di Niccolò Scaffai
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 6 giugno 2012].
Quali sono stati, e quali sono adesso, i lettori di Primo Levi? Gli specialisti (e dei migliori, da Cesare Segre e Pier Vincenzo Mengaldo a Marco Belpoliti, Domenico Scarpa e Sergio Luzzatto) e gli studenti; i lettori ‘forti’ e quelli occasionali. A quante generazioni appartengono? In senso lato, almeno a tre: quella di chi c’era e ha visto, o ha saputo poco tempo dopo; quella dei figli, nati mentre Levi era ad Auschwitz o negli anni immediatamente successivi; quella dei nipoti, che andavano ancora a scuola o all’università quando Levi è morto. Perché, e in che modo, le tre generazioni hanno letto Se questo è un uomo? Per i primi, è stato il libro «fatale» (così si espresse Umberto Saba, in una lettera all’autore), il libro necessario che qualcuno doveva scrivere. Per i secondi, Levi ha incarnato la testimonianza, fino ad assumere – certo anche suo malgrado – il ruolo di patrono laico nella religione della memoria. Per gli ultimi, per quelli che appartengono grosso modo alla mia generazione, Primo Levi e le sue opere hanno rappresentato anche qualcosa di diverso: la Storia e la Scrittura, unite dal filo sottile ma resistente di una morale implicita, che la scuola e l’università italiane hanno a lungo trasmesso. Leggere Primo Levi, cioè, serviva a imparare quello che era successo e ad assimilare l’economica efficacia, l’altissimo decoro stilistico con cui tutto ciò veniva raccontato. Il massimo risultato con il minimo ingombro.
Quanto riduttiva possa essere quest’idea ‘igienica’ della scrittura leviana, l’hanno mostrato gli studi linguistici di Mengaldo e di altri. Ma il punto non è questo; il punto forse è che, pur cambiando le età e le esperienze dei lettori, è rimasta costante un’idea: che Levi sia più un mezzo per accedere al valore – la coscienza storica, la competenza stilistica o entrambe – che non un valore in sé. Che la prima edizione einaudiana di Se questo è un uomo abbia visto la luce in una collana di saggistica e non di narrativa; che le storie della letteratura novecentesca abbiano stentato a dare all’opera una collocazione plausibile, assimilandola con deboli motivazioni perfino al neorealismo; che Levi sia stato uno scrittore a lungo più amato dai critici-filologi che non dai critici-teorici, sono tutte circostanze legate a questa visione ‘strumentale’.
Alla generazione successiva alla nostra, quella che si sta formando adesso e che legge per la prima volta Se questo è un uomo a venticinque anni dalla morte del suo autore, resta da scoprire Levi come fine. Intendiamoci: le implicazioni storiche e stilistiche restano valide tanto sul piano etico-culturale quanto su quello didattico. Quello che ancora mancava, però, era un modo per far capire ai nuovi lettori – e a moltissimi tra i ‘vecchi’ – che Levi è anche uno scrittore da scoprire in sé e per sé, comunicando loro in forma accessibile i risultati già raggiunti dai critici di professione. Risultati felici, per lo più, confermati ultimamente dall’uscita, tra gli altri, di un denso profilo di Levi scritto da Enrico Mattioda (Roma 2012) e dall’attività del Centro Internazionale di Studi Primo Levi (www.primolevi.it), che promuove le Lezioni annuali pubblicate nella collana einaudiana in cui hanno visto la luce i volumi di Robert S. C. Gordon (“Sfacciata fortuna”. La Shoah e il caso, 2010), Massimo Bucciantini (Esperimento Auschwitz, 2011) e Stefano Bartezzaghi (Una telefonata con Primo Levi, 2012).
A far da tramite tra gli specialisti e gli altri lettori c’è ora l’edizione commentata da Alberto Cavaglion (Se questo è un uomo,Torino, Einaudi, pp. 261, euro 20,00; il volume amplia e aggiorna la versione uscita alcuni anni fa nei CD-Rom della Letteratura Italiana Einaudi), che non si è limitato allo spoglio della bibliografia leviana e alla trasmissione dei dati acquisiti, ma ha arricchito il suo lavoro con molte proposte e agnizioni di prima mano. È un commento ricco quello di Cavaglion (più di ottanta fittissime pagine, seguite da un’altra ventina, solo di indici, a cura di Daniela Muraca), in cui le note, più interpretative che esplicative, tendono a espandersi in piccoli saggi o in voci di un’«enciclopedia leviana». La sintesi e la selezione del dato intertestuale in base al grado di pertinenza e probabilità – l’etichetta del corretto commentatore – vengono a volte accantonate a vantaggio della digressione (penso alla lunga nota sul canto di Ulisse, quello che Primo si sforza di ricordare e tradurre per spiegarlo a Pikolo). Era un rischio, è un rischio, perché il commento può finire per emanciparsi dal testo e sopravanzarlo. Ma forse non c’era altro modo per attrarre il lettore nella rete di un interprete tanto colto quanto empatico nei confronti del libro e del suo autore. Né c’era altra via per assecondare l’idea-guida che ha ispirato la stesura del commento e che lo stesso Cavaglion spiega nella sua Presentazione: il «fascino di Se questo è un uomo ci appare oggi nella sua inattualità, ovvero nella possibilità che ci offre di riscoprire una passione letteraria inaspettata nella persona che lo scrisse». Questa «inattualità» è quella che allontana la fonte di luce puntata sul contemporaneo, lasciando che il raggio si allarghi anche alle zone rimaste finora in ombra. Nel caso di Levi, la minor concentrazione del fascio luminoso puntato sul messaggio permette di rischiarare meglio il mittente: cioè l’autore stesso, con la sua cultura, con la sua «passione letteraria inaspettata». Una passione di cui il commentatore riconosce i segni più ostinati nelle parole e nelle frasi di Levi, dove si depositano le reminiscenze di buone letture scolastiche. Non c’è solo Dante, infatti, nella memoria letteraria di Levi: ci sono anche Tucidide, Galileo (lo ha mostrato Bucciantini), Manzoni, Baudelaire. Il ruolo degli ultimi due quali possibili ‘fonti’ di Levi è una proposta originale di Cavaglion, che convince a patto di distinguere tra la citazione (tali sono gli echi di Dante o di Lorenzo de’ Medici in Se questo è un uomo) e la cultura pratica, che agisce sullo scrittore senza che da parte sua vi sia una specifica intenzione o coscienza (su questo versante, direi, si colloca soprattutto il Manzoni di Levi).
Nuova luce su Levi arriva anche dal volume già ricordato di Stefano Bartezzaghi, Una telefonata con Primo Levi / A phone conversation with Primo Levi, traduzione inglese di Jonathan Hunt, Torino, Einaudi, pp. 195, euro 16,00. Bartezzaghi ci restituisce un’immagine insolita dello scrittore, facendone affiorare un’altra passione, quella per i palindromi, per le scritture combinatorie di cui si trova traccia per esempio nei racconti. Passione condivisa con un altro dilettante geniale, Giampaolo Dossena, e con scrittori come Calvino e Queneau, che Bartezzaghi fa ‘reagire’ con Levi. Il palindromo leviano più celebre, tratto dal racconto Calore vorticoso, è addirittura bilingue: «In arts it is repose to life: è il filo teso per siti strani». Bartezzaghi tiene un capo di quel filo e lo tende, mostrando come per Levi la scrittura stessa sia un grande palindromo, capace di invertire il senso del tempo tra il presente e la storia. Attraverso quel filo, le voci del passato e dell’esperienza ci raggiungono; purché il messaggio sia chiaro, purché chi sta all’altro capo sia messo in grado di ascoltare. «Chi non viene capito da nessuno – si legge in Dello scrivere oscuro – non trasmette nulla». La scrittura è un telefono che deve funzionare e quello di Levi funziona eccome, anche grazie ai suoi interpreti e ai suoi commentatori.
[questo articolo è uscito anche su il manifesto]
[Immagine: Zbigniew Kosc, Auschwitz-Birkenau, sezione Kanada (gm) – http://members.chello.nl/
“I sommersi e i salvati”: tutto ciò che è umano mi è noto e il grande quesito che Primo Levi lancia è: voi come vi sareste comportati? Devo dire che è questo il pensiero che più mi perseguita della Germania passata da Weimar al nazismo; l’essere stata man mano avviluppata come in una sottile ragnatela dalla dittatura e di non aver fatto niente, immersa in una zona grigia di complicità, omertà e asservimento, convinti, i più, che i tedeschi non si sarebbero comportati così, che il fumo che proveniva da quel camino era certo strano ma vai a sapere, che una stella sul cappotto chissà alla fine che avranno fatto, e gli ebrei erano perseguitati dai cattolici, i polacchi per primi….vien da rabbrividire, la piccola gente del quartiere che non capisce mai un accidente!!!
Ricordo che, quando lessi per la prima volta Se questo è un uomo, non riuscivo a distogliere lo sguardo critico dalla scrittura, dallo stile, e mi sentivo un po’ in colpa, perché stavo sminuendo la sostanza storica, o almeno così credevo.
(In arts it is repose to life: è [il] filo teso per siti strani)