[Riceviamo dalla redazione di in pensiero e pubblichiamo].

La rivista in pensiero sta subendo un abuso che andrebbe definito grave, anche se dell’abuso molti, ormai assuefatti, neppure si accorgerebbero: in nome del copyright è costretta da YouTube a esporre coattamente una pubblicità sul video del proprio booktrailer, nel quale si ascoltano pochi secondi di una canzone, per cui ovviamente possiede l’autorizzazione autografa degli autori.

Veniamo ai fatti: in pensiero ha ricevuto, appena postato booktrailer del 6° numero, un reclamo per violazione del copyright inoltrato dalla stessa YouTube per conto di una società statunitense che dichiara possedere i diritti di una canzone di cui nel booktrailer si ascoltano una trentina di secondi. Si tratta di una canzone inedita fino a qualche settimana fa, pubblicata in anteprima in in pensiero n. 6, e a breve in uscita all’interno dell’album di esordio del gruppo che l’ha composta.

Vale la pena sottolineare subito che in pensiero, oltre alla partecipe benedizione, ha ricevuto la liberatoria e l’autorizzazione (con tanto di firma autografa dei 4 autori…) a pubblicare la canzone in questione sul DVD allegato al n. 6, autorizzazione su cui, anche questo vale la pena sottolinearlo, non ha avuto niente a ridere neppure la Siae, che ha regolarmente fornito l’irrinunciabile bollino argentato.

Certo, YouTube è un’azienda privata e decide di fare ciò che vuole dei servizi che offre, e certo i video di in pensiero ricevono un numero tanto esiguo di visite rispetto agli hit di YouTube che ogni nostro discorso rischia di restare privo di significato.

Eppure il problema non è tanto il torto subito da in pensiero, piuttosto l’uso distorto e, almeno eticamente, illegittimo del copyright. Il problema non è tanto la libertà di offrire un servizio, piuttosto l’abuso di posizione, almeno eticamente, illegale di chi offre un servizio di comunicazione pubblica in uno stato di monopolio effettivo, come effettivamente accade per YouTube, o per google, se si vuole dare alle cose il loro nome (a meno di non voler elogiare la quieta ma spietata praticità del monopolio, certo).

Il reclamo ricevuto via YouTube da in pensiero prevede che in automatico, come risarcimento del diritto violato, nel video compaia la pubblicità: come a dire, dato che usi roba d’altri, abbiamo il diritto di fare del tuo video fonte di guadagno, di convertirlo tuo malgrado a cavallo di troia del marketing: come un cavaliere errante, o come uno sceriffo del far west, YouTube ripristina la legalità, o meglio, la giustizia, nel proprio vasto e incontrollabile territorio. Il motto (o sillogismo) è: copyright, giustizia, pubblicità.

YouTube ovviamente permette di contestare il reclamo, cosa che immediatamente in pensiero ha fatto dando prova di possedere le autorizzazioni scritte degli autori della canzone in questione. Ma chi è il giudice a cui YouTube assegna il verdetto finale? La stessa società detentrice, o presunta, dei diritti, che in poche ore ha ovviamente rigettato la contestazione di in pensiero e ha confermato il reclamo per violazione del copyright e pubblicità annessa. Ultimato questo passaggio, YouTube non consente di fare più niente (se non adire a vie legali o assumere un pool di avvocati che risolvano il problema come in un film di Hollywood), e ci si deve tenere la pubblicità.

A questo punto sarebbe interessante chiedersi se è normale, e sano, che gli autori di una canzone, o di qualsiasi altra opera d’arte o d’ingegno, non solo non detengano, ma non sappiano niente di chi detiene, o dichiara di detenere, i diritti della loro opera, magari trovandosi a loro insaputa della pubblicità messa da altri su un proprio video o su una propria canzone (e amagari di fronte a tutto ciò pensare che è normale, che sono i tempi in cui viviamo, che la pubblicità fa parte della vita), solo perché hanno deciso di distribuire, anche solo on line, le loro opere. (Non sarà forse l’ultimo stadio di quella famosa alienazione, di cui oggi non si sente più parlare?)

Sarebbe magari interessante chiedersi quali sono le prospettive di un’intera civiltà, delle sue culture e intelligenze condivise, se al timone di comando rimane solamente chi distribuisce o chi commercializza (vantandone legittimamente diritti assoluti, come assolute e legittime erano le monarchie dell’ancienne régime) relegando a una funzione di merce non solo i contenuti che vengono prodotti, ma anche chi questi contenuti li crea, anche chi crea saperi, conoscenze, nuove intelligenze.

Sarebbe ancor più interessante chiedersi se il copyright, o il diritto d’autore, o, come viene chiamato adesso con inconsapevole ma ironico ossimoro, il diritto di proprietà intellettuale, non sia forse l’ultima frontiera di quel feroce e arrogante diritto d’appropriazione verso gli uomini e la natura di cui il nostro capitalismo contemporaneo sembra essere l’ultimo inarrestabile erede (soprattutto se invece di preoccuparsi della musica o dell’arte ci si preoccupa di cosa significa applicare il diritto di proprietà intellettuale non solo ai brevetti scientifici e tecnologici ma anche ai nuovi domini – sic! – delle scienze, ossia, le sementi, gli animali d’allevamento, le sequenze genetiche, bref, la vita come processo biologico).

Ma forse in uno spazio come questo sarà meglio limitarsi a sottolineare come un fatto così insignificante, costringere una piccola rivista di arti contemporanee a esporre della pubblicità su un proprio video, in realtà nasconde dinamiche che insignificanti non sono, ci parla di fenomeni, derive, spinte ideologiche, pulsioni di morte, che nessuna pubblicità racconterà mai, ma che al contrario i metodi scopertamente violenti e “legali” che vengono usati per fare entrare quella stessa pubblicità in ogni spazio di vita raccontano in modo trasparente.

Per questo abbiamo deciso di non cancellare da YouTube il nostro video (lasciando a YouTube la possibilità di continuare a ospitare il nostro account), ma di continuare a esibirlo come un piccolissimo boomerang.

La redazione di in pensiero

4 thoughts on “Dalla redazione di “in pensiero”

  1. Domanda banale (in premessa a ogni discorso sul copyright):

    Ma la società statunitense possiede davvero i diritti della canzone?

    Il fatto che «fino a qualche settimana fa» la canzone fosse «inedita» non vuol dire assolutamente nulla. Se nel frattempo la società statunitense ne ha acquistato i diritti, è autorizzata a chiederne il rispetto; anche se il video è stato prodotto e postato prima di detto acquisto.

    Ora, mi pare di capire che sono stati gli autori della canzone a concedere a “in pensiero” l’autorizzazione e la liberatoria; ma se gli stessi autori (o il loro agente o la loro casa discografica) hanno poi venduto i diritti alla società statunitense, è ovvio che non ne siano più i proprietari, pur continuando ad essere gli autori della canzone. Proprietà e autorialità non sono propriamente la stessa cosa, per il diritto e per le leggi sul copyright.

    Scusate la pedanteria, ma c’è qualcosa che non quadra nel vostro discorso. Ma senza quella informazione preliminare, ogni rilievo rischia di restare su un piano troppo astratto.

    Vi chiedete «se è normale, e sano, che gli autori di una canzone, o di qualsiasi altra opera d’arte o d’ingegno, non solo non detengano, ma non sappiano niente di chi detiene, o dichiara di detenere, i diritti della loro opera» … Qui ravviso un deficit informativo di non indifferente portata. Nessuno può acquisire i diritti di una canzone senza che si firmi un contratto. O la società statunitense (e di conseguenza YouTube) sta mentendo, accampando diritti che non le spettano, o qualcuno ha venduto loro i diritti della canzone. Francamente, credo si tratti di eventualità facilmente verificabili.

    Di conseguenza, tutto il resto del discorso diviene sensato oppure ingenuo. *Sensato*, perché se gli autori non hanno ceduto i diritti della canzone, questo articolo ha la sua ragione d’essere; *ingenuo*, perché se i diritti sono stati ceduti, YouTube ha ragione.

    In questo secondo caso, tutto il discorso sul copyright decade a dichiarazioni di principio. Condivisibili o meno che siano, risulterebbero troppo slegate dal caso di specie per essere commentate.

  2. @stan e @tutti gli altri lettori. Non trattandosi di argomento letterario eviteremo polemiche.
    Con questo post, pubblicato inizialmente su youtube a commento del nostro video coattamente sovraimpresso dalla pubblicità, non volevamo certo ragionare sul diritto di una società statunitense, il gioco di parole è inevitabile, a far valere i propri diritti. Del resto ciò che chiamiamo Diritto, è fin troppo noto, su scala globale si invera ormai sempre meno in ciò che è legittimo o legale, almeno da quando il potere degli Stati (chiamiamolo così per brevità) non coincide più con il potere reale (da cui il Diritto) dei grandi flussi economici e finanziari (non coincide significa che non lo regola, non lo governa; e oggi come oggi, checché se ne dica, se non lo regolano gli Stati, non lo regolano neppure gli elettori, cioè i cittadini, e, ahinoi, neppure gli indomiti rivoluzionari del web riescono far niente).
    In questo senso l’estensione globale del copyright, a fronte dell’assenza di istituzioni globali di regolamentazione, ma in presenza di strumenti di diffusione pubblica questi sì veramente globali, è esemplare. A meno di pensare, ovvio, che l’unico diritto legittimo è quello del mercato, in questo caso del monopolio digitale, che appunto, in assenza di un’autorità in grado di decidere, e quindi di creare un diritto, si crea esso stesso il proprio diritto (ma questo è argomento ovviamente serio e complesso che supera i nostri attuali limiti).
    Tornando al nostro caso, o alla fattispecie, se preferiamo restare in un ambito giurisprudenziale, il punto non ci sembra tanto se e come la società statunitense abbia conseguito i diritti della canzone in oggetto (nella fattispecie, dovrebbe essere andata così: i produttori della canzone si affidano a un distributore italiano per la vendita on line; il distributore italiano nel momento in cui rende disponibili le canzoni su alcuni famosi store, vedi itunes, gira i diritti a una società che appartiene alla società finale che dichiara a youtube di possedere i diritti). Il problema principale ci è sembrato non di ordine legale (altrimenti avremmo assoldato una agguerrita squadra di avvocati), ma di ordine politico: se sia legittimo cioè che uno strumento cha ha ormai il monopolio mondiale della diffusione di contenuti video possa operare come uno sceriffo autocrate nel far west e applicare un vago concetto di diritto internazionale (o degli Stati Uniti, che in queste materie è quasi lo stesso) senza far ricorso a nessuna istituzione legittima e riconosciuta da una qualsiasi entità diciamo territoriale e/o globale (per non dire statale, residuo westfaliano che a molti non piace).
    In questo senso allora non è interessante che qualcuno accampi dei diritti di copyright su un prodotto artistico, e neppure se il copyright sia legittimo o meno (affrontato in questa sede, sì, si tratterebbe di una in*sensata* “dichiarazione di principio”), ma piuttosto capire che oggi le forme di monopolio effettivo si elevano, come dire, al quadrato: non solo monopolio sull’uso di uno spazio immenso senza nessuna forma di regolamentazione esterna (se non vaghe e differenziate norme sulla concorrenza che raramente gli Stati o le istituzioni economiche regionali applicano), ma anche il monopolio sulla regolazione, in questo spazio, di diritti terzi, come accade appunto per il copyright su youtube. E la preoccupazione, si faceva notare, non è tanto per qualche prodotto artistico sotto scacco del copyright, piuttosto per quando accadrà, come già sta accadendo, qualcosa di simile per le norme di proprietà intellettuale che regolano i processi biologici: quando, come già accade, alcune multinazionali delle sementi obbligheranno gli imprenditori agricoli, o le comunità di contadini, di vastissimi territori (non fa differenza chi ne sia proprietario) a usare solo certi tipi di sementi geneticamente modificati, che si accompagnano a certi tipi di prodotti fitosanitari (senza cui i sementi non sopravvivono), imponendo tipologia di coltura e ingegneria dei cicli agricoli ecc. solo perché in quei territori, dopo stagioni di colture ogm altamente aggressive e selettive (e per restare ai trust si veda la voce land grabbing), non potrebbero crescere altre sementi. Chi ha diritto di decidere cosa si coltiva in questi territori, anche se sono di proprietà della multinazionale? La sola multinazionale, che poi impone di fatto le proprie scelte, e il proprio diritto di regolamentazione, anche ai territori, alle comunità, o agli imprenditori di prossimità? Che impone agli abitanti di un territorio le proprie scelte di sviluppo agricolo e alimentare?
    Questo per fare solo un esempio.
    La nostra preoccupazione – e di conseguenza il nostro interrogativo – era appunto non tanto il diritto di una società a far valere i propri più o meno legittimi diritti, ma se possono esistere zone, territori, spazi di fatto pubblici senza una regolamentazione condivisa, istituzionale, soggetta a un’autorità che risponda un criterio di legittimità realmente globale, nell’interesse di tutti.
    Allora, non sarà che a essere *ingenuo* è chi crede semplicemente che il diritto coincida con la legittimità scivolosa e indefinita degli attuali diritti di proprietà? Non sarà che a essere insufficiente è questa fede di realismo politico al ribasso?
    Fino a che punto insomma gli spazi di libertà che come individui ci sembrano gratificanti, indispensabili e indiscutibili, e che per le grandi multinazionali, per la grande finanza o per la massa anonima di liberi investitori si traducono in una quasi assoluta libertà di movimento e autoregolamentazione non finiranno per farci paura? Non finiranno per ledere profondamente altre meno evidenti libertà, come quella di autodeterminarsi come comunità, come persone, come processi biologici? Quando insomma ci accorgeremo che il Leviatano ha preso silenziosamente le forme così invitanti e ideologizzate ma a un tempo così inquietanti della libertà e dei suoi tentacolari abbracci?
    Le grandi questioni della grande letteratura e della grande arte, mi sembra, già stiano voltandosi verso queste domande. Nel suo piccolo anche la nostra rivista cerca di dare il suo contributo.

    Un sincero ringraziamento alla redazione di LPLC per aver ospitato il nostro post.

  3. Ho l’impressione che vi sfugga il fatto che YouTube, in realtà, NON E’ uno spazio pubblico: è uno spazio privato, una vera e propria azienda, con tanto di quotazione in borsa, che si finge pubblico per fare affari. Scusate, ma la differenza non mi sembra di poco conto. YouTube USA i contenuti prodotti da altri per costruire il suo impero economico. Se si accetta di postare contenuti su YouTube, si accettano automaticamente le SUE regole; le quali, comunque, devono sottostare a un certo tipo di regolamentazione esterna – tant’è vero che YouTube ha subito diverse *penalizzazioni* (sanzioni, etc.) ed è stata costretta a rivedere tutto il discorso sulla privacy e della pubblicazione di contenuti SULLA BASE DI INTERVENTI DI SINGOLE ISTITUZIONI STATALI. La posizione di monopolio, per altro, quella posizione che proprio non vi aggrada, non potrà essere scalzata se continuerete a usare, per i vostri video, la piattaforma YouTube e non altre, alternative e di qualità superiore, che pure esistono. Insomma, voi stessi alimentate quel monopolio.

    In fine: il diritto coincide con i diritti di proprietà. E’ così da quando esiste il capitalismo (Marx ha scritto pagine insuperate su ciò). Credere che la proprietà regoli contro se stessa il diritto, ecco la più grande delle ingenuità.

  4. È proprio qui il punto: youtube è uno spazio privato che illegittimamente, almeno dal punto di vista politico, ricopre uno spazio di comunicazione pubblico di cui, di fatto, detiene un monopolio non regolato, a parte certo differenziate limitazioni su contenuti e privacy negoziate con ogni singolo Stato; cosa che peraltro non cambia, ci sembra, la sostanza delle cose. (Siamo d’accordissimo sul fatto che usare youtube alimenta il suo monopolio, e infatti siamo migrati in altra e più qualitativa piattaforma, lasciando su youtube, per la sua esemplarità, il video con commento).
    Dato che nella storia recente, anche all’interno di sistemi variamente ispirati ai principi del capitalismo, non sempre il diritto ha coinciso col diritto di proprietà, cioè non sempre il principio di (libera) competizione ha sconfitto quello di regolazione, il nostro era un appello (certo, l’appello di una pulce nel deserto) affinché non si considerasse ingenuamente normale che il diritto di proprietà coincida con il diritto tout court. O detto altrimenti, un appello (sempre della solita pulce) a incoraggiare la politica in qualche modo a riprendersi (come anche Marx auspicherebbe) le proprie prerogative sull’economia, un invito a pensare che quella in cui viviamo non è una situazione normale, o immutabile. Se pensare e esprimere opinioni, ovvio, è sempre utile a qualcosa.
    Altrimenti ci rassegneremo alla pubblicità, e aspetteremo che qualche cyber rivoluzionario, a cui la libertà del mercato non spaventa, ci liberi dai cattivi.

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