di Antonella Anedda
Bambini
I
Sognai la nostra voce e un’altra voce più forte che colpiva.
Sapevo che era morta e si sforzava di esistere e lottare.
Chiamai i rumori, quelli più familiari, l’urtare di due sedie,
il tintinnio dei piatti sul vassoio e gli animali
(solo questi, da fiaba):
volpi, linci e lupi perché ci proteggessero.
Venisse un gatto almeno, senza grida,
miracolosamente non umano.
La casa era perfetta, gialla, pulita dentro il sole
con lampadari a gocce e in ogni goccia si specchiava il nostro lavoro di bambini: scuotere dalla tovaglia la paura insieme alle briciole del pane, fare un orlo al dolore, posarlo sul mucchio dei panni da stirare.
Solo così, credo, imparammo ad amare ciò che appare,
gli oggetti senza colpa, un parafango, il fango stesso
se preso da una mite angolatura verso il sole
e il mondo senza sangue dei balconi con le piante annaffiate.
Contro il tempo trovammo l’arte dello spazio
la precisione che permette alla mente di affondare.
II
Sogno me stessa
nell’unico gioco infantile che ricordi:
costruire un mondo sotto l’anta di un mobile
il pavimento è il mare, il tappeto a rombi
il metro di un ordine olandese
il cui ritmo libera i bambini dal terrore.
Ogni mio sogno ricomincia cautamente
in una vita che scorre parallela:
strada, canale, metà tende sui vetri per la luce.
Non c’è tempesta, ogni suono si spegne
mentre ci fa da madre
un muro giallo-ocra.
III
è sola dietro gli occhiali
confusa come l’ape che schiacciava in fretta contro i vetri.
Ancora adesso l’oro di quel corpo si fonde alla memoria
di altri corpi colpiti, allo spavento che virava
da quei vetri alla stanza e la riempiva.
Spazio dell’invecchiare
I
Solo la nudità alla fine ci raggiunge
esatta come la luna crescente nei capelli.
Esiste una gioia nella reticenza
e un riparo perfino in questo spazio
che ha un inizio e una fine.
Non voglio scrivere un’elegia della vecchiaia
solo dire che spingere le braccia dentro il freddo
è una prova che ha senso
non diverso dal trovare il verbo in una frase.
Senti come guadagni la via del corridoio.
Non è scontato il passo col respiro.
Conta i mattoni pensando ai ciottoli di fiume
all’acqua che ti fasciava il piede
ricorda quanta tenacia c’è voluta a decifrare
le mappe dentro alle parole.
II
Ancora ti svegli con un brandello di futuro (forse, forse
dice la trave nella luce mattutina)
ancora pensi a una scaglia di amore (forse, forse
dice vagando per la stanza la luce mattutina)
Ancora hai la forza di pensare tutto questo
e il silenzio ti cura, la solitudine splende
con gli avanzi del cibo su cui si posa il cielo.
questa è una cosa sacra. laicamente sacra. non si può smettere di ringraziare Anedda per le sue parole. per la dignità della sua completa nudità. per il coraggio con il quale esplora la sua vita come un esempio, nonostante non voglia essere esemplare e soprattutto perché non desidera essere esemplare. ha l’umiltà e l’ubiquità dei grandi.
La ricerca di uno spazio interiore che resti vergine, intoccato dagli altri e anche da se stessi. Si recupera il ricordo più fondo, il momento prima del quale siamo stati coscienti. Molto più intimiste di quanto siano state le altre nella produzione precedente, queste splendide poesie di Antonella Anedda. Ho notato anche la ricerca più insistita di una musicalità armoniosa, senza scarti, come un canto siderale.
Grazie a Guido Mazzoni per questi inediti.
Era da tanto che non leggevo Antonella Anedda. Grazie davvero, è un dittico notevole (e in bocca al lupo per questo nuovo progetto!)
E’ lei, riconoscibilissima, con i suoi bagliori!
Bellissime liriche
antonella o dell’attenzione….
attenzione clemente e acuta….
I couldn’t resist commenting
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è vero, Antonella, non è scontato il passo. un grande abbraccio
meravigliosa elegia alla solitudine e all’incomunabilita’ complimenti
quando pubblica ?