a nessuno le ragioni della mia scelta. In ogni caso, anche se mi chiamassi-firmassi Didimo Chierico o Mario Rossi o Romano Luperini, non credo che forma e contenuto dei miei commenti cambierebbero modalità, sostanza o prospettiva, se non per Policastro stessa. Ma il limite, anche stavolta, sarebbe tutto suo.)
E no, @Dario Terragni, non ci sto: se lei cita uno spazio semiprivato come Facebook, in cui io mi rivolgo a interlocutori preselezionati, non alla totalità dei fruitori della rete, a differenza che in un blog, e dunque posso, conoscendo, in linea di massima, i miei interlocutori, e, soprattutto, essendone conosciuta, consentirmi, talvolta di abbreviare un pensiero o di semplificarlo, per correttezza e lealtà lei dovrebbe rendersi identificabile, nel momento in cui traspone da un luogo all’altro il MIO pensiero, altrimenti bara, è disonesto, e la lunghissima (ma quanto scrivete? ma vi resta tempo per leggere, poi?) lezioncina (dev’essere consolatorio, poterne fare qui, quando si aspirerebbe ad avere un qualunque altro pulpito, e ci si deve accontentare del web) di @Gerace, viene del tutto destituita di fondamento. Se parlo con un esimio montalista, difficilmente il suo obiettivo primario sarà tendermi trabocchetti o avvitarsi sulla metatestualità. Poi, ad essere realmente comico, io trovo, è l’imputarmi insieme scarsa affidabilità e autorevolezza. Delle due l’una: o la recensione non dice con chiarezza, non si fa capire, tutto quello che vi pare, o ”perché mai dovrebbe venirci voglia di leggere quel libro, se l’hai stroncato”. Ahi ahi, fanatici della polemica nel web: per poterne sostenere in qualunque contesto, il requisito irrinunciabile è la logica, e mi pare che in questo caso non abbondi.
le virgole, invece, abbondano.
E il mio commento non è stato pubblicato? Eppure ho firmato con nome e cognome…
(mi scuso, credo che il mio primo tentativo di invio del commento non sia riuscito..) Dicevo, pensavo, che il libro lo leggerò. Perché sono una studiosa (giovane e non esimia!) di Montale. Perché le osservazioni a tratti illuminanti di un lettore (Daniele lo Vetere) mi hanno incuriosita
E perché (e mi scuso per la ripresa) le lacune della recensione segnalate da alcuni altri lettori mi hanno convinta. Sul destinatario del libro critico mi interrogo: è vero che deve dialogare con altri critici, ma può anche creare un dialogo con il libro stesso (in questo caso una sezione di libro..) oppure con altri libri. Quest’ultimo è il principio della comparatistica, almeno nel
Paese in cui vivo. Insomma il libro può non rivolgersi a un pubblico di specialisti monogafici? Quanto al dibattito, quel che mi rimane è , ahimé, la constatazione di un’innegabile aggressività del recensore, che ha diritto a non voler “perdere tempo” nella lettura dei commenti -che trova inutili e noiosi, poi scorretti o esibizionisti- ma allora non capisco: perché pubblicare su un blog e non limitarsi a scrivere su testate o riviste (pure importanti) ma per lettori muti?!
Concordo perfettamente con Policastro, quando scrive che “il requisito irrinunciabile è la logica, e mi pare che in questo caso non abbondi”. Più che una petizione di principio, è una chiosa schiettamente autoriflessiva. Non c’è logica che tenga, in effetti, nel dichiarare di non voler più rispondere a qualcuno, invitandolo caldamente a “non insistere”, e poi richiamarlo all’appello con un militaresco “non ci sto”. Dev’essere la stessa logica pararistotelica per cui i “cosiddetti amici” di facebook (che è spazio semipubblico, proprio in quanto spazio “semiprivato”) diventano magicamente, nel commento successivo, “interlocutori preselezionati”, capaci di discernere, fortunati loro, le perle di saggezza critica dalle sciocchezze sesquipedali.
Immagino che – a rigore della stessa logica, ampiamente collaudata in pressoché tutti gli interventi sul web di Policastro – il prossimo, inevitabile passo sarà quello di chiudere sdegnosamente i commenti e consacrarsi, ancora una volta, al vittimismo degli Incompresi, confidando soltanto nel conforto della “comunità ermeneutica” (che è cosa, in effetti, molto più nobile e profonda e complessa di uno stereotipo difensivo e autoreferenziale, se si ha il privilegio di conoscere alla fonte il pensiero di Luperini). Anche perché i blog letterari, si sa, sono luoghi malfama(t)ti: postacci infrequentabili, notoriamente popolati da gente poco raccomandabile (e poco raccomandata): delatori mascherati che, quando meno te l’aspetti, sono capaci di citarti a tradimento. Per non parlare dei grafomani coatti (“ma quanto scrivete?”) e di quelli che addirittura si permettono di avanzare dubbi su un post, di sollevare questioni, talvolta inquietantemente ben argomentate (ma dove lo trova tutta questa gentaglia il tempo per studiare e per pensare?), e senza nemmeno uno straccio di svarione ortografico cui potersi eventualmente appigliare per competenza. Con gente così, alla fine, non ci condivideresti manco una poesiola di Arminio (altro che montalismo, e per giunta di specie esimia). Meglio astenersi, per l’appunto. “La prego di non insistere. Grazie.”
Guardi, lei, nemmeno la leggo e meno che mai farò la fatica di censurarla: rimanga pure qui a blaterare, se non ha altri posti dove andare. Solo, la prego invece, e caldamente, di autoeliminarsi dai miei contatti Facebook, visto che non conoscendo il suo nick, non posso farlo da sola. Riportare qui malamente stralci di conversazioni svolte in un contesto cui si partecipa camuffati non è solo un fastidioso controsenso: è, soprattutto, una penosa vigliaccata.
@ Ilenia Antici. Sono felice che i lettori, ormai a prescindere dalle provocazioni dell’autrice, possano scambiarsi informazioni e opinioni. E’ un’ottima ragione per rivedere la decisione di lasciar perdere la discussione in questo post e intervenire.
Guarda, Ilenia, io ho iniziato il saggio di Ficara, per ora ne ho letto un terzo circa. Fin qui, mi sembra degno degli altri suoi. Insomma, mi piace.
A quello che ho già scritto sulla sua critica, provo ad aggiungere due cose, sul tipo di saggio che incontreresti. Vedi poi tu se ne ritieni utile la lettura.
E’ certamente una critica filosofica, densa (quindi erta) di richiami a molta altra poesia, alla filosofia, alla storia del pensiero (poetante); tuttavia il ricorso ad archetipi culturali non è mai schematico. Eloquente è, ad esempio, il modo in cui, nelle prime pagine, Ficara analizza le posture che il poeta tiene nei confronti delle donne che popolano i suoi versi: sono molteplici e molto più complesse di una semplice riedizione moderna del rapporto tra poeta e donna-angelo. Conoscendo alcune costanti della critica di Ficara, mi pare – ma è l’impressione delle prime 50 pagine e potrei sbagliarmi – che egli cerchi di reperire, in un poeta che è diventato per statuto il poeta del non e di una metafisica negativa, un barlume di umanesimo, nel senso di fiducia nella contingenza umana.
Il discorso, lungi dall’essere una divagazione e diversamente da come è stato detto, è sempre supportato dal ricorso puntuale ai testi, anche se non ti devi aspettare una lettura mottetto per mottetto e verso per verso, insomma una lettura esplicativa (non c’è alcuna connotazione riduttiva nella parola), come quella di Isella per intenderci.
Insomma, se cerchi un commento al testo luogo per luogo, te lo sconsiglio. Te lo consiglio, invece, se cerchi un libro che contribuisca a collocare Montale dentro la storia della poesia e del pensiero, ad incremento (o, se ti dovesse convincere la lettura, a parziale correzione) delle letture di Contini, Mengaldo, Isella.
Spero di esserti stato anche solo un po’ utile.
Utilissima: l’esegesi al libro che non c’è. L’hanno già praticato, però, come genere (Manganelli, Nuovo commento, ad esempio). Continua poi nell’esercizio sterile di ritradurre in elementi di positività i punti che la mia recensione poneva come limiti: mi spiega, se l’intenzione dell’autore non è quella ermeneutica né (orrore, mai sia!) di proporre un commento ai singoli componimenti, l’utilità o la necessità di porli in sequenza, uno via l’altro, i Mottetti? E di citarne qualche verso quasi sempre in incipit? Un discorso filosofico che procede in modo così ordinato e persino pedissequo non lo trova, a dir poco, un po’ anomalo? No: le pare collocarsi sulla scia di Contini, Mengaldo, Isella. Se lei è contento, io compartecipo. Ad ogni modo la inviterei a essere meno precipitoso: se è solo a pagina 50 (dunque a meno della metà, direi un terzo, praticamente) aspetti di procedere o di finire, prima di formulare dei giudizi inevitabilmente parziali e dunque, se non partigiani, sciatti. Perché dall’esegeta di Ficara non ci possiamo accontentare dell’accenno alle posture ”diverse e molto più complesse del rapporto tra poeta e donna-angelo”: dica ad esempio quali. E spieghi anche (però avendo finito il libro, cortesemente, che una recensione fatta fino a p. 50 a me, ad esempio, il giornale non me la prende) magari cosa intende (lei o Ficara, poi, vallo a capire…) per ”barlume di umanesimo” (per il capitolo: la critica letteraria secondo me). Vuoi mai che i poveri lettori del blog, mortificati o distratti dalle provocazioni (che tenerezza, in fondo, mi fa…) della sottoscritta, possano fraintenderla e pensare (orrore, di nuovo!) che lei sia qui a difendere una tesi (ah, già: non ci ha poi detto quale, e cos’abbia a che spartire col titolo, infine) indifendibile.