[In questi giorni è uscito Il vero e il convenzionale. Rappresentazioni della realtà nel romanzo contemporaneo (UTET 2012) di Carlo Tirinanzi de Medici, un saggio dedicato ai modi del realismo nel romanzo del secondo Novecento e degli anni Zero. Attraverso una serie di capitoli dedicati ad alcuni dei romanzi più importanti usciti negli ultimi decenni (Pastorale Americana di Philip Roth, Il mal di Montano di Vila-Matas, Troppi paradisi di Walter Siti, Underworld di DeLillo, Le particelle elementari di Houellebecq, Le benevole di Jonathan Littell), Tirinanzi distingue due dispositivi di rappresentazione della realtà: la strategia del «convenzionale», che riusa i modi del realismo letterario così com’è stato sviluppato dalle formule narrative della grande tradizione ottocentesca e modernista, e la strategia del «vero», che rompe (o finge di rompere) lo schermo letterario per trasportare pezzi di realtà nel testo letterario, usando i dispositivi della testimonianza, dell’autobiografia, dell’autofinzione, del reportage. Presentiamo un brano dell’Introduzione al saggio].
Il reality e la verità
Entriamo in una libreria. Anche scavalcando le pile di saggi, di instant-book e di opere divulgative, anche se ci concentriamo soltanto sulla narrativa mainstream, bandelle e quarte di copertina spesso attirano l’attenzione ponendo l’accento su come questo o quel romanzo raccontano «la vera vita» o «la vera storia» di qualcuno o qualcosa. Si aggiunga una seconda osservazione, più personale ma credo utile a definire il quadro in cui ci stiamo muovendo. Da alcuni anni, quando incontro dei conoscenti, persone che amano la lettura (ce ne sono ancora) ma non si occupano di letteratura per vivere, porto avanti un mio piccolo sondaggio. Intavolando una discussione su Roberto Saviano, non dimentico mai di chiedere loro se gli è piaciuto Gomorra, al di là del suo dirompente valore contenutistico e di denuncia, guardandolo soltanto come romanzo. Sono consapevole che questa piccola prova empirica non ha valore statistico, ma nondimeno essa dà risultati sorprendentemente omogenei: nessuno, e dico nessuno, degli intervistati ritiene che Gomorra possa essere considerato un romanzo, anche se (molti studiosi concordano) il suo impianto, certe caratteristiche del protagonista (l’ubiquità di cui gode Roberto, la sua capacità di penetrare ovunque) e della trama (gli eventi accadono sempre al momento giusto), sono aspetti tipicamente romanzeschi. Il clamoroso successo di un’opera narrativa come questa, è dovuto al fatto che esso viene venduto (e letto) come relazione veritiera su dei fatti oggettivi. Reportage, non romanzo.
La faccenda non è peregrina, e non la si può liquidare come un improvviso e generalizzato collasso del senso critico dei lettori, né (tantomeno) questo scritto vuole negare un valore di verità, e in particolare un qualche valore referenziale, alla narrativa d’invenzione. Si deve però sottolineare che c’è un accresciuto interesse verso questi aspetti del testo. Una letteratura che si appassiona alla verità, un pubblico che consuma sempre più opere di faction o, più in generale, di non fiction,[1] segnalano un conflitto esasperato del mondo occidentale contemporaneo, ovvero quello tra de-realizzazione delle rappresentazioni e insistita materialità della nostra esistenza. La nostra epoca ha visto in diretta il crollo delle torri gemelle l’11 settembre 2001, mentre i nostri nonni non hanno visto l’attacco a Pearl Harbor. Questo fatto porta con sé due considerazioni: 1) tra le reazioni più diffuse, almeno in Occidente, c’è stata quella di trovarsi di fronte a un film trasportato nella realtà, uno dei tanti disaster movie hollywoodiani; 2) le immagini degli attentati erano intercalate dai commenti dei giornalisti e dalla pubblicità, dando origine ad un flusso indistinguibile di realtà e finzione, oggettività, interpretazione e costruzione narrativa. Tale flusso è diventato la norma nello spazio dei reality show che monopolizzano il prime time (ma tale monopolio va assottigliandosi e all’Isola dei famosi preferiamo X factor che miscela reality e talent show: non basta più stare davanti alla telecamera, ma si deve anche fare qualcosa, così che anche il reality diventi a modo suo transitivo). Qui i filtri e le autocensure che normalmente accompagnano qualsiasi intervento pubblico sono programmaticamente assenti; e però i protagonisti vengono giudicati, le loro azioni sono commentate e notomizzate; alla base di una o più puntate c’è sempre, inevitabilmente, almeno una trama, ricalcata su modelli da soap (un amore che nasce, uno che muore, un tradimento, un litigio: l’importante è che succedano sempre delle cose). Quindi il flusso della «vita vera» che si rappresenta è attraversato da parole altrui, da concetti e linee di forza, da una carica narrativa, estranei a quella forma di rappresentazione visiva del reale che conoscevamo sotto il nome di «presa diretta». Però allo stesso tempo, come sottolineato icasticamente da Romano Luperini, ci è difficile pensare che nulla è reale o che tutto è linguaggio quando ogni volta che si sale su un aeroplano viene da chiedersi se si atterrerà su una pista d’aeroporto o al trentesimo piano di un grattacielo.[2]
È questo il conflitto, il «campo di tensioni»,[3] che nello spazio letterario contemporaneo si cristallizza in opere dichiaratamente di confine, a cavallo tra verità e menzogna, costruite su uno scarto dalla norma romanzesca che si andata imponendosi negli ultimi secoli: la consapevolezza che quanto stiamo leggendo è soltanto un’opera di finzione.
Il vero, il falso, la storia
Una letteratura che insiste sul suo valore di verità, mimando le strategie dei reality e offrendo al lettore un codice apparentemente “trasparente” per poi far collassare tale valore e ribaltarlo nella finzione: questo, in estrema sintesi, il processo cui risponde il realismo “veridico”.[4] In conclusione al primo corso sulla preparazione del romanzo, Barthes scrive:
Il Romanzo, in effetti, nel suo grande e lungo fluire, non può sostenere la verità (del momento): non è la sua funzione. Me lo immagino come un tessuto (=Testo), una vasta e lunga tela dipinta di illusioni, di cose inventate, di ‘falsi’ se vogliamo: una tela brillante, colorata, velo di Maya, punteggiata, quasi priva di Momenti di verità che ne sono la giustificazione assoluta [… ]. → Quando produco delle Annotazioni, esse sono tutte “vere”: io non mento mai (io non invento mai), ma per la precisione, non accedo al Romanzo; il romanzo prenderebbe avvio non dal falso, ma dalla mescolanza senza prevenzioni del vero e del falso: il vero evidente, assoluto, e il falso colorato […] il romanzo sarebbe poikilos, variopinto, vario, chiazzato […] il poilikos del romanzo = l’eterogeneo, l’eterologico di Vero e di Falso. Forse, quindi: arrivare a fare un romanzo è in fondo accettare di mentire, arrivare a mentire (e mentire può essere molto difficile) è mentire con una menzogna nuova, e perversa che consiste nel mescolare il vero e il falso → In definitiva, allora, la resistenza al romanzo, l’impotenza al romanzo (alla sua pratica) sarebbe una resistenza morale.[5]
Vero e falso: ciò che Barthes descrive utilizzando tali termini è un salto verso una dimensione nuova per la narrativa di finzione che, già etimologicamente, rimanderebbe invece al finto. Per sfumare un po’ l’affermazione si può dire che mentre per secoli il problema si poneva mettendo in primo piano il polo del finto (la discussione aristotelica sul verosimile) e nella prima modernità i poli rimanevano tre (vero, finto, falso), oggi sono in evidenza i due poli “vero” e “falso” ed è il finto a scivolare in secondo piano. Il luogo in cui si è discusso a lungo, negli ultimi decenni, su verità e falsità del romanzo è il pensiero intorno a storia e letteratura. È una delle dorsali che attraversano il presente saggio e tornerà alla luce durante l’analisi di molti romanzi, da Pastorale americana a Underworld a Le benevole, anche se spesso in maniera tangenziale. Per ora identifichiamo due figure chiave nello sviluppo di queste idee: Hayden White e Linda Hutcheon. Entrambi hanno contribuito all’elisione dei confini tra storiografia e letteratura cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni circa, fenomeno che va considerato parte di una più ampia svolta scettica che di recente è stata messa in discussione da più parti.[6] Il discorso storico è per White «uno speciale uso del linguaggio che, come il discorso metaforico, il linguaggio simbolico o la rappresentazione allegorica, significa sempre di più di quanto dice, dice qualcosa d’altro rispetto a quanto sembra che dica e rivela qualcosa del mondo soltanto a costo di nascondere qualcos’altro».[7] La parte problematica è, come si può intuire, l’ultima: se per «dire qualcosa» devo «nascondere qualcos’altro», se in altre parole non solo gli schemi mentali mediano la mia conoscenza del mondo a determinare quanto posso dire, ma questo è sempre fonte di un’operazione mistificatoria, allora la storiografia ha un problema serio. Dal punto di vista letterario piuttosto che storico, Linda Hutcheon giunge a identificare una modalità di scrittura, la «metafiction storiografica», che mira a «demarginalizzare il letterario confrontandolo con lo storico, e lo fa sia tematicamente che formalmente».[8] La studiosa tende a salvaguardare alcune distinzioni di base, come la distinzione ontologica tra la rappresentazione del passato fatta dalla storiografia e quella letteraria,[9] ma, indipendentemente dai sottili distinguo che si possono fare, i margini di storiografia e letteratura sono ormai irrimediabilmente sovrapposti:
Nel passaggio dalla ricerca d’archivio alla composizione di un discorso alla sua traduzione in forma scritta, gli storici devono impiegare le stesse strategie di figurazione linguistica utilizzate dagli scrittori di fiction [«imaginative writers»] per rafforzare i loro discorsi con quei significati latenti, secondari o connotativi, cosicché i loro lavori non vengano recepiti solo in quanto messaggi ma anche come strutture simboliche.[10]
Nella ricezione critica abbiamo assistito al ribaltamento della simmetria: se la storiografia non è che letteratura, allora la letteratura può divenire storiografia. Alla storiografia ufficiale, maggioritaria e fintamente neutra, si oppone allora la «letteratura minore»,[11] il gioco consapevole intorno a un passato che è scomparso per sempre: maggiormente onesta quanto più infedele.
A dispetto della notoria vulgata secondo cui la teoria e la critica sono ormai attività residuali, segregate nelle torri d’avorio accademiche e incapaci d’intervenire con forza sul nostro immaginario, le teorizzazioni sopra riassunte vi oppongono un esempio formidabile: è ormai pratica comune e finanche banale produrre e consumare narrativa d’invenzione con il più o meno dichiarato intento di render direttamente conto di situazioni e conflitti reali, fino all’assurdo di considerare dei romanzi alla stregua di libri di storia oppure, per estensione, di sociologia o anche di grandi «guide turistiche» per angoli poco conosciuti del mondo, accodandosi senza rendersene conto allo sfruttamento ultimo delle risorse naturali di tali angoli — la loro cultura, segmentata, impacchettata e venduta sotto forme plastiche agli occidentali annoiati. Insomma, le idee sono uscite dalle accademie e sono state recepite dall’industria culturale e dal pubblico non specialista, che ne hanno fatto degli ideologemi estremamente produttivi. Se qualcuno avesse dei dubbi, pensi a come vengono commercializzati, recepiti e spesso anche prodotti molti romanzi al di fuori della cerchia occidentale: Amitav Ghosh, romanziere indiano di successo, scrive un libro ambientato all’inizio del XIX. Ecco cos’è degno di nota secondo un recensore:
Ghosh crea un’enciclopedia del cibo, degli inservienti, degli arredi, delle religioni, dei comandi nautici, di costumi e biancheria maschili e femminili, dei commerci, dei rituali funebri e dei matrimoni, di botanica e orticoltura, della coltivazione dell’oppio, delle bevande alcoliche, dei commessi e degli ufficiali in congedo […] nell’India della prima metà del XIX secolo.[12]
Sbaglierebbe però chi pensasse che si tratti soltanto dell’ennesima strategia di un’occidente pronto allo sfruttamento dell’«Altro», come dimostra l’insorgere di fenomeni equivalenti a casa nostra:[13] che cos’é il New Italian Epic teorizzato da Roberto Bui e altri membri del collettivo Wu Ming, se non la volontà di donare un valore aggiunto alla narrativa riconoscendole la capacità di comprendere il nostro (immediato) passato attraverso un discorso che differisce dalla storiografia e dalla pamphlettistica solo per un maggior grado di leggibilità, dovuto all’uso di dispositivi narrativi preclusi alle scritture propriamente d’informazione? O, ancora: cosa possiamo dire dell’ascesa del documentario, del reportage in forma-libro e dei nonfiction novel sempre più spesso considerati strumenti privilegiati per relazionare sul reale anche da scrittori affermati?[14] Utilizzando una serie di dispositivi (insistenza sul dato empirico che prende forma di evidenza scientifico-giudiziaria, paratassi, inserimento di lacerti d’informazione come interviste, documenti, ecc.)[15] e facendo leva sulla presunta immediatezza delle opere in questione, dovuta a una denegazione della finzionalità in sede testuale e paratestuale (indicazioni generiche, quarte di copertina, prières d’insérer), si teorizza (implicitamente o meno, non importa) una superiorità della narrativa «non d’invenzione» rispetto alla classica fiction, e se la fiction vuole rimanere in sella deve cominciare a trottare al passo dei suoi contestatori e produrre opere in grado di instaurare una relazione diretta con la realtà.
L’insorgere di questi atteggiamenti, di una generale attenzione per il dato extra-testuale e per la sua rappresentazione testuale, ha prodotto il dibattito sul «ritorno alla realtà».[16] In particolare il saggio di Donnarumma[17] ha il merito di prendere in considerazione il fenomeno da un punto di vista globale, dal romanzo al saggio passando per tutte le tappe intermedie che la letteratura italiana ha toccato negli ultimi anni. È una prospettiva necessaria, ma ben diversa a quella che si è scelta di seguire in questa sede, che cerca d’indagare come la forma romanzesca è stata usata per far fronte ai compiti cui oggi le si chiede di assolvere. E, in particolare, forte di un apprendistato svolto nell’«era del sospetto»,[18] il romanzo “veridico” riesce a minare, espandendola oltre i limiti posti al più sfrenato e letterario reportage, la credibilità del «principio di reality», per così dire.
«Tout est de convention»
Nella Vie d’Henri Brulard un giovane Stendhal non capisce come sia possibile che, dato il quinto teorema di Euclide (secondo il quale due rette parallele non s’incontrano in nessun punto), il matematico Louis Monge possa affermare che due parallele, se prolungate all’infinito, vanno considerate come se s’incontrassero. La spiegazione confusa del suo maestro lo lascia ancor più perplesso. «Fui lì lì per piantare tutto in asso», commenta. Poi aggiunge:
un confessore, abile e buon gesuita, avrebbe potuto convertirmi commentando così questa massima [la risposta del maestro]:
– Vedete che tutto è errore, o piuttosto che non c’è niente di falso, niente di vero, tutto è convenzione. Adottate la convenzione che vi renderà più accetto nel mondo […][19]
Il consiglio dell’ipotetico gesuita, rifiutata bruscamente dal narratore, sembra anticipare almeno in parte le posizioni scettiche che hanno caratterizzato buona parte del pensiero letterario novecentesco. «Tout est de convention» è una conseguenza del fatto che «tutto è errore». Di conseguenza tanto vale adottare la convenzione più vantaggiosa. Questa la risposta scettica al problema. Ma ce n’è una seconda, quella assunta da Don DeLillo con Underworld e, in maniera ancor più netta, da Michel Houellebecq e da Jonathan Littell. Essa passa per il recupero della corrente che Henri Godard chiamerebbe «mimetica», fondata sui dispositivi messi a punto nel XIX secolo, che i romanzieri del XX, come il critico francese ha brillantemente esposto in un suo saggio recente, hanno tentato in tutti i modi di demolire.[20] Anche una volta ammesso che, perlomeno in arte, tutto è convenzione, bisogna tener presente l’ovvio, cioè che la convenzionalità è alla base di ogni forma di linguaggio e dunque di comunicazione. Partendo da questo presupposto molti scrittori ripiegano sul già-detto, sul già-fatto: molti tra di loro si limitano all’imitazione acritica e manierista di un modello, producendo «attualità» anziché «opere» (secondo la terminologia di Milan Kundera: oggetti di rapido consumo, pensati per l’oggi), alcuni, però, tenendo presente la storicità della convenzione letteraria e romanzesca, vi si appoggiano costruendo su tale convenzione il proprio edificio romanzesco. Che può essere, da un punto di vista formale, innovativo e spiazzante (Underworld) o fondato su modelli tanto comuni da risultare invisibile a una prima occhiata (Le benevole), ma sempre incentrato sulle possibilità in termini di rappresentazione della realtà che tecniche narrative percepite come familiari dai lettori possono offrire. Queste, per sommi capi, le due proposte della letteratura contemporanea che il saggio vuole rappresentare, il loro intrecciarsi, lo sfondo dal quale emergono.
[1] Un caso paradigmatico può essere Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove, Einaudi, Torino 2006, che racconta la vita di lavoratori precari attraverso interviste e commenti.
[2] Cfr. R. Luperini, La fine del postmoderno, cit., p. 20: «quando rischi ogni giorno salendo su un treno della metropolitana, ti è difficile pensare che l’unica realtà è il linguaggio».
[3] Cfr. M. Corti, Tre «campi di tensioni»: Neorealismo, Neoavanguardia, Neosperimentalismo, in Id., Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Einaudi, Torino 1978, pp. 19-168, spec. pp. 19-24
[4] A fianco di queste opere ne esistono altre, di cui si parlerà solo incidentalmente, che si limitano a utilizzare acriticamente le strategie “veridiche”. Ma, per i motivi esposti nella Premessa, si è deciso di non parlarne in questa sede.
[5] R. Barthes, La preparazione del romanzo, vol. I, cit., pp. 192-193
[6] Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce, Laterza, Roma-Bari 2009 e Id., Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, per una critica dal punto di vista filosofico; nella pratica storiografica e letteraria si rimanda agli interventi raccolti in C. Ginzburg, Il filo e le tracce, Feltrinelli, Milano 2006 e M. Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi, Bollati Boringhieri, Torino 2003, di cui ho parlato nei primi paragrafi del presente volume.
[7] H. White, Figural Realism, The Johns Hopkins University Press, Baltimore MD 1999, p. 7
[8] L. Hutcheon, A Poetics of Postmodernism, Routeledge, London 1988, p. 108
[9] L. Hutcheon, A Poetics of Postmodernism, Routeledge, London 1988, p. 108: «La linea ontologica tra passato storico e letteratura non è cancellata, ma sottolineata. Il passato è esistito, ma possiamo “conoscere” quel passato solo tramite i suoi testi, ed ecco dove giace il legame tra storico e letterario».
[10] White, Figural Realism, cit., p. 8
[11] I già citati Deleuze e Guattari, con il loro Kafka, sono ovviamente tra i precursori di tali riflessioni.
[12] James Buchan, recensione a A. Ghosh, Sea of Poppies, «The Guardian», 7 giugno 2008
[13] Decisamente inquietante, poi, l’insorgere di problematiche simili a casa dell’Altro: Anita Heiss pubblica un libro, Dhuuluu-Yala – To Talk Straigh (Aboriginal Studies Press, Canberra 2003) con l’obiettivo di produrre una letteratura aborigena che sia chiaramente recepita come tale dall’esterno, capace di illustrare i caratteri culturali in forma più possibile “pura”, non vincolati da lasciti “bianchi” («white»), e si spinge fino a consigliare agli editor, rigorosamente aborigeni, di testi aborigeni la scelta di copertine facilmente identificabili dall’acquirente come «aborigene», il che genera l’impressione di una presa in giro situazionista e il rischio (serio) di ridurre le caratteristiche locoregionali a puro manierismo.
[14] Cfr. A. Nove, Mi chiamo Roberta, cit. Un precursore è stato indubbiamente Norman Mailer.
[15] Su questo mi permetto di rimandare al mio Prova, evidenza, verità, in «Nuova prosa» 53-54 (2010), pp. 165-227
[16] Nato sul n. 57 di «Allegoria» con l’inchiesta Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, il dibattito si è poi esteso al blog letterario «Nazione indiana». Per ulteriori dettagli cfr. pp. 5-13 del libro da cui sono estratte queste pagine.
[17] R. Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne, «Allegoria» n. 57 (2009), pp. 26-54
[18] Cfr. N. Sarraute, L’ère du soupçon, Gallimard, Paris 1956, passim.
[19] Stendhal, Vie d’Henri Brulard, in Œuvres intimes, vol. II, pp. 858-859
[20] H. Godard, Le roman modes d’emploi, Gallimard, Paris 2006, pp. 11 ss. Cfr. J. Brenkman, Sull’innovazione. Romanzo, modernità, nichilismo, in F. Moretti (acd), Il romanzo. 3. Storia e geografia, Einaudi, Torino 2002, pp. 644-673 passim.
[Immagine: Jenny Holzer, Dein modernes Gesicht registriert das überraschende Ende (gm)].
“Quando il sole della cultura è basso, i nani sembrano giganti”, Karl Kraus.
Falcone, questa l’ha già detta diverse volte. Cambi citazione, sennò diventa stucchevole.
@ Sergio Falcone
“Les esprits médiocres condamnent d’ordinaire tout ce qui passe leur portée” (La Rochefoucauld, Maximes, 375)
mi sembra che in questo libro tirinanzi abbia intenzione, fra le altre cose, di sviluppare la nozione di “effetto di vero” che era centrale nell’intervento “Veridicità ed effetto di vero: l’universalismo della prosa in Walter Siti”: che insomma si precisi meglio quel concetto per cui (in Troppi paradisi, nel caso dell’intervento) all’illusione referenziale del racconto si accompagna una precisione nominativa che evidenzia una “progressiva sfiducia, un modo fondato sulla interpretazione del testo a posteriori da parte del lettore” (cito dal saggio che ho detto). questo “effetto di vero” mi sembra uno dei tasselli del codice condiviso che Troppi paradisi (ma anche Le particelle elementari, con un codice un po’ differente) istituisce con un lettore inteso come attento e disponibile alla confidenza verso colui che narra: in altre parole, “un concetto relazionale, un processo denotativo che conferisce al sintagma una funzione connotativa” (ivi). concetto relazionale che mi sembra alla base di molte sperimentazioni narrative di questi ultimi anni, quando, mi è parso, ha acquisito sempre più importanza rispetto alla trama, o allo stile, la relazione comunicativa, il “patto” (lejeune docet) che un narratore sempre più consapevole della propria ininfluenza e marginalità cerca di stringere con sempre più forza per illudersi di farsi sentire da un qualche pubblico.
è una questione grossa, per cui credo leggerò il libro quanto prima.
l’intervento “Veridicità ed effetto di vero” si trova nel volume di interventi “Finzione cronaca realtà- Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea”, a cura di Hanna Serkowska, Transeuropa, 2011.
ciò detto, “Il mal di Montano” non l’avevo mai sentito dire prima d’ora O_o
Il Tirinanzi è giovane ricercatore dall’intelligenza acuta e dalla preparazione solidissima, attributi di scarsa diffusione tra le vittime dell’attuale sistema di macellazione universitaria. “Il vero e il convenzionale” è il risultato di un percorso d’eccellenza che pone in campo domande tanto ambiziose quanto necessarie nello smarrimento generale che investe tutti gli ambiti della cultura (lato sensu) nostrana e non. L’idea di fermare per un attimo la giostra e tirare le somme non deve intendersi come volontà definitoria di questioni tuttavia aperte (fine del post-moderno? new-realism?poesia in tempi di miseria?) ma piuttosto come il tentativo di costruire appigli affidabili su cui innestare un discorso critico che non si perda nei meandri (pur sempre apprezzati) della speculazione teoretica fine a se stessa.
@ Lorenzo Marchese,
in effetti sì, nel libro approfondisco e chiarisco meglio quello che, all’altezza del convegno di Varsavia (novembre 2009) era più uno spunto che altro.
La “progressiva sfiducia IN [..] un modo fondato sulla interpretazione del testo a posteriori da parte del lettore” accomuna entrambe le strategie che il saggio illustra, ma per Houellebecq il «codice condiviso» è quello della tradizione (con modifiche e correzioni, com’è ovvio).
Quanto accenna relativamente al “patto” è di estremo interesse per il mio discorso. Anche se credo che il concetto di Lejeune andrebbe ampliato: alcuni patti sono impliciti, e a volte ci sono più patti contrastanti in un unico libro, come spesso accade in testi postmodernisti (è brutto autocitarsi, ma ne parlo diffusamente nel libro). Il mal di Montano (pubblicato in Italia da Feltrinelli: è sempre bello fare il passeur :) ), che effettivamente per la sua carica metanarrativa è forse una scelta eccentrica rispetto agli altri romanzi, da questo punto di vista è un testo esemplare: ogni parte del libro è governata da un patto differente, ciò che determina anche il genere-modello utilizzato (diario intimo, realismo, fantastico, ecc.).
E, infine, sono d’accordo con lei: mi sembra che oggi un nodo centrale della riflessione narrativa sia proprio il tentativo di evadere da una posizione marginale, di recuperare qualche tipo di mandato.
@ prof. Marcon
Troppa grazia…
@Carlo Tirinanzi de Medici
dott. Tirinanzi, all’interno de “Il vero e il convenzionale” viene dedicato dello spazio alla relazione tra forme di rappresentazione del reale e forme narrative “non realistiche” oppure è un campo d’indagine di cui non si è occupato? La ringrazio.
@Stefano Pradel
vi sono alcune pagine dedicate alla fantascienza, al fantastico e alla tradizione sudamericana del realismo magico. Ma di certo il centro del libro è altrove.
Quanto accenna relativamente al “patto” è di estremo interesse per il mio discorso. Anche se credo che il concetto di Lejeune andrebbe ampliato: alcuni patti sono impliciti, e a volte ci sono più patti contrastanti in un unico libro, come spesso accade in testi postmodernisti (è brutto autocitarsi, ma ne parlo diffusamente nel libro).
la ringrazio molto della sua risposta e mi concentro su questo punto, che mi dà molto da pensare. quello che lei propone dunque è uno scardinamento del concetto di “patto” in lejeune, non più unico e applicato a tutto il libro ma sparso in più patti contrastanti fra loro. sull'”implicito” non so decidermi: lo stesso “patto autobiografico” è il più delle volte implicito, cioè non è dichiarato a chiare lettere ma va desunto da prove testuali, almeno mi pare. siti non stipula un patto autobiografico esplicito in “troppi paradisi”, per fare un esempio, ma lo affida agli “effetti di vero”.
comunque, la successione (e la contraddizione interna) di più patti mi pare interessante per due ragioni: la prima è che lei applica un patto per ogni genere-modello. pensa che ciò esiga come lettore ideale una persona colta, già in possesso di competenze letterarie solide? e la seconda, direttamente conseguente dalla prima, concerne il “postmoderno”: da quello che lei dice, mi pare di capire che non creda, per questi testi, a un “superamento del postmoderno”, a un passaggio a una scrittura, per dire, lontana dalla continua rielaborazione di testi pregressi, dal gioco combinatorio, dalla citazione e contaminazione testuale come strategia cognitiva. cioè, questi testi sarebbero ancora tutti dentro il clima postmoderno.
scusi per le tante domande, ma mi interessa molto l’argomento =)
Il libro sembra molto interessante ma mi chiedo, e chiedo all’autore, se sei romanzi, per quanto grandi e importanti, non siano ancora pochi per tracciare i contorni d’un panorama tanto vasto.
Mi vengono in mente, così alla rinfusa, titoli e nomi fondamentali: per esempio La torre di Uwe Tellkamp, per esempio I detective selvaggi e 2666 di Bolano, per esempio Infinite Jest di Wallace o Chronic City di Lethem, per esempio I canti del caos di Moresco; eccetera eccetera.
Cioè il mio timore è che queste trattazioni del romanzo contemporaneo risultino sempre parziali – il che, lo so bene, finché si resta nell’ambito delle capacità umane è inevitabile; mentre la mia speranza è che, in un momento tanto complesso della storia del romanzo, qualcuno sappia discernere con estrema chiarezza le linee/guida – se ci sono, come io credo, se in filigrana appaiono e brillano e chiamano, se da qualche parte conducono.
In ogni caso ripeto che lo studio di Carlo Tirinanzi de Medici mi attira, e lo leggerò con l’attenzione che merita.
@ Enrico Macioci,
capisco quello che vuole dire e in parte sono d’accordo con lei. Ma più che di panorami (in cui si fa entrare tutto, spesso senza il senso della prospettiva) credo sarebbe necessario identificare le linee di forza che oggi dominano lo spazio letterario. È un lavoro importante e interessante, ma che ho volutamente escluso quando ho cominciato la mia ricerca all’inizio del dottorato. Le opere che lei cita, senza dubbio tra le più importanti uscite negli ultimi anni, fanno parte di linee per così dire estravaganti, o meglio sono romanzi in bilico sul confine della forma-romanzo (2666, romanzo di romanzi e I canti del caos) o programmaticamente costruiti su tecniche narrative disgreganti e su molteplici piani (Infinite Jest, indubbiamente, ma così anche La torre e Chronic City, opere nelle quali l’intertestualità ha un ruolo importante). Opzioni legittime e importanti, ripeto, ma seguirle avrebbe significato adottare un’altra prospettiva (il libro si compone di capitoli diciamo così monografici, ognuno dedicato a un romanzo, così che la teoria si sviluppi dal testo: ovviamente è una formula che non si può espandere all’infinito) e, in definitiva, scrivere un altro libro. Cosa che, comunque, vorrei fare…
@ Marchese
La questione che pone è interessante e richiede una risposta articolata. Ora purtroppo non ho il tempo di fornirgliela (devo prendere un treno), ma provvederò al più presto.
@ Lorenzo Marchese
«quello che lei propone dunque è uno scardinamento del concetto di “patto” in lejeune, non più unico e applicato a tutto il libro ma sparso in più patti contrastanti fra loro»
Dipende dal libro, direi. Se dovessi fare un discorso generale, che prescinda dai singoli testi, direi che il patto è quello che determina la postura del lettore — il modo in cui questo si avvicina al libro.
Per quanto riguarda i patti impliciti ed espliciti: io sono del parere (seguendo Genette) che, quando non è esplicitato (magari con un’indicazione generica in sede paratestuale), esso dipende essenzialmente dalla scrittura stessa. Insomma, il patto è «implicito» così come c’è un autore implicito.
Il punto con Troppi paradisi, e con l’autofiction in generale (almeno con quella non di stretta osservanza doubrovskiana), è che il patto non è autobiografico. E qui le rispondo: no, a mio avviso non sono necessarie particolari competenze letterarie. Anzi, il gioco di Siti (e di Vila-Matas, e di Erofeev, e dell’Ellis di Lunar Park…) funziona meglio con chi queste competenze non le ha, perché l’effetto di distorsione («è vero o è falso ciò che sto leggendo?») è molto più potente.
Sul postmoderno: no, io credo che ci sia stato sì questo superamento, e proprio ad opera di autori che venivano considerati come postmodernisti. Underworld, Troppi paradisi, Il mal di Montano, Pastorale americana, sono scritti da autori che avevano pubblicato veri e propri manifesti del postmodernismo (Rumore bianco, Bartleby e compagnia, La controvita).
E grazie per le tante domande: l’argomento interessa anche a me!
@ tirinanzi de medici
Capisco le sue motivazioni.
Quanto a me, ho idea che saranno proprio le forme extravaganti a determinare le future linee romanzesche; soprattutto 2666 di Bolano apre il millennio (esce nel 2003) e spalanca nuovi orizzonti; un’opera formidabile che io trovo per molti versi opposta ad Underworld il quale invece (1997) chiude – incomparabilmente e definitivamente – un’epoca. Ma sono impressioni che esigerebbero molto più tempo e spazio.
@ Macioci
interessante ciò che dice. Lei pensa che 2666 sia una novità anche rispetto ai Detective selvaggi? (non è una domanda retorica)
Credo che da un punto di vista formale, comunque, sia Underworld che 2666 siano romanzi lontani dal “centro” romanzesco. E che entrambi possano agire su questo centro, ma occuparlo a loro volta? Su questo ho dei dubbi. Ma, come dice lei, ci vorrebbe più tempo e spazio…
Provo – il più brevemente possibile – a spiegarmi.
I detective selvaggi (1998) possiede una struttura a vortice, cioè ruota attorno a persone o eventi senza puntare verso un traguardo reale o credibile, e si rifà (tra gli altri, ma con originalità) a Il gioco del mondo di Cortazar; la medesima struttura a vortice mi sembra che contraddistingua (pur con le specificità di ciascuno) tanti “mostri” moderni: L’arcobaleno della gravità ruota attorno a un missile, Infinite Jest attorno a un film, Underworld attorno a una pallina da baseball, eccetera. Poi tali rotazioni tendono a disperdersi per vie traverse e innumerevoli, ma l’impronta resta quella.
2666 rompe uno schema del genere. Possiede due polarità – lo scrittore scomparso Benno Von Arcimboldi e la città del femminicidio Santa Teresa – ma entrambe alla fine esplodono, sia mescolandosi fra loro (con un’ambiguità che trovo a dir poco geniale) sia soprattutto perché il libro, addentrandosi sempre più nel territorio del Male, assume toni e sfumature quasi mistici, biblici. Il problema di 2666 mi sembra essenzialmente religioso (benché Bolano fosse ateo), mentre in tutti quest’altri libri l’elemento metafisico manca o è fioco. Ecco a mio avviso la novità di 2666: una materia talmente incandescente da distruggere persino una struttura apertissima e pluriarticolata. In tal senso 2666 è più un fallimento estetico che una riuscita (come pure Infinite Jest); ma è un fallimento luminoso, è il Moby Dick dei nostri tempi.
Underworld lo leggo invece come il massimo esempio di romanzo contemporaneo “secolare”; poggia su una struttura innovativa e ardita ma non esplode, e non esplode proprio perché la metafisica non entra in gioco. Quando dico che Underworld chiude con una tradizione mi riferisco allo stile, al livello estetico: così alto da ergersi – parlando in un certo modo (in un modo “secolare”) della nostra epoca – a modello insuperabile. Underworld sembra fatto di plastica, una plastica pregiatissima e perfetta e senza la minima increspatura, dalla superficie liscia e incantevole, ma non arde. 2666 è meno perfetto ma arde molto di più. Forse perciò il nichilismo di 2666 fa più male di quello di Underworld; non è solo un nichilismo cerebrale bensì di tutto il corpo.
ps: altri libri citati in questo dibattito – penso a Le Benevole o a La torre – pur essendo importanti, non mi sembrano altrettanto decisivi; riposano più sul passato, osano meno. Ma è chiaro che rischio parecchio tentando di giudicare opere tanto complesse a così poca distanza dalla loro uscita.
pps: Invece un autore davvero poderoso che avevo dimenticato è William Vollmann.
A me invece sembra che sia I detective che 2666 siano costruiti come vortici, per usare la sua bella espressione. Sono strutture complesse, tenute insieme da forze che un fisico definirebbe deboli. E ciò è un tratto comune a molti libri che ha citato, Underworld in primis. La differenza è che questi vortici, queste architetture convolute, in Underworld sottendono la Storia. Mentre in Bolaño esse si ergono sopra e intorno a un centro vuoto, se mi si capisce. Sembrano sì puntare a qualcosa, ma questo qualcosa è assente, e le due polarità che lei giustamente sottolinea (Santa Teresa e von Arcimboldi) è come se si frantumassero nell’attesa di un senso. Insomma, d’accordo sul nichilismo, ma dal punto di vista strutturale non vedo (enormi) differenze tra i due libri, né tra i due libri e quelli degli altri autori. Le peculiarità non vanno cercate lì a mio avviso: nel vuoto centrale, sì (è un vuoto decisamente «metafisico»), e poi nello stile (l’anafora come unità di base della narrativa: Bolaño nasce come poeta, e si sente eccome quando scrive romanzi), ecc…
Di Vollmann pensava a Europe Central, per caso?
Gentile dott. Tirinanzi,
il suo lavoro è apprezzabile per molti punti di vista (un’ampiezza di indagine cui fa il paio un acume analitico in chiave schiettamente comparatistica, una lucida presa di posizione all’interno di un acceso e recente dibattito critico – fine del postmoderno, new realism, etc… –) per cui mi complimento con Lei e mi accodo alle parole giustamente elogiative del collega Marcon.
Leggendo il suo testo, non si evince però se per Lei sia sottesa una idea di canone. O meglio, mi chiedo che i libri che lei ha scelto sono esemplificativi per un loro valore intrinseco, o si tratta per così dire di spie di “dove va il romanzo contemporaneo” (a quando un convegno su questo argomento?).
Da quanto puntualizzato nei commenti, mi pare di intuire che secondo Lei esiste una certa idea di romanzo, che costituirebbe il centro di questa forma, mentre altri lavori, che definisce estravaganti (o periferici, se vogliamo mantenere la metafora spaziale), restino ai margini (anche della sua indagine?) proprio perché lontani da questo centro. Si tratta di opere in cui il romanzo mostra spesso i suoi meccanismi di azione (2666 e il ‘romanzo di romanzi’) o che tenta di minarne le fondamenta con una struttura apertamente contraddittoria e trasparente, ma impossibilitate, se ho ben capito, a occupare il centro o apportarvi modificazioni sostanziali.
In questo mi pare che si avvicini alla visione che ha dato nel suo recente e già fondamentale ‘Teoria del romanzo’ anche Guido Mazzoni, che ha individuato appunto un centro della forma-romanzo su cui ha focalizzato la sua attenzione, a prezzo anche di eccellenti esclusioni (ancora Bolaño, ma anche Kafka), scelte certamente non valoriali, ma che non possono non avere un certo rilievo.
Ma su questo vorrei sentire il suo parere. E di nuovo complimenti!
@ tirinanzi de medici
Capisco ciò che lei dice, tuttavia continuo a pensare che 2666 rappresenti una rottura, qualcosa di nuovo e che taglia con ciò che lo precede, qualcosa da cui in futuro non si potrà prescindere e che “inguaierà” chiunque vorrà scrivere storie con serietà – naturalmente può darsi che mi sbagli.
Sulla questione dell’anafora e più in generale del linguaggio lei ha proprio ragione, si sente che Bolano nasce poeta; io, che ho letto alcune sue poesie trovandole scadenti, mi meraviglio che ne sia potuto germinare un tale prosatore.
Riguardo a Vollmann sì, mi riferivo a Europe Central; ma confesso che rispetto ad altri autori lo so inquadrare meno anche perchè, della sua incredibilmente vasta produzione, ho letto solo quello.
Ho letto il dattiloscritto, reperito in rete, del lavoro, e devo ammettere di averlo apprezzato. Sono un ignorante e non ho precise conoscenze a riguardo; lo stimo, tuttavia, di cuore.