di Massimo Raffaeli

 

C’è una grande squadra di calcio che non ha mai giocato perché è esistita solo per un attimo nella mente di un poeta italiano, il quale la battezzò col nome del fondatore stesso della lirica occidentale. Ha infatti raccontato Raffaele Carrieri, critico d’arte e buon poeta a sua volta, che sabato 7 marzo 1942, campionato di guerra, vigilia di un Milan-Juventus, Giuseppe Ungaretti si trovava nella hall dell’Albergo Maltecca, nel centro di Milano, in attesa di tenere una conferenza su Francesco Petrarca. Qui, prosegue il testimone (citato nella cronologia che precede Vita di un uomo. Tutte le poesie, a cura di Carlo Ossola, Mondadori “Meridiani” 2009) “all’ingresso dell’albergo c’era tutta la squadra della Juventus al completo. Il capitano, rivolgendosi in piemontese a Ungaretti come a un onorevole rivale del campionato in corso, gli domandò a quale squadra appartenesse: Io faccio parte della Petrarchesca! La risposta di Ungaretti non ammetteva repliche”. Bisogna immaginare postura e silhouette di Ungà, un giramondo che ormai ha cinquantaquattro anni: i capelli arruffati, la barba da lupo di mare, gli occhiali d’osso, la pipa, egli è reduce da una traversata di due settimane che dal porto di Santos, in Brasile, l’ha condotto prima a Roma e poi a Milano. Fascista, anzi mussoliniano della prima ora (ed è stato proprio il Duce a introdurre nel suo stile spiccio e grossolano i versi di Il Porto Sepolto, nel 1923) col regime continua ad avere rapporti ambivalenti: già collaboratore e corrispondente da Parigi del “Popolo d’Italia”, firmatario del Manifesto di Giovanni Gentile e tuttavia refrattario alle grandi prebende, per sopravvivere ha dovuto emigrare oltreoceano accettando la cattedra di Letteratura italiana all’Università di San Paolo dove è rimasto cinque anni, fino all’entrata in guerra del Brasile contro l’Asse: e lui, cioè l’uomo più negato al servilismo, farà l’errore di accettare dal regime agonizzante sia la nomina per chiara fama alla Sapienza sia, soprattutto, quella all’Accademia d’Italia, due poltrone che nel dopoguerra gli costeranno una temporanea ma umiliante epurazione.

 

Stando alla più classica delle sue biografie (a firma di un critico appassionato di calcio, segnatamente juventino, Leone Piccioni, Vita di un poeta. Giuseppe Ungaretti, Rizzoli 1970) a San Paolo il poeta si è esclusivamente dedicato al lavoro di insegnamento e ai vagabondaggi all’interno dell’immenso paese di cui lo affascina il rigoglio della natura, la grandezza immane delle piante come l’esotismo degli animali, laddove vagheggia l’impronta di un Barocco direttamente progettato dalla mano di Iddio: i soli versi che ha scritto, per lui i più segreti e strazianti di tutta la vita, li ha composti in morte del figlio Antonio Benito, per i familiari Antonietto, spentosi di appendicite a nove anni, commemorato nella poesia in cui si legge Gridasti: soffoco… (poi nella raccolta Un Grido e Paesaggi, 1952). La villetta fra le agavi dove Ungà è vissuto cinque anni, a San Paolo, si trova nella zona di più fitta immigrazione italiana a pochi passi dal Parque Antàrctica, l’antico e oggi rinnovato stadio del Palmeiras: è impossibile che il poeta (benché ignaro di calcio e indenne da qualunque passione sportiva) non sapesse nell’atto di lasciare la città che giusto nel ’42, in giorni di nazionalismo redivivo, la squadra locale già denominata “Palestra Italia” ha dovuto mutare il suo nome troppo compromesso col nemico in un altro più adatto alla presunta identità paulista. (Fondato nel ’14 a seguito di una trionfale tournée in Sudamerica di Torino e Pro Vercelli, il club resta nemico per antonomasia del concittadino Corinthians, la sua maglia è di colore verde, anzi albiverde, il simbolo è un maiale – pare per una bassa insinuazione dei tifosi corinthiani –  ma il vivaio è prodigo da sempre di grandi campioni: basterebbe citare Pietro Sernagiotto, l’oriundo vicentino detto Ministrinho, minuscola ala destra passata alla Juve del Quinquennio anni trenta, per tacere di Vavà, Djalma Santos, e “Mazzola” Altafini, campioni del mondo a Stoccolma 1958, o dei recentissimi Rivaldo e Roberto Carlos, invece laureati in Giappone nel 2002).

 

Né Ungaretti può ignorare che, sempre all’altezza del ’42, il calcio in Brasile sta attingendo il vertice: importato relativamente tardi, nel 1894, da pionieri scozzesi (così almeno nell’ottimo volume di Alex Bellos, Futebol. Lo stile di vita brasiliano, trad. di Andrea Inzaghi, Baldini Castoldi Dalai 2002), è già riconoscibile per la raffinatezza plastica e per la allure danzata molto prossima al samba, la quale ha acceso la passione dei tifosi al Mondiale francese del ’38 poi vinto dagli azzurri guidati da Vittorio Pozzo; qui, a Marsiglia, nel Velodrome stracolmo, l’Italia di Meazza e di Piola ha dovuto molto faticare (un 2 a 1 in semifinale, leggendario il rigore calciato dal Pepp con la mano stretta all’elastico strappato dei pantaloncini) per avere la meglio sulla squadra verdeoro in cui figurano, tra gli altri fuoriclasse, due neri di mitica possanza: il centrale difensivo Domingos da Guia e il centravanti Leonidas cui viene attribuita l’invenzione della rovesciata con salto mortale all’indietro, brerianamente (in effetti macheronicamente) detta “em bycicleta”. Proprio Gianni Brera, riandando a quell’incontro nella Storia critica del calcio italiano (Bompiani 1975), ironizza  su una squadra straordinaria ma tatticamente ancora così ingenua, candida, da soccombere al pragmatismo malizioso degli adepti al contropiede: “Leggerò un giorno di questa partita in una storia del calcio brasiliano. Viene presentata come la nequizia di Minerva sotto le porte Scee. Achille sbaglia a lanciare l’asta ma la dea perversa gliela fa ritrovare. Non si sa proprio come i poveri italianuzzi siano riusciti a far fuori i campionissimi do Brasil …” Domatore di Leonidas, si direbbe quasi per virtù etimologica, a Marsiglia è stato Pietro Rava, capitano della Juve, colui che nell’atrio dell’Albergo Maltecca, parlandogli in dialetto piemontese (essendo nato a Cassine di Alessandria, nel 1916), chiede al poeta della sua appartenenza calcistica: Rava è un fascista ben più fiero e convinto di Ungaretti e si appresta non a caso a lasciare la squadra per seguire l’Armir in Unione Sovietica, nella più sciagurata impresa bellica di Benito Mussolini. Intorno al capitano stanno i figuranti di una squadra mediocre, a parte Alfredo Foni, suo collega in retrovia come ai Mondiali del ’38, un centravanti kosovaro molto lesto nello scatto e nel tiro, Riza Lushta, e un giovane operaio della Fiat destinato a una fulgida carriera di centromediano, nientemeno Carlo Parola.

 

La partita che si gioca l’indomani a San Siro (un campo ancora periferico, forse un quarto dell’attuale complesso) è una scialba, malinconica, partita del tempo di guerra. Il Milan indossa sempre la casacca rossonera ma non si chiama più Milan, bensì “Milano” in ottemperanza alle vigenti direttive xenofobe. Il suo profilo complessivo è altrettanto modesto, di anonimi e rozzi muscolari, a  parte il duo d’attacco che prevede il centravanti Aldo Boffi, detto con qualche enfasi il bombardiere di Seregno, e un’ala sinistra di estri micidiali ma incostanti, quel Gino Cappello che nel dopoguerra avrà alterna fortuna nel Bologna: a centrocampo, ormai immobile, ieratico nelle giocate, spende i residui della sua classe immensa Giuseppe Meazza, svenduto l’anno avanti dall’Inter agli odiati cugini del Milan, l’asso che la memoria degli intenditori a lungo ha associato a un Petrarca del football. (Ma il Pepp è davvero in disarmo, ha un piede freddo per un embolo, perciò si limita ad assistere al gioco e vi rientra dopo lunghissime pause. Il suo credito è comunque inestinguibile: dalla panchina della Juve, quell’8 marzo del ’42, lo sta osservando e forse si sta commuovendo uno che gli è stato compagno in nazionale nonché avversario tra i più truculenti, l’italoargentino Luisito Monti che vorrà Meazza l’anno dopo alla Juve prima di lasciare la panchina al solo centravanti che abbia gareggiato col Pepp quanto al nitore dello stile, e cioè Felice Placido Borel detto Farfallino). La partita finisce 1 a 1, segna a metà del primo tempo Sentimenti III su rigore per la Juve, pareggia il “Milano” in avvio di ripresa per un autogol di Rava in persona. Nonostante si continui a giocare fra un allarme e l’altro nella città da anni bombardata, nonostante i giornali continuino a suonare la diana, ebbri di retorica littoria, il giorno dopo chiunque legga tra le righe ne deduce una partita squallida, inutile, futile persino: d’altronde la Juve finirà al sesto posto, il “Milano” addirittura al decimo rischiando la retrocessione nel campionato che dà il primo scudetto alla Roma di Krieziu e Amedeo Amadei. E’ probabile che, di tutto questo, il vecchio Ungà non abbia mai saputo nulla in vita sua. Gli appunti per la conferenza all’Albergo Maltecca presto si sarebbero tradotti in uno dei suoi saggi più alti, Il poeta dell’oblìo (1943), la Petrarchesca, viceversa, non sarebbe mai scesa in campo.

 

[Questo articolo è già apparso su «alias» de «il manifesto»].

 

[Immagine: La nazionale italiana di calcio negli anni Trenta. Figurine Cioccolato Zelante (gm)].

5 thoughts on “Ungaretti e il calcio

  1. “E’ probabile che, di tutto questo, il vecchio Ungà non abbia mai saputo nulla in vita sua. Gli appunti per la conferenza all’Albergo Maltecca presto si sarebbero tradotti in uno dei suoi saggi più alti, Il poeta dell’oblìo (1943), la Petrarchesca, viceversa, non sarebbe mai scesa in campo”. (Raffaeli)

    Raffaeli, mi pare che lei abbia una passionaccia per il calcio, ma invece di ficcarci dentro Ungaretti a tutti i costi (“è impossibile che il poeta (benché ignaro di calcio e indenne da qualunque passione sportiva) non sapesse nell’atto di lasciare la città che giusto nel ’42, in giorni di nazionalismo redivivo, la squadra locale già denominata “Palestra Italia” ha dovuto mutare il suo nome troppo compromesso col nemico in un altro più adatto alla presunta identità paulista”) per un improbabile saggio su Ungaretti e il calcio, mi piacerebbe che approfondisse di più il tema Ungaretti e il fascismo. Ci sono forse rapporti più “consistenti” a quanto pare…
    L’ha già fatto?
    Allora mi scuso dell’obiezione.

  2. Il calcio oggi si configura come il nuovo oppio dei popoli. Uno dei tanti.
    Boicottare gli europei si impone. Hanno fatto strage di cani innocenti, nella indifferenza generale. Anche di voi, cosiddetti intellettuali.

  3. Troppa grazia chiedere di rinunciare agli europei per protesta alla barbarie.

    Dinanzi al calcio diventano tutti (o quasi) lobotomizzati, intellettuali compresi

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