[Le altre parti di questo intervento si possono leggere qui: 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7].
di Rino Genovese
C’è una costrizione alla comunicazione; dal suo universo non si può uscire, finanche le rotture prodotte nel suo ambito ricadono all’interno della stessa comunicazione. Uno scrittore, un artista, che dopo le avventure del Novecento, dopo tutte le provocazioni e le eversioni linguistiche, non l’avesse compreso e volesse essere uno scrittore o un artista “appartato”, oppure il grande autore che dell’universo della comunicazione se ne infischia per tenere dietro solo all’opera sua, non è un intellettuale. Ecco un paradosso dei nostri tempi: nel momento in cui viene sempre più in chiaro, anche con la potenza di Internet, che la comunicazione è il mondo sociale nella sua essenza, sbiadisce la funzione disorganica dell’intellettuale proprio nella sua essenziale dimensione comunicativa. Le ragioni di fondo del paradosso risiedono nel dissolversi dei gruppi intellettuali affogati nel mare di una comunicazione onnipervasiva e acefala, conformisticamente ridotti e resi ricattabili dalla precarizzazione del lavoro intellettuale, quando non dalla disoccupazione vera e propria. Ma per quanto riguarda i pochi privilegiati garantiti (forti cioè di un regolare stipendio, di un patrimonio personale, o dei proventi ricavati dalle loro pubblicazioni), si può chiamare in causa l’opportunismo, la mancanza di tenuta morale, un deficit di sensibilità politica nell’offrirsi.
Un giovane giornalista-scrittore, che si occupa di criminalità organizzata, scrive un libro appassionato e appassionante su un fenomeno che inquina da sempre la vita nazionale, ma non trova di meglio che pubblicarlo presso un gruppo editoriale il cui padrone è da sempre sospettato di avere avuto rapporti con la mafia e di averne riciclato il denaro. Non è un errore? Forse non indebolisce o rafforza il discorso di un autore il contesto in cui è pubblicato il suo libro? E se lo stesso autore, nel frattempo divenuto famoso, persevera e trova non si sa bene quali motivi per non andarsene da quel gruppo editoriale, nonostante il suo padrone sia anche presidente del consiglio – senza neppure un “conflitto di interessi”, perché da quel posto fa molto bene solo i propri interessi –, non sarà da biasimare per questo atteggiamento?
In qualsiasi questione posta dalla comunicazione, cioè dal contesto entro il quale un intervento s’inserisce, la domanda che l’intellettuale dovrebbe porsi è la seguente: il mio intervento diminuisce o accresce la generale confusione? Si sa, la comunicazione sociale planetaria è in se stessa confusa: è la girandola dei punti di vista senza capo né coda. Se un intervento disorganicamente intellettuale può avere un senso dentro il bailamme, questo consiste non già nell’assecondare la confusione, ma nel ricercare la chiarezza e, nel caos, una coerenza. Organico è il disordine della comunicazione dilagante – a cui non ci si può opporre, che si può soltanto accettare come un destino. Ma un’oasi disorganica si produce quando, dal suo interno, un intervento riesce a essere un fattore anche piccolo di diminuzione del caos.
Ciò significa che la scelta del contesto e il modo di comunicare sono oggi pressoché tutto l’impegno intellettuale. La questione non è più, forse non è mai stata, prendere posizione a favore o contro questo o quello (si tratta qui, in fondo, di qualcosa da mettere in discussione ogni volta di nuovo nell’incessante mutare delle circostanze), ma come prendere posizione, entro quali spazi comunicativi, in quali dispute o dibattiti, con quali mezzi. Internet è diventato oggi uno dei media più importanti. Il punto non è stabilire se esso sia più o meno “tecnologico”, se sia o no contrario all’umanesimo (i mezzi tecnici di diffusione non sanno nulla di ciò: la loro funzione consiste nell’aumentare le possibilità di connessione nella sincronizzazione tra un emittente e un ricevente: e ciò vale anche per quell’innovazione tardomedievale che fu la stampa). Il punto è piuttosto in che modo esso possa e debba essere usato. Le parole e le cose non sono Dagospia, non solo per la diversità dei contenuti, quanto per i diversi rapporti di comunicazione che instaurano. Allo stesso modo la questione non è se apparire o no in televisione, ma eventualmente come apparirvi, su quali canali, in quali trasmissioni, in che modo, per dire che cosa. Non è se scrivere o no sui giornali, ma su quali giornali e che cosa scrivere. Soprattutto, a chi rivolgersi? A un pubblico previsto come già esistente, quindi rimodulando le solite cantilene per compiacerlo, o a un pubblico potenziale, utopicamente da costruire?
Ma come sottrarsi, in particolare in Italia, alla sensazione che non sia più possibile costruire nulla? Che non ci sia spazio, in un mercato culturale chiuso, per alcuna seria novità? Opere importanti della cinematografia mondiale, considerate “difficili”, spesso non arrivano nel nostro paese perché non trovano un distributore. Le sale cinematografiche, trasformate in contenitori multipli quanto anonimi, non si distinguono l’una dall’altra per le programmazioni. I libri che non hanno una sicura collocazione di genere (che non siano, per esempio, romanzi polizieschi, o almeno romanzi tout court, classificabili come tali) non trovano posto in librerie trasformate in grandi magazzini che vendono ammennicoli vari, mentre il volume stampato è diventato un articolo quasi secondario. La distribuzione libraria è sotto il controllo di due sole agenzie a carattere nazionale, l’una facente capo a un gruppo editoriale (Mauri-Spagnol, il terzo sul mercato), l’altra alla Feltrinelli che, oltre a essere una casa editrice con vendite tra il 4 e il 5% del totale, è la proprietaria della più vasta rete di punti vendita. Nell’insieme, i tre maggiori gruppi editoriali più la Feltrinelli hanno il 50% del mercato; il restante 50% è un pulviscolo di piccole case editrici. In una situazione bloccata in senso oligopolistico, che cosa ne è della diversificazione, del pluralismo dell’offerta e della possibilità che un piccolo editore diventi un grande editore? Quali insomma gli spazi per tentare di far vivere un modo diverso di concepire l’industria e il mercato editoriali?
Sono domande che dovrebbero essere al centro dell’ansia dell’intellettuale circa il proprio destino, sempre che voglia averne uno. Attorno a questi problemi si delineano gruppi di tenore opposto, per così dire in entrata o in uscita. I primi sono quelli che cercano di acconciarsi dentro il mercato così com’è; i secondi quelli che si separano dalla comunicazione realmente esistente, muovendo all’aperto verso qualche forma di utopia. I primi metteranno in campo tutti gli accorgimenti e le prudenze per pubblicare presso i grandi gruppi editoriali, intervenire sui maggiori giornali e nelle trasmissioni televisive; i secondi cercheranno di modificare la struttura attuale del mercato della parola, per esempio finanziando piccole case editrici o pubblicando i propri lavori su Internet senza diritti d’autore. Naturalmente tra i due opposti atteggiamenti vi è un’ampia gamma di sfumature: mai come in questo campo il bianco e il nero non si danno come i colori di un’alternativa netta. Tuttavia la differenza tra i due modi di essere c’è, è palpabile. Il primo atteggiamento, quello in entrata, trasforma facilmente l’intellettuale in un funzionario (magari in un editor, un servo dell’editoria così com’è), o in qualcuno che, pur svolgendo un lavoro importante e perfino originale, è reso dal contesto un cortigiano. Con il secondo atteggiamento, in uscita, si rischia costantemente la marginalità ininfluente. Però solo questo è in grado di salvare l’onore del chierico (per parlare come Benda).
In una situazione talmente difficile non bisognerebbe darsi al gioco della compilazione di classifiche dei libri “di qualità”. La qualità infatti non esiste al di fuori di un contesto. Sottolineare come notevole un intervento o un libro senza porsi il problema critico dell’ambito comunicativo in cui ha luogo, vuol dire consegnarsi al significato ambiguo della presunta qualità, inficiando alla radice le motivazioni addotte per la compilazione della classifica stessa – almeno quelle “ufficiali”, riguardanti il diritto-dovere della critica di esprimere giudizi di valore. Del resto è ovvio che i gruppi editoriali maggiori, se non altro per la legge dei grandi numeri, pubblichino anche buoni libri insieme con il ciarpame. Sarebbero piuttosto da segnare con un meno – e avrebbero perciò un senso liste dei libri da non leggere, come quelle pubblicate un tempo dai Quaderni piacentini – gli interventi che, furbescamente o candidamente, evitano di porsi la questione del contesto in cui avvengono, “belli” o “brutti” che siano. L’idea che la qualità di un’opera, di un prodotto intellettuale qualsiasi, sia il criterio di giudizio discriminante e definitivo è tanto ingenua quanto colpevole.
[Immagine: Dale Chiluly, Garden and Glass: The Collections (gm)].
L’inizio è detestabile, veramente frutto del non sapere e del non frequentare, e dell’avere una prospettiva limitata;e rispondo a malo modo così perché Genovese parla “per” gli artisti, indica comportamenti da tenere neanche fossimo nella vecchia URSS: “C’è una costrizione alla comunicazione; dal suo universo non si può uscire, finanche le rotture prodotte nel suo ambito ricadono all’interno della stessa comunicazione. Uno scrittore, un artista, che dopo le avventure del Novecento, dopo tutte le provocazioni e le eversioni linguistiche, non l’avesse compreso e volesse essere uno scrittore o un artista “appartato”, oppure il grande autore che dell’universo della comunicazione se ne infischia per tenere dietro solo all’opera sua, non è un intellettuale.” Ma cosa sta dicendo? Parli per sé, e dica di farlo, non tiri in ballo situazioni troppo grandi e complesse.
” L’idea che la qualità di un’opera, di un prodotto intellettuale qualsiasi, sia il criterio di giudizio discriminante e definitivo è tanto ingenua quanto colpevole.” (Genovese)
Meno male che le idee critiche sul concetto di QUALITA’ “pordenoneleggenti”, vilipese quando dette da un commentatore qualsiasi ( come Abate, Larry Massino, Giorgio Linguaglossa) quando vengono pronunciate da un autore di post “autorizzato” come Genovese hanno una maggiore nobilità!
C’è ancora un po’ di confusione tra autoritarismo e autorevolezza ( vero, Policastro?) ma le gioiose macchine della critica si fanno strada.
Evviva!
Corrige:
, se vengono pronunciate da un autore di post “autorizzato” come Genovese, hanno una maggiore nobilità!
Veramente Genovese dice il contrario di quello che gli fa dire “Un amico dell’artista Pardi”. Descrive una situazione oggettiva che non approva. Io ho apprezzato molto il modo in cui Genovese denuncia il naufragio della cultura nella “comunicazione onnipervasiva”. Mi sembra però che non provi nemmeno a indicare una via d’uscita.
Assai interessante e stimolante, specie perché osserva come sia difficile, probabilmente ontologicamente impossibile, chiamarsi fuori dalla comunicazione come “essenza” del “mondo sociale”. Nous sommes embarqués. Tuttavia credo che la dicotomia “integrati/organici” e “appartati” sia un po’ troppo netta.
E’ sempre esistita una impalpabile e impercepita ma diffusa intellettualità nelle pieghe invisibili della società, anche della microsocietà (nelle famiglie, nei rapporti di amicizia). Nella contemporaneità, la storia diventa sempre di più un microracconto, un racconto del “tra” e del “sub”, diversamente dal passato, in cui il solo macroracconto poteva ambire alla rappresentazione pubblica (parlando della storiografia in senso stretto, un banale esempio può essere lo slittamento dalla storiografia evenemenziale delle vicende dei re e delle loro guerre a quella degli Annales). Oggi la Rete permette almeno a una parte di queste microvoci di emergere; la Rete insomma rivela e porta ad emersione ciò che tuttavia è sempre esistito. (Questo chiaramente porta anche a un aumento del rumore di fondo e del rumore tout court, purtroppo).
Perciò credo che si possa essere del tutto “appartati”, pur essendo “intellettuali”.
Mi sembra condivisibile però il criterio di individuazione dell’intellettuale posto da Genovese: egli contribuisce a ristabilire un po’ ordine dentro Babele e a non aumentare l’entropia? E’ un criterio etico.
Nell’ambito della microstoria di cui parlo, questo criterio forse va inteso così: si contribuisce – minimamente e quasi impercettibilmente – all’ordine e alla chiarezza, ogni volta che, discutendo al bar sport (o a tavola con i familiari), non si discute per discutere, per malizia, per la volontà di averla vinta sull’avversario e di appuntarsi un’altra patetica medaglietta al petto, ma ci si pone in ascolto, si spiega, ci si spiega, si incontra. Lo scopo è capire, farsi aiutare a capire, aiutare a capire. Un pedagogia totale ed estesa.
Chiaramente, sarebbe auspicabile che ciò accadesse anche fra gli intellettuali propriamente pubblici, anche perché l’attitudine (polemica, autoritaria, malevola o curiosa, umile, sagace) che si mostra nelle relazioni private spesso è la stessa manifestata nel campo aperto del pubblico agone.
Bravo Lo Vetere
E’ sicuramente un argomento tanto affascinante quanto complesso quello trattato da Genovese. Ho apprezzato il quadro culturale esposto dall’autore, anche se opinabile e discutibile.
“…dissolversi dei gruppi intellettuali affogati nel mare di una comunicazione onnipervasiva e acefala, conformisticamente ridotti e resi ricattabili dalla precarizzazione del lavoro intellettuale, quando non dalla disoccupazione vera e propria” mi sembra che Genovese tratti il grande e attuale problema del ruolo dell’intellettuale-scrittore-giornalista dei nostri tempi, discorso che si collega ai concetti di qualità e contesto. Il formarsi dell’opinione pubblica si fonda proprio sui concetti di qualità, contesto e diversificazione. Tuttavia spesso si confonde la qualità con l’abbondanza di informazioni (se ne parlava, qualche settimana fa, in un altro articolo di un noto sito letterario). Per scremare ciò che è veramente degno di lettura entrano in gioco (in primis) la formazione e la cultura personali (e poi abbiamo la tecnologia come i sistemi di Google etc…). Certo anche il contesto, l’atmosfera in cui è immersa l’informazione deve essere oggetto di critica. Questo per dire che, a ben guardare, il periodo storico e culturale che stiamo vivendo è caratterizzato dal pluralismo sopra al quale, però, vige l’autoritarismo della grande distribuzione. Ecco quindi che assistiamo ad un pluralismo limitato e, spesso, controllato.
Da questo punto di vista, forse, bisognerebbe ricostruire la figura stessa dell’intellettuale, ripensare alla sua collocazione (al suo destino, appunto) in una società culturalmente, socialmente e comunicativamente mutata.
Una precisazione terminologica, per me essenziale, specialmente perché non posso aspettarmi che tutti quelli che intervengono abbiano letto le puntate precedenti di questo lavoro.
La dicotomia che propongo è tra l’intellettuale “disorganico” (evidente rovesciamento dell’intellettuale organico alla Gramsci) e il “funzionario”, per esempio il manager o l’ “editor” di una casa editrice. Il poeta, l’artista “appartato”, non esistono in quanto intellettuali perché non si pongono il problema della comunicazione, o, se esistono, sono soltanto una “mossa” all’interno della comunicazione (sfido chiunque a scrivere qualcosa senza avere in testa un ricevente qualsiasi, magari soltanto quel sé che lui stesso sarà domani rileggendosi). Nella comunicazione siamo tutti presi; ma un intellettuale è disorganico rispetto all’entropia – il termine è appropriato – che la comunicazione, soprattutto quella mediatica, produce.
Fin qui, se si vuole, si tratta di una descrizione della situazione in cui viviamo. Un’ulteriore dicotomia, che provo a introdurre nel finale, è invece quella tra chi entra e chi esce dal sistema della comunicazione così com’è. Siamo adesso sul piano di una scelta di valore. L’intellettuale “in entrata” è, in vari gradi, consenziente; quello “in uscita”, in vari gradi, dissenziente. La mia preferenza va a quest’ultimo.
Mi sa che il suo intellettuale “disorganico” resti un po’ come in un limbo e assomigli parecchio a quello “impolitico” di cui parlò molto attorno agli anni Novanta R. Esposito (ma anche altri…).
Il dissenziente o ci crea un progetto (e cioè lavora insieme ad altri e quindi ridiventa “organico” almeno rispetto a questi altri che lui sceglie) oppure parla ai posteri o a “quel sé che lui stesso sarà domani”.
Non si scappa. Secondo me è che siamo io/noi e non io/io. Più banalmente non possiamo vivere da soli anche quando odiassimo tutti. Non possiamo essere “disorganici” se non metaforicamente…
Eppure, Ennio (si fa per parlare), la poesia e la letteratura alle quali tutti noi ci riferiamo, è stata prodotta da uomini e donne generalmente appartati; a volte ostinatamente appartati, ma più spesso isolati dagli ” organici ” . Essere appartati, o isolati, non vuol dire scrivere per se stessi o per i posteri, né tantomeno vuol dire essere asociali; magari vuol dire partecipare con le proprie forze all’evolversi dei processi estetici, che sono più lunghi di quelli comunicativi. Invece dal tuo ragionamento, dal tuo modo di porti, pare che l’estraniamento – secondo me artisticamente necessario, ma che deriva più spesso da una condizione che da una scelta – sia solo un fatto di superbia dei singoli.
Comunque, a questo punto mi piacerebbe che Genovese facesse qualche nome di poeti e scrittori viventi (italiani) che considera dissenzienti.
Mi piace quest’idea: l’intellettuale disorganico (cioè critico) è quello che si sforza di diminuire il grado di confusione, cioè ricerca “la chiarezza e, nel caos, una coerenza”. Mi sembra una tesi molto giusta: la confusione, o meglio il disorientamento di fronte all’informazione e alla babele dei discorsi, spesso ideologici, sono un effetto sistemico. Sono l’effetto di una differenziazione funzionale fuori controllo, e della tendenza di ogni sistema ad affermarsi sugli altri, anche colonizzandoli. E i sistemi più forti, cioè mercato e potere, penetrano gli altri. La nostra alienazione è questa gabbia, che produce la mancanza di senso e di prospettiva critica. La critica non può che essere lo sforzo unitario di mettere insieme i pezzi, in modo chiaro e onesto. La critica non può essere più il gesto intellettuale sovversivo, contro il sistema; quel gesto viene fatto proprio dal sistema stesso, come stile potenzialmente oggetto di una fetta di mercato.
Se questo è vero, allora non si può dire che il problema è solo di “come” svolgere il lavoro intellettuale. È anche un problema di contenuto: riuscire a studiare le cose rilevanti, e a produrre conoscenze che siano davvero capaci di illuminare l’esperienza in cui viviamo. Quindi il prendere posizione conta.
Ciò detto è verissimo che il problema del modo c’è. La distinzione tra intellettuali “in entrata” e “in uscita” mi sembra interessante. Ma è chiaro che anche qui paghiamo il prezzo di una divisione del lavoro sempre più spinta. C’è un modo di praticare un’attività intellettuale all’interno di una attività sociale e politica, cioè all’interno del lavoro di un’organizzazione, che persegua fini sociali o politici, o anche di una istituzione sociale, pubblica, la cui azione abbia un valore per la società? Quanto più perdiamo questa possibilità, o rinunciamo a recuperarla, tanto più il lavoro dell’intellettuale sarà finalizzato o alla semplice affermazione personale o alla testimonianza ininfluente. Se invece cerchiamo di salvare l’idea di una trasformazione cosciente della realtà nell’agire sociale, anche istituzionale, allora l’intellettuale deve inserirsi in esso, contribuire costruttivamente, per quanto “disorganico” o critico.
“Se invece cerchiamo di salvare l’idea di una trasformazione cosciente della realtà nell’agire sociale, anche istituzionale, allora l’intellettuale deve inserirsi in esso, contribuire costruttivamente, per quanto “disorganico” o critico.” (Piras)
Faccia degli esempi concreti. Dimostri in quali istituzioni un intellettuale critico ( e “disorganico”… concedo provvisoriamente) sta contribuendo costruttivamente alla “trasformazione cosciente della realtà “.
@ Massino
gli uomini e donne “ostinatamente appartati” per me non peccano di superbia.
Se uno s’apparta per lavorare e lavora bene fa uno cosa buona.
Ma l’appartarsi è sempre relativo. Se poi scrive, è continuamente a dialogare o a litigare con gli altri che affiorano già sotto o dietro le parole che usa. Perciò ho parlato di io/noi.
Qui, però si sta parlando della possibilità degli intellettuali di non essere “organici”.
A differenza di Genovese sostengo che un intellettuale che da “organico” a un partito, un’azienda, un giornale se ne stacca, esce può essere solo temporaneamente “disorganico” (a quel partito, azienda o giornale) perché magari collaborerà con gli oppositori di quelle istituzioni che ha lasciato. O, se non ne trova di convincenti, sarà un “testimone ininfluente” (Piras) o un “impolitico” (Esposito) ma, a meno che non viva definitivamente da eremita e non lasci neppure una testimonianza di quello che fa o pensa, dialogherà magari con intellettuali morti di altre epoche o con i posteri, stabilendo comunque un rapporto che , fatte le debite distinzioni, potrebbe essere “organico” ( organico con gli ignoti che forse riscopriranno le sue idee).
E poi, se disorganico = critico, qualcuno mi spiegherà in nome di chi questo tizio criticherà…
Cari amici, sto cercando di fissare alcuni concetti per una teoria dell’intellettuale dopo la fine (a me sembra) di tutte quelle precedenti. Perciò sarebbe fuori luogo citare Tizio e Caio e distribuire pagelle (a parte la mia scarsa simpatia per le classifiche e i canoni). Ho fatto solo l’esempio, piuttosto trasparente, di Saviano perché è indicativo. Un giovane intellettuale, mettendo insieme reportage e finzione, scrive un libro che gli dà un grande successo ma, quasi immediatamente, lo relega nella figura dell’eroe sul mercato della parola scritta e parlata. Addio intellettuale “critico”! Diremo per questo che Saviano è oggi in una condizione meno disorganica di quella in cui era in precedenza, quando lavorava da giornalista ultraprecario? No, c’è comunque una differenza tra lui e il funzionario del berlusconismo editoriale che lo ha pubblicato. Ma, da un punto di vista critico e politico, il personaggio Saviano non regge.
La disorganicità è una condizione sociologica obiettiva. Organico è solo il caos comunicativo; essere organici a una classe sociale, o più in generale a una prospettiva politica, non è più possibile, ammesso che lo sia mai stato in passato senza trasformarsi in un funzionario. (Già Fortini, caro Abate, si poneva il problema: ma dov’è più il mandato?). La condizione disorganica è quella di chi è solo, atomizzato, dentro la comunicazione. Si potrebbe accusare di individualismo questa visione delle cose – sebbene essere “individui” sia diverso dall’essere puri atomi -, non di impoliticità. In ogni caso essere politici (o impolitici e persino antipolitici), eventualmente critici, “in entrata” o “in uscita”, con o senza quelle conoscenze specifiche richieste giustamente da Piras, sono tutti atteggiamenti variamente modulati che implicano scelte all’interno di circostanze di vita diverse tra loro. Non si possono identificare il carattere disorganico obiettivo e quello politico (o impolitico) soggettivo. Nella prossima puntata mi propongo appunto di trattare il tema (abbastanza classico) “intellettuali e potere”. Per il momento grazie.
@ Genovese
Lei continua a tenermi in sospeso di post in post e, peggio di un oracolo, non scioglie mai i miei poveri dilemmi, ma aspetto paziente. (Come resto in attesa che Piras porti gli esempi di intellettuali che, criticando davvero e dall’interno le istituzione, non vengono presi a pedate e non si riducano a fare – per forza di cose non per vocazione – i grilli parlanti, come me).
Tuttavia, non mi usi Fortini per menare il can per l’aia. «Già Fortini […] si poneva il problema: ma dov’è più il mandato?».
Ma io non sono a caccia di nessun mandato. M’interrogo, come lei, su cosa possa fare oggi – da solo o con altri “intellettuali periferici” – oltre a una rivistina o a qualche blog.
E davvero non trovo nessun partito o Ong o altro a cui associarmi.
Però non sopporto l’ambivalenza degli intellettuali che, nell’affrontare questa loro condizione, fingono di non sapere che nell’essenziale, anche se c’è Internet, il dilemma non è molto diverso da quello che affrontarono i loro padri.
Cosa facevano i più lucidi tra loro durante la calata di braghe della Seconda Internazionale davanti alla guerra? Cosa durante il fascismo?
Gli intellettuali che non vogliono cedere, che leggono ancora i rapporti sociali nella loro cruda, materialissima, gerarchia (dominatori e dominati; o decisori e non decisori, come dice G. La Grassa) devono *cospirare*.
Alla luce del sole (si ricorda della «cospirazione alla luce del sole» a cui invitò proprio Fortini dopo la strage di Bologna del 1980?), quando ancora possibile. O nel buio dell’anominato dove vengono da sconfitti ( vae victis!) di solito cacciati.
Tutto il resto ( e qui su LPLC è molto presente questo “resto”) è chiacchiera. O è strizzatina d’occhio a falsi riformisti (se non a padroni del vapore).
E perciò ho insistito nel criticare la sua “trovata” dell’ intellettuale “disorganico” buttata lì come una novità.
Non credo sia possibile esserlo se non temporaneamente, come ho scritto. Se ci si assume la funzione di intellettuali ( non basta il semplice ruolo) e ci si sente in obbligo eo dovere (anche senza alcun mandato) a capire e, se possibile, a dire qualcosa sulla politica e la società e il potere che in essa domina, si è per forza organici in forme palesi o occulte, totali o parziali, alle forze che decidono o subiscono. O far male o patirlo, mi pare dicesse Manzoni. Quindi o si sta con una delle varie forme assunte Das Kapital ( e la comunicazione oggi è una di queste) oppure si lavora ad un altro progetto, che oggi è tutto da costruire, se la “grande Causa”, le Grandi Narrazioni, il Socialismo, il Comunismo non ci sono più.
Lei, detto bruscamente, come intellettuale a che progetto mira? A salvare «l’onore del chierico»? Ma se non c’è nessuna Chiesa, che chierico è e che onore salva?
E poi perché pare preferire l’intellettuale disorganico alla Benda? Suppongo perché, comunque, in quella posizione, pur di “testimonianza” più o meno “sterile”, una minore sottomissione ai dominatori persiste.
Anche Fortini finì a scrivere sul «Sole-24 ore». Ma con molti scrupoli a quel che raccontò S. Bologna:
«Ricordo quando mi telefonò per chiedermi “Cosa dici, accetto la proposta di collaborare al ‘Sole-24 Ore’?”. Lì per lì non capii la domanda: «Ma che problma c’è mi sembra ovvio», risposi. Probabilmente altri gli avranno risposto: «Ma come, è uno scandalo, lavori per la Confindustria…». (S. Bologna, Industria e cultura, in «Uomini usciti di pianto in ragione”, p. 23, Lumhi -manifestolibri, Roma 1996)
Non sarei stato fra gli scandalizzati. Ma è bene ancora oggi chiedersi: da dove nascevano quegli scrupoli, se non dal dubbio che, lì (in quel giornale, in quel contesto), la funzione critica di Fortini poteva venire neutralizzata? o che egli, impiegando le energie là, non ne aveva più o gliene restavano di meno per spendersi in movimenti o *cospirazioni* più “interessanti”?
E perciò ho fatto una distinzione tra l’intellettuale “io-io”, che è, come dire, all’ultima spiaggia e l’intellettuale ‘io-noi’, che magari sta sul bordo dell’ultima spiaggia, ma…
Lei pensa che, se Fortini fosse rimasto all’«Avanti» o fosse passato, che so, all’«Unità», avrebbe giocato il ruolo che ebbe ( piccolo ma significativo) collaborando (tra l’altro gratis, perché a *cospirare* è più difficile avere sponsr…) con l’’io-noi’ rappresentato allora dai «Quaderni Rossi» o dai “mitici”(?) «Quaderni Piacentini e poi dall’ ur-manifesto?
Non mi pare, dunque, che la domanda cruciale per l’intellettuale sia: « il mio intervento diminuisce o accresce la generale confusione?» o di ragionare delle possibilità di quanto spazio ci sia «in un mercato culturale chiuso». Domande già in partenza “chiuse”. Ma sempre: che fare ( a tutto campo) contro questi dominatori?
Tuttavia rispettosamente attendo il prossimo post.
P.s.
Stiamo preparando Poliscritture n.9 dedicato a un ripensaemento della figura di Fortini. Posso invitarla a collaborare?
Caro Ennio Abate,
io non posso citare esempi, perché non dico che la condizione dell’intellettuale che contribuisca all’azione politico-sociale sia data, pacificamente. Anzi, è molto problematica, e il suo tono scettico (così mi sembra) è del tutto giustificato. La mia era una domanda: è possibile ancora concepire e praticare quella condizione? Ed era anche un auspicio: dovremmo cercare di tenere fede a questa prospettiva, pena il carrierismo o l’impotenza. Ma mi rendo conto che la risposta non è scontata, per le ragioni che ho cercato di esporre: la divisione del lavoro diventa lo schermo ideologico che ci impedisce di stabilire il passaggio dalla teoria alla prassi.
Ciò detto, se non ho grandi nomi da proporre, posso però dire che ognuno di noi può salvare quella prospettiva se fa delle scelte e si sporca le mani, nel suo piccolo: per me, il sindacato e la scuola sono i contesti sociali in cui calare le mie competenze teoriche nella pratica, anche occupandomi di problemi di bassa manovalanza. Bisogna tarpare un po’ le ali alla vanità, che purtroppo è un trascendentale della condizione intellettuale.
SEGNALAZIONE
Sul sito de L’OSPITE INGRATO a questo link:
http://www.ospiteingrato.org/Fortiniana/Fortini_Pasolini_Industria_culturale_Cordisco.html
è stato pubblicato un interessante (per me) saggio di Roberta Cordisco, L’industria culturale di Fortini e l’industria cinematografica di Pasolini: la mutazione degli strumenti intellettuali.
Può essere utile tenerne conto anche in questa discussione. Ne copio per invogliare alla lettura la conclusione:
È evidente che dinnanzi al fenomeno della mutazione antropologica lo sperimentalismo di Pasolini non teme di misurarsi con i più svariati linguaggi e di adeguarsi, seppur contraddittoriamente, alla mutazione degli strumenti intellettuali, accettando così di lasciare senza volto il potere economico che spesso li condiziona La “metacritica” di Fortini, come giustamente l’ha definita Pier Vincenzo Mengaldo30, non può, al contrario, riflettere sulla mutazione senza prima interrogare se stessa e i propri mezzi espressivi. Ciò significa che non si può denunciare il cambiamento se non si porta avanti, di pari passo, un’indagine sulle interferenze del sistema politico ed economico sugli organi della cultura addetti alla trasmissione del sapere e all’informazione. La critica non è solo un linguaggio che chiama in causa la realtà esterna, ma deve anche essere dotata di uno sguardo introspettivo che la porti a farsi critica di se stessa e consapevole delle proprie condizioni nel secolo della scienza e della globalizzazione. Non si può ignorare il funzionamento dell’industria culturale né tantomeno le dinamiche del mercato editoriale se l’intenzione è quella di ricercare coscientemente spazi ancora utili all’attività critico-intellettuale. Nell’invito a riconsiderare l’importanza della nozione gramsciana di “organizzazione della cultura” e a capire il nesso tra sistema economico e produzione culturale si nasconde uno dei messaggi più attuali di Franco Fortini. Non basta essere consapevoli che nel mondo moderno, compreso il nostro, la cultura è ormai merce, bisogna anche essere in grado di riconoscere le influenze politiche e gli interessi economici che l’hanno immessa sul mercato. Per questo non si può che avallare l’allora «perplessa richiesta di una critica della produzione editoriale»31 avanzata da Fortini.
P.s.
Spero che Rino Genovese risponderà al mio precedente commento e alla mia richiesta in P.s.
Per Ennio Abate.
Accetto volentieri la proposta di scrivere per “Poliscritture” e ho appena letto il saggio di Roberta Cordisco, che pone in contrapposizione le figure di Fortini e di Pasolini. Io invece tendo oggi a considerare le diversità tra loro come due facce della stessa medaglia. Vogliamo parlare di atteggiamento ascetico, per Fortini, e di atteggiamento sadomasochistico, per Pasolini, nei confronti dell’industria culturale? Il primo si fondava sul rigore (e chiamava Sergio Bologna per sapere se collaborare al giornale della Confindustria fosse o non fosse in linea con quel rigore), il secondo sullo scandalo, e scriveva, da ultimo – interessante per me è solo l’ultimo Pasolini -, “senza stile” per attenersi al puro scandalo. Chi aveva ragione?
Da ragazzo pensavo che avesse ragione Fortini, perché più vicino alla Scuola di Francoforte e alla sua critica dell’industria culturale; da quarantenne mi è sembrato, invece, che l’atteggiamento di Pasolini, pur insopportabilmente narcisistico, nella realtà italiana (per esempio con il suo modo di intervenire in tv) riuscisse a mordere di più. Oggi, da ultracinquantenne, penso – e l’ho anche scritto nei miei interventi su “Le parole e le cose” – che i due, intellettuali disorganici “ante litteram”, siano stati in effetti molto simili.
Voglio dire che la disorganicità – prima di diventare come oggi una condizione obiettiva di massa, imputabile all’enorme sviluppo della comunicazione, al deperimento (in particolare in Italia) dei centri di ricerca, dell’editoria cosiddetta di qualità, e così via – è stata anticipata da figure che si rifiutavano al funzionariato nei confronti di un partito o nei confronti dell’industria culturale, appunto. Pasolini credeva di potere dominare lui i processi di mercificazione, grazie allo scandalo di cui era portatore; Fortini credeva di sottrarsene grazie al rigore dell’esercizio critico, alla “qualità” delle sue scelte in campo editoriale, per esempio. Tutti e due, comunque, avevano un rapporto in un certo senso produttivo con quella che era allora l’organizzazione della cultura.
Ma dov’è ora questa organizzazione? Organico è solo il caos della comunicazione sociale in senso ampio. Si può anche sostenere che il processo di mercificazione sia andato così avanti che, nel frattempo, alcuni spazi si siano chiusi. Immagino che, espresso in termini di pura continuità, sia questo il giudizio verso cui Ennio Abate vorrebbe spingermi. Però la penso un po’ diversamente: non si tratta soltanto di una mercificazione dei “prodotti culturali” più accentuata rispetto ai tempi di Fortini e di Pasolini, ma di una implosione di quella sfera, che, per essere descritta, richiede strumenti di analisi nuovi. Mi è sembrato piuttosto significativo che l’opposizione stabilita in una precedente puntata de “Il destino dell’intellettuale” tra l’azione e la comunicazione, non abbia trovato commenti. Devo parlare arabo. Eppure è uno dei nodi centrali: fino a un certo punto, è sembrato che quello dell’azione fosse l’autentico orizzonte dell’impegno intellettuale (“la politica è il destino”, pare avesse detto Napoleone, e ciò poteva essere vero per Fortini come per Pasolini); ma se il destino è quello vastissimo del caos comunicativo le cose cambiano. La comunicazione non è l’opposto del potere (anche il potere si muove all’interno della comunicazione), ma non è neppure quella sfera in cui sia possibile un’azione politica come in precedenza (fosse pure il dare scandalo alla Pasolini, o il tener duro alla Fortini). No, la prevalenza della comunicazione sull’azione, fa piuttosto ritornare di attualità l’ “onore del chierico” alla Benda, peraltro in un senso diverso dal suo: non in quello di un universalismo umanistico che difende i “valori”, ma in quello di una descrizione della realtà cui corrispondano atteggiamenti per quanto possibile coerenti.
Per concludere (forse ancora in tono oracolare), il potere esiste ancora, certo, ma una sua lettura tutta sbilanciata in senso economico, nel senso della forma merce, non tiene più: perché nel frattempo è la stessa industria della cultura che è mutata, diventando un’occupazione di spazi nell’ambito di una comunicazione sociale sempre più estesa e pervasiva.
Per Rino Genovese
«Io invece tendo oggi a considerare le diversità tra loro come due facce della stessa medaglia».
Credo che Fortini ne avesse piena consapevolezza se, traendo il bilancio del rapporto con l’amico e antagonista in *Attraverso Pasolini*, lo riassunse in quel lapidario «Aveva torto e non avevo ragione».
Non parlerei però di ascetismo per l’uno e sadomasochismo per l’altro. In entrambi le pulsioni più inconsce, sia per la storia da cui venivano che per i riferimenti teorici accettati (Gramsci, Adorno…), non spiegano tutto.
Erano in fondo scrittori politici seri, allenati a fare un’ “analisi concreta della situazione concreta» (nel caso dell’industria culturale), che oggi in molti s’è ridotta a una caricatura quasi solo opportunistica e ideologica.
Su chi dei due avesse ragione ( o più ragione) mi sento vicino alle conclusioni del saggio di Roberta Cordisco: direi che la “metacritica” di Fortini corregge lo “sperimentalismo” di Pasolini, anche se alla fine della fiera (meglio dello scontro con un avversario così potente) risultano entrambi atteggiamenti insufficienti. E mi pare che lei, pur sostenendo il contrario («Da ragazzo pensavo che avesse ragione Fortini […] da quarantenne mi è sembrato, invece che l’atteggiamento di Pasolini […] riuscisse a mordere di più»), finisca per salvare proprio una delle «buone rovine» di Fortini: non l’analisi (in parte datata) che egli faceva allora dell’industria culturale, ma l’esigenza di approfondire la conoscenza analitica dei mutamenti e quella di farla con strumenti nuovi. Che è anche mia (no, non mi pare di essere un “continuista”…).
Certi spazi si sono chiusi. Lo vide pure Fortini ( e l’episodio del Sole-24Ore o dello stesso attrito con «il manifesto» e Pintor lo provano).
Ma si può parlare di «implosione di quella sfera»? Non sarebbe meglio parlare di ristrutturazione, di cui si sa poco. Anche perché quelli che sanno di più forse la guidano e non vengono a raccontare a noi le loro strategie; e il “noi” che abbia un progetto ad essa contrapposto non c’è proprio più ed è, semmai, tutto da costruire.
Non credo che lei parli arabo (ci sarebbe o c’era qui su LPLC un certo Averroè che lo avrebbe comunque inteso…).
È che nel «caos comunicativo» di azione non se ne può fare. Perché manca quel “noi” e un “quasi progetto”. E mancherebbero anche se Fortini col suo tener duro e Pasolini con il suo scandalo fossero ancora qui. Erano quel “noi”, che già però si disperdeva ( ricorda i “Fratelli amorevoli”?), e un progetto sia pur sbiaditamente socialista ancora da difendere ( ricorda la posizione di Fortini su Gorbaciov o il suo «proteggete le nostre verità»?) che non ci sono più.
Il ritorno all’”onore del chierico” alla Benda mi pare però insufficiente e un po’ equivoco. Come lui si tirava fuori dal conflitto allora in atto e abbastanza chiaro per molti altri intellettuali che si schierarono, seguendone oggi l’esempio, ci tireremmo soltanto fuori dal «caos comunicativo». Per onorarci o onorare una tradizione? Non mi va. Al massimo ci si tira fuori per tentare di indagare il caos in modi almeno potenzialmente “partigiani” (atteggiamento che da un Benda non mi pare possibile derivare).
Infine una lettura di un potere «tutta sbilanciata in senso economico» (una volta si diceva ‘economicista’) della “fu industria della cultura” oltre a non suscitare il mio interesse è oggi davvero una rarità. Chi la fa più?
P.s.
Per il suo articolo su Fortini per «Poliscritture» attendo di concordare tema e data di consegna. La Redazione di LPLC può fornirle la mia mail o farmi avere la sua. Grazie per aver accettato.
http://www.youtube.com/watch?v=_g8JVK4Fppw
Da notare “Il manifesto” sulla scrivania di Sartre che parla della condizione intellettuale nell’epoca della guerra del Viet-nam (che stava andando verso il suo epilogo)