di Claudio Gigante

1. Giunto a Napoli qualche settimana fa per le vacanze di Pasqua

Giunto a Napoli qualche settimana fa per le vacanze di Pasqua (o vacanze «di Primavera», come sono chiamate con lessico laico-sovietico all’università di Bruxelles, dove lavoro), uno dei primi posti dove sono passato è Piazza Dante, l’antico vanvitelliano Foro Carolino, luogo d’incrocio fra le Napoli diverse che coabitano, indifferenti e spesso ignare le une delle altre, nella città.

Per Piazza Dante si passa per andare a Port’Alba, un aggregato di librerie di prim’ordine, dove per pochi euro, qualche volta per un solo euro, si trovano libri di pregio provenienti da biblioteche private in dismissione (formidabili sono soprattutto le trouvailles ottocentesche), da scarti editoriali, dai misteriosi mercati di seconda mano; ma anche libri nuovi, intonsi da un anno o da un secolo e mezzo – con le pagine «chiuse» ancora da sfogliare, con tignole centenarie oramai divenute parte stessa della carta.

Da Piazza Dante ci si può dirigere verso il centro antico o proseguire, lungo via Toledo, in direzione Plebiscito (Palazzo Reale, San Carlo, il colonnato di san Francesco di Paola… e poco più in là il mare); o al contrario si può risalire la china e dirigersi verso il Museo Archeologico Nazionale (il più ricco d’Italia, conosciuto e apprezzato più dagli stranieri che dagli Italiani).

A Piazza Dante confluiscono anche le stradine che conducono ai «rioni » popolari (nel senso antico del termine) di Montesanto e Tarsia, con la funicolare che porta a San Martino e alla fortezza medioevale di Castel Sant’Elmo, simbolo del contributo civile che la città diede alla fondazione dello stato unitario (dai martiri del 1799 a quanti in epoche più recenti si opposero al regime liberticida dei Borbone, come Carlo Poerio, marcendo a lungo nei sotterranei adibiti a prigione).

Della piazza, cuore antico e moderno della città, la statua di Dante, opera dello scultore napoletano Tito Angelini, è ormai da tempo (dal 1871) divenuta il centro. Qui, come altrove, Dante fu scelto per simboleggiare l’Unità ritrovata o imposta o subita o conquistata – già negli anni Settanta dell’Ottocento la questione aveva un suo significato: ma non vorrei parlare di questo. Conta dire soltanto che, tra tanti simboli possibili, quello di Dante era il più nobile, il più universale, diciamo pure il più “italiano” senza essere sabaudo. La statua ricordava ai Napoletani, come ad altri altrove, che un’unità di fondo esisteva nella Penisola da tempo, da molto prima che il Generale salpasse da Quarto o che i fratelli Bandiera fossero trucidati laggiù, nelle Calabrie: un prete meravigliosamente giacobino, Carlo Tallarigo, alla vigilia del Plebiscito, nella Chiesa dello Spirito Santo (a 200 metri dall’attuale piazza Dante), arringava i fedeli, non si sa quanto turbati per la trasformazione del pulpito in palco tribunizio, spiegando quale fosse il senso di un’«Idea dominante», «perpetuo sogno dei Padri nostri» che stava, quasi per miracolo, per attuarsi.

Per molti anni la statua di Dante è stata coperta di graffiti metropolitani, non importa se romantici o volgari, o talvolta entrambe le cose. Politica, amore, sport e insulto libero l’hanno fatta da padroni sul povero marmo: trattamento non diverso – intendiamoci – da quello riservato ad altri monumenti (penso solo, esempio fra mille, allo scempio di Santa Chiara: pietra secolare nel cuore del centro antico che non si riesce a preservare dai nuovi barbari).

In omaggio ai 150 anni la statua di Dante è stata ripulita. Non è la prima volta, ma forse sarà l’ultima: un cancello di ferro, discreto ma ben visibile, è stato aggiunto intorno al basamento. L’esperimento sarà forse ripetuto altrove, e sarebbe davvero difficile, per principio, dirsi contrari. Ma un’amarezza, nel fondo, resta, come se si fosse amputato un braccio a un malato disperati di guarirlo. L’amarezza può tradursi in più domande, ma la questione cruciale è una sola: perché chi imbratta un monumento non ha la sensazione di rovinare anche qualcosa di suo? O in altri termini: quale errore è stato commesso – nell’educazione, nella pedagogia civica o semplicemente ordinaria – se tanti cittadini non vedono nella pulizia di un simbolo comune qualcosa che torna anche a loro vantaggio? E nella sua sporcizia, invece, un degrado che li coinvolge ricadendo insorabile sul modo stesso in cui sono percepiti e, purtroppo, giudicati?

2. Ho pensato, mentre ruminavo queste cose

Ho pensato, mentre ruminavo queste cose sentendomi all’improvviso invecchiato, che un secolo e mezzo fa c’era stato un giovane garibaldino che si era posto, osservando l’indifferenza dei contadini rispetto al pur contagioso amor di patria del tempo, una domanda simile: perché un contadino non prova interesse per la causa “italiana”? Perché non sente l’impulso ad armarsi e combattere per quella terra che è anche sua? Perché – questa è la risposta del garibaldino Nievo – il contadino non vede nessun cambiamento per la sua condizione di servo della gleba; e, se servo deve essere, chi sia il padrone, austriaco o italiano, borbonico o sabaudo, non gli interessa. In altre parole la morale antica – quella del ciuccio che è indifferente a chi lo bastona – suggerisce che si ha cura soltanto di quegli ideali o di quel patrimonio che si sentono propri.

Poiché siamo in un tempo in cui cresce – per la crisi, anzi per le crisi – e  quotidianamente si avverte un’ansia nuovamente fondativa, variamente declinata – la politica, l’ambiente, l’università, la scuola, l’imposizione fiscale… niente è gestito come si dovrebbe, secondo i bisogni reali – si potrebbe lanciare un argomento di riflessione dal sapore un po’ rétro, in  apparenza, eppure determinante per immaginare forme di sviluppo che non siano affidate soltanto alle dinamiche dell’economia: una nuova educazione civica. La scuola dovrebbe formare i cittadini, gli adulti di domani. Dovrebbe farlo non per l’abnegazione di qualche docente ispirato (ce ne sono, per fortuna, ma non è qui il punto), ma per programma. È più importante capire che in motorino si dà la precedenza al pedone che attraversa sulle strisce che saper risolvere un’equazione lineare. Massimo d’Azeglio, uno che la sapeva più lunga di quanto in genere si riconosce (perché il suo tratto aristocratico e antirepubblicano ha finito per offucarne i meriti – che pure ci furono: si pensi solo ai marchi a fuoco impressi da Mazzini e più tardi da Gramsci), in un pamphlet pubblicato all’indomani della sconfitta del ’48, scriveva che, se il popolo ricevesse l’educazione «che gli è dovuta» (suo il corsivo), un «solo carcere per un intero Stato, forse neppur s’empirebbe». Il tema dell’educazione morale e civile si ritrova trasversalmente in Mazzini e d’Azeglio, Nievo e Garibaldi, Guerrazzi e Ruffini, e molti altri; sorge in un’epoca di fondazione con il miraggio – perché tale sembra sino al 1859 – dell’indipendenza e dell’Unità. Un tempo lontano – altra Italia e altro mondo, altri problemi, altre speranze, altra economia – che si riflette nel nostro soltanto per la sensazione crescente che l’onda della Storia stia per scaraventarci, partecipi o non, in un’era diversa.

3. L’illusione ancora largamente coltivata

L’illusione ancora largamente coltivata che alcuni fondamenti della società moderna siano punti di felice non ritorno – la democrazia, la laicità, o finanche l’internet veloce senza fili o le telefonate gratis da un continente all’altro – si dovrà forse scontrare con la ciclicità non sempre virtuosa della Storia. La famosa incomprensibile Astuzia e molto altro. Ma intanto, rispetto al tempo delle patrie fondazioni, ci troviamo di fronte a un vuoto terribile, che potrebbe diventare un’insperata risorsa. I Padri fondatori disponevano di un formidabile arsenale: la morale ereditata da generazioni, i valori conosciuti e largamente condivisi, una religione che offriva l’opportunità di sposarne l’etica spiccia senza per questo dovere avere fede (da d’Azeglio a Montanelli si ritrova l’affermazione di essere cattolici, ma non credenti). Per chi non era nel recinto, una ramificazione, più o meno rassicurante, di credo naturali – dall’Emile in giù – offriva valori formalmente alternativi ma quasi mai radicali. Alla fine, financo il Foscolo più indignato, nelle pagine dell’Ortis futura grammatica dei nascenti patrioti, dopo aver denunziato la relatività degli ordini di giustizia, che quasi sempre condannano il povero («io non distinguo che fortunati e sfortunati»!), concludeva «che l’inedia, le colpe e i supplizij sono anch’essi elementi dell’ordine e della prosperità universale; però si crede che il mondo non possa reggersi senza giudici né senza patiboli; ed io lo credo poiché tutti lo credono». Idea che regge solo se un intero sistema di valori, immanente al punto da non doverlo giustificare, consente di piantonarla.

Dunque, l’insperata risorsa. Il relativismo condannato o osannato, ma comunque imperante, offre oggi praterie vergini da colonizzare. Lo hanno compreso, in Italia, i nuovi tribuni, che sono i primi arrivati e sembrano per questo forti e soli: relativismo morale e crisi economica costituiscono una miscela potenzialmente evolutiva. Spazi inediti si aprono per la fondazione di un nuovo sistema di valori: un credo civile che sostituisca l’antico –  incartapecorito, imbolsito – su altre basi. Un credo da condividere e poi trasmettere, fondato sul meglio della nostra tradizione umanistica e su una visione moderna della giustizia, quindi della struttura dello stato. Il bivio è questo: o continuare a costruire cancelli e barriere intorno a quel che si vuole preservare, sapendo che prima o poi sparirà; o riuscire a trasmettere – perché è anche questo un modo per pagare il proprio “debito” con la società – il senso di quel che si vorrebbe proteggere.

1 thought on “Quel cancello intorno a Dante, a Napoli

  1. Concordo su questo scritto, questa denuncia. Una statua di Dante, molto bella, guarda il mare a Otranto ed è bello pensare che gli immigrati abbiano potuto ammirarla, sbarcando profughi dall’Albania, riconoscendo subito in Dante il sommo poeta italiano, anzi il Poeta. Imparare Dante a memoria e ricordarlo nei momenti di degrado, credo che tratterrebbe molti ragazzi dal deviare, almeno me lo auguro. Quindi, instillare nei ragazzini l’orgoglio per quello che il passato, immeritevoli, ci dona; portare le scolaresche al museo archeologico napoletano, a San Martino con i suoi meravigliosi presepi, a Sant’Elmo, far conoscere loro i grandi autori napoletani, come Michele Prisco ed educare alla civiltà, alla convivenza…si può, questa è la strada!

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