I.
Capì che aveva perso la cognizione dello spazio. L’aveva smarrita in un attimo, come in un attimo si può perdere la vita. E ora camminava in una città sconcertante. Una specie di consuntivo di molte città, innumerevoli vedute. Ma il piano della visione non era lo stesso piano dei gesti. Non capiva questa cosa, ma la cosa era questa. Portava una giacca blu di rovescio. Aveva un sorriso leggero. Si toccò le tasche. C’era tutto. Anche il telefonino. Lesse l’ultimo messaggio: Dormi? Dalla città affastellata raggiunse un lungomare. Era stipato di persone. A un tavolo qualsiasi, in primissimo piano, c’era una donna molto bella. Le domandò che città fosse quella. Lei biascicò qualcosa, ma il coperchio del sogno non si aprì. Le chiese se poteva aiutarlo a uscire da quel posto. Non poteva. Allora lui prese ad allontanarsi con il fiume di persone che si allontanavano. Era buio. Non c’era nessuna consolazione. C’era una doppia fila di tribune. I tribuni arringavano: Dunque! Dunque! Dunque! Poi iniziarono a dispiegarsi panorami ancestrali di rocce e rocce. Prese a schiarire. Il tessuto del sogno era il tessuto di una disillusione: azzurro pallido, verde acqua. Stavano in tre amici. Erano le ore lontane. Le parole che si dicevano si assomigliavano. Le parole erano prodigi che li plasmavano. Si sentiva aprile che passava il testimone a maggio. La bacchetta era il sentore delle colline. Era l’ora in cui si distinguono le risposte elusive. Fra meno di quattro ore sarebbero cominciati i rumori. La sveglia l’avrebbe data il carro compattatore. C’era un pioppeto. Le cortecce lisce. Le foglie alterne. Gli speculatori! Gli speculatori! Si udì a un tratto. La folla si riversò fra gli alberi. Era buio. Fece di nuovo chiaro. Da quel chiaro si aprì una collina dalle pareti erose che a tre quarti teneva un edificio di forma pressoché circolare: due anelli concentrici di tronchi in pietra forte dividevano la parte centrale da un deambulatorio periferico oltre il quale i pioppi crescevano fitti. I tronchi legati a due a due dagli architravi in sommità reggevano le arcate dell’ambulacro. Tentò di svegliarsi. Sentì che stava correndo un pericolo reale. Soffiava freddo nel pioppeto. Il sole prese a fiammeggiare tra le colonne. Era una luce momentanea, effimera. Erano le quattro del mattino. Era il sei di maggio. Era il giorno delle Amministrative in Italia e del voto in Francia, in Grecia e nel Land tedesco dello Schleswig-Holstein. L’Europa si risveglia a un altro maggio. Rivide la costruzione nel pioppeto. A pancia in giù. Il braccio fuori penzoloni. Sentì un piccolo gufo: uh uh uh: tutta la complessità del mondo in tre uh in fila indiana. Rivide le rocce nel sogno di alcune settimane prima. I lungomare stipati. Cercò l’interruttore. Si accese la luce – la luce che si accende. Finalmente.
II.
C’è qualcosa di incongruo, pochissimo, nella ricostruzione dello studio bolognese di Pascoli nella casa di San Mauro, a piano primo, a sinistra, appena fatta la scala. È la prima domenica di giugno. Ieri era il due, Festa della Repubblica, quest’anno funestata dai terremoti che hanno colpito tanto atrocemente le popolazioni emiliane. C’è il tricolore sulla porta d’ingresso della casa. Casa Pascoli, come sta scritto nel pieghevole dell’Accademia Pascoliana, pubblicato per il Centenario della scomparsa, 1912 – 2012, è un Bene di proprietà dello Stato. In copertina, appena sotto l’immagine antica della casa, ci sono quattro versi: «M’era la casa avanti, / tacita al vespro puro,/ tutta fiorita al muro / di rose rampicanti…». Dicevo all’inizio: incongruo, non proporzionato. In verità si tratta solo di una piccola dissonanza fra gli arredi bolognesi e tutti gli altri, più domestici, più tenui, più umili, per usare due aggettivi di Pascoli sulla sua stessa poesia, come scrive in una sua lettera del 10 maggio 1897, da Castelvecchio di Barga, ai concittadini di San Mauro di Romagna. Stralciato da Limpido Rivo c’è un altro cartello, affisso a una parete. Dice: «La casa era così pulita e così comoda; così pudica, con quegli alberi scuri davanti, che le facevano ombra e riparo; così tranquilla, con quella siepe di biancospino ben tosato e squadrato, che la cingeva d’ogni parte… con quel rosaio e quel gelsomino su per il muro, con quella cedrina, che io chiamava allora erba Luisa, proprio accanto all’uscio di casa mia… per qualche minuto ero tornato in possesso di una vera casa e d’un vero campetto, e di tante cose e persone che prima credevo perdute, e della mia fanciullezza e della mia felicità». Mi sono aggiunto a una comitiva che viene dalle Puglie. Siamo nello studio. Stiamo ascoltando la guida. Con piglio e simpatia romagnola ci sta dicendo proprio della poesia Romagna. Le poesie di Pascoli che amo di più sono quelle del Diario autunnale, scritte tra il primo novembre e il 21 dicembre del 1907, in un periodo trascorso tra Bologna e San Mauro, da dove poi tornò a Castelvecchio, e qui compose le ultime due. Delle restanti sei, cinque vennero composte a Bologna e la terza, la Notte dal 9 al 10 novembre alla Torre di San Mauro… La comitiva è in partenza per la Torre, al centro di quelli che furono i possedimenti dei Torlonia, di cui Ruggero, il padre di Giovanni, fu amministratore, e dove la famiglia abitò dal 1862 al 1867. Vorrei andare con loro, ma poi decido di restare qui. Giro ancora un poco per la casa, rileggo le didascalie, resto a leggere un po’ nel giardino; ho portato con me le poesie del Diario autunnale; l’ultima è del 21 dicembre, il giorno più breve. All’innesto con la Strada Provinciale 10 per San Mauro a Mare hanno fatto una rotonda a prato, con al centro la cavallina storna e un fanciullo che l’abbraccia. Il tutto è ben proporzionato, ha una sua autonomia di linee. È una delle rare rotonde scolpite – di quelle provviste di scultura al centro –, che mi è capitato di fare, che abbia un significato certo. E allora l’ho fatta due volte, il tempo per ripetere piano: «Nella Torre il silenzio era già alto/ Sussurravano i pioppi del Rio Salto…»
*
7 giugno. Ieri sera ho visto Cosmopolis, di David Cronenberg. Un film considerevole. Con Packer che arriva troppo tardi nel suo vecchio quartiere, per il taglio dei capelli. Un giorno non è poi così lungo come egli pensa. Un giorno è un giorno. Ma lui pensa, o meglio: agisce, come i mercati azionari, ne è l’iperbole. Fino a un certo punto, poi non più. Sto guardando il trailer. Ci sono alcune fra le battute più rappresentative. L’ultima è quella che fa: Tutto nelle nostre vite ci ha portato a questo momento. La prima c’è lei, la sposa poeta multimillionaire, che gli chiede: Dov’è il tuo ufficio? Che cosa fai di preciso? Sei al corrente delle cose; è questo che fai: tu riesci a ottenere informazioni e le converti in una materia orribile. In mezzo alla rivolta arriva la Consulente in teoria: Questa è una protesta contro il futuro, vogliono tenere a distanza il futuro. Ma se il futuro ogni giorno è il giorno dopo come si fa a tenerlo a distanza? Mentre guardavo il film pensavo che c’era di mezzo Ulysses, con quella giornata di Packer across Manhattan, in cerca del suo cercatore in agguato. Ma non ne ero poi così certo. L’ufficio di Packer, comunque, questo sì, era proprio la sua ultralimousine pacchiana: qualcosa a metà fra un carrozzone extra lusso e una capsula cosmica. Le noleggiano anche. Ho letto che in città per tre ore di una limousine da 10 metri ci vogliono sui 500 €, bottiglia di spumante inclusa. Che bello no? Il film è finito che non era neanche mezzanotte. Ero contento di questa cosa. Oggi è lavorativo. Avevo solo bisogno di un bicchiere d’acqua, non fredda, questo sì. Era una bella notte di giugno. Fra due settimane esatte è il giorno più lungo. No, la figura di riferimento non era Ulisse a Dublino. Piuttosto metà Sansone a NY? Ma non volevo pensarci ancora sopra. Non volevo a furia di rimuginare trasformare quella riflessione nella materia di un incubo a venire. Camminavo piano. Sentivo l’autenticità di quel camminare notturno. Tempo dieci minuti e stavo a casa.
[Immagine: Passeggiata notturna (particolare). Foto di Massimo Gezzi (mg)].
La prima parte è notevole.
Per dm: la ringrazio molto del suo giudizio positivo. Solo una piccola cosa. In una qualche maniera la I^ parte è “più semplice” della seconda. C’è un tale che dorme e l’altro conosce, almeno un po’, il “meccanismo interiore” di quell’incubo. Ma poi, finalmente, cerca l’interruttire e la luce, finalmente, si accende. Nella II^ parte è tutto più complicato. La luce è già accesa, è giorno, ma il “meccanismo interiore” è meno noto; ma c’è una cosa: di sicuro vuole “opporsi” a quello, più noto, della I^ parte. E per “opporsi” cerca un posto molto preciso e date molto precise. Sì, all’incirca è così. Almeno credo e a ripensarci un poco sopra. Le giunga un cordiale saluto. Adelelmo Ruggieri
Quanto alla semplicità, non saprei dire. A me sembra che, nella prima parte, quello che lei definisce “meccanismo interiore dell’incubo”, sia anche un modo per liberarsi di alcune piccole pesantezze dello scrivere, di certi scrupoli. E’ solo un’impressione, ovviamente.
Poi, il “meccanismo” va nella direzione opposta, sì. (Ho letto con piacere anche la seconda: tra l’altro, ho molto amato la poesia di Pascoli.)
Saluto
dm
caro adelelmo
dovresti pubblicarli questi tuoi testi in prosa. non avrai milioni di lettori, ma avrai raccolto un modo di scrivere e di guardare che è solo tuo….
caro franco, sì, ci proverò, anche perchè non so se è solo mio questo modo di guardare le cose; ieri, per esempio, al supermercato, ho incontrato un amico del mio rione; in due minuti, il tempo delle scontrino, ci siamo detti quasi tutto e le parole che dicevamo si assomigliavano, erano vicine, e questa cosa qui era bella; molto; buona giornata, un abbraccio; adelelmo
dio mio, sono parti, è un lavoro, infiniti giochi riparativi, ovvero: si opera in uno spazio ben difficile, questo dove tutto sta assieme e significa. bravo. unico appunto: ne vogliamo di più.
adelelmo ( o meglio, l’inconfondibile peculiarità del suo sguardo e della sua prosa, come già sottolineato da arminio) sta tutto in un aggettivo. Si legga l’incipit del terzo pezzo: “Un film( e uno s’aspetta aggettivi consueti, oggidiani quali ‘potente, eccezionale, imperdibile, straordinario’) considerevole”. Ecco; ‘considerevole’ sorprende e spiazza, apre prospettive del tutto inusitate, ci conduce in luoghi imprevisti, in tagli di quotidianità che adelelmo illumina con una luce che solo è la sua.
per Linnio: un poco ci ho penato per trovarlo l’aggettivo; il film che avevo appena visto non era certo un film di Tarkovskij, o di Sokurov, di questo ne era certo; ma di sicuro era un film che andava preso in grande considerazione per quanto diceva; ma la questione era aver visto quel film (Cosmopolis, 2012) tre giorni dopo aver visto San Mauro Pascoli, quella casa, per ricordare il Centenario Pascoliano; il 1912, se non sbaglio, fu anche l’anno della VI° edizione, postuma ma curata dallo stesso Pascoli, dei Canti di Castelvecchio.
per Renata: di più? mah. è vero che tutte le circostanze stanno insieme e significano, eccome se significano; ma fra di loro ce ne stanno alcune, almeno mi sembra, che messe insieme equivalgono a qualcosa che sta in chi sta scrivendo; e questa “equivalenza” è più infrequente; all’incirca, non so dire meglio di così
comunque sia grazie per il vostro giudizio positivo
buona giornata
ar