L’esangue, vitalissimo, morente protagonista di Cosmopolis (Eric Packer nel film di Cronenberg) si muove come alla fine di un percorso. È vero che l’automobile di lusso di Packer (limousine bianca, come tutte le altre limousine bianche che si vedono intorno) avanza così lentamente nel film da apparire una bara, da evocare l’incedere di un funerale, come dice con efficacia Davide Nota nel testo qui pubblicato. Ma la storia è narrata a diversi livelli. Uno è descrittivo-formale, una tesa e maniacale attenzione all’arredamento della vita attraverso oggetti, corpi, atti, movimenti, accoppiamenti (la lentezza e rari scatti di accelerazione violenta fanno parte di questo straordinario manuale di “conversazione” mondana).
Un altro è la sequenza dei fatti che comunque accadono intorno, accanto, prima, dopo, a un livello presumibilmente più alto (certo altrove), a un livello di conseguenze sugli altri, su tutti, su una folla diversa (poveri, esclusi, ribelli?) che in parte intravediamo nella rivolta e che siamo costretti a immaginare a causa dei dislivelli di vita suggeriti da tutto (visti mai, come infatti accade nella vita da agiati).
Eric Packer si comporta come chi sa che la sua missione è alla fine. Nello stesso tempo occupa, da esponente della classe agiata, tutto lo spazio che gli spetta. La malinconica vitalità padronale merita attenzione. Nessun film o racconto su Wall Street ce la aveva mostrata prima. Vuol dire avere moltissimo e sapere in tempo reale quanto sia poco, quanto stia per essere niente il moltissimo che si possiede, come la Terra vista nello spazio da un astronauta. Quella immensa quantità di possesso, comunque, si consuma sotto i nostri occhi di spettatori-cittadini che, suppongono giustamente gli autori DeLillo e Cronenberg ,conoscono per esperienza l’attendibilita del racconto.
È il racconto di una gigantesca inflazione che mangia le ricchezze di Stati interi, e di fronte alla quale nessuno è al sicuro, a meno di trovare rifugio nella spoliazione. Eric Packer segue, più che iniziare, il procedere del rito come dovuto, dall’offerta di corpi femminili al rischio continuo di aggressione, alla compagnia occasionale e mondana di personaggi “interessanti”, alla ispezione fastidiosa del medico, usando sempre il privilegio reale di fare tutto in presenza di sudditi, cosciente, non per sospetto ma anzi con la serenità di chi ha buona conoscenza dei fatti e del probabile destino, che chiunque di loro potrebbe o vorrebbe ucciderti. Quanto a morire, è un altro discorso. Qui la linea di confine è incerta. Eric si muove libero come un fantasma, così libero da uccidere senza ragione la persona più vicina a lui. In quell’ universo (uno specchio appena più deformato del nostro) una vita, una limousine, una folla, una giacca sono rese uguali dal rito. Eric Packer è il superuomo o possiede e usa la libertà breve e infinita del morituro?
La vera trovata sembra avere identificato il momento: una lunga, lenta scivolata verso la fine, forse di tutto, forse di un’epoca, forse di una storia. Ma in questo modo viene evitato il pericolo di spostare sguardo e attenzione verso il momento in cui tutto comincia. In altre parole, dov’e il potere? E il potere di chi, di che cosa, su che cosa? Infatti tutto ciò che vediamo, e di cui sappiamo nello svolgersi cauto di questa storia, l’accumulo immenso di ricchezza, che è paurosamente instabile, e che infatti si scioglie; il grattacielo-quartier generale-simbolo, evacuato (un po’ come se le Torri gemelle fossero state abbandonate con adeguato, calmo, implacabile preavviso); la limousine bianca, che si muove lentamente ma comunque va via; una nella lunga fila di limousine bianche che sgomberano, facendosi cautamente strada fra quelli lasciati a piedi: tutto ciò avviene alla fine di quale mondo? Questo o una metafora? Va collocata qui la domanda ispirata evidentemente a Eric Packer da una fresca lettura (Packer è giovane) di J.D. Salinger: «Dove vanno a dormire le limousine?» (che ho lievemente parafrasato per evocare “dove vanno a svernare le anatre?”, de Il giovane Holden). Quella domanda introduce non al dopo, dove tutto lo spazio viene sgombrato, e dove finisce la storia-parabola. Piuttosto conduce al prima, a una immaginaria operosa mattina dove tutto comincia, quando le limousine escono fresche in cerca di potere da trasportare. Da dove a dove? Una cosa si coglie nella relazione tempo-spazio-destino: i poteri in circolazione su limousine, per quanto grandi, per quanto padroni, non sono il Potere. E dunque, a monte, occorre cercare Dio o qualcos’altro, certo molto più grande e – ci dice il paesaggio nel quale i nostri eroi sono chiamati a vivere (e finire di vivere) – molto più cieco. Siamo arrivati al punto, ma sostiamo per un momento sull’ornamento culturale. La “moglie poeta” che ci dà in fretta (ruba ogni volta pochi secondi e, in tutto, pochi minuti) le seguenti informazioni: una moglie artista è anche una moglie d’arte, ovvero svolge un ruolo di scena. Quel ruolo è un buon ornamento, ma è poco importante. Niente di ciò che regge (e poi fa crollare) la scena passa dai fatti della cultura. La cultura, o almeno la cultura come spettacolo, nasce e resta e finisce nella ricchezza, altrimenti non lascia traccia, se non come “occupazione” (notare l’intuizione profetica dei due autori, che raccontano Occupy prima che accada). Ma dentro la ricchezza e la grossa scheggia di potere marginale che vediamo, circolano cultura e citazione colta, che però non intaccano la realta in nessun punto. Ho detto ” scheggia” e “potere marginale” perché questo mi sembra il punto.
DeLillo e Cronenberg, nella loro grande diversità, mostrano una forte coincidenza nel disporsi a narrare, come Machiavelli, “un principe”, non “il principe”. Nel paesaggio di Machiavelli, molto al di là del potere dei principi, ci sono i papi e gli imperatori, ovvero una zona di potere vasta e indescrivibile, con un margine immenso di arbitrarietà e – allo stesso tempo – regole ferree e insormontabili. Tipici di quegli anni sono i grandi dipinti che sembrano religiosi e sono politici (Lorenzo Lotto, Tintoretto, Luca Signorelli), scene di corte in cui i santi appaiono in compagnia di duchi e dignitari. È evidente il riferimento visivo nelle scene in cui autisti, guardaspalle e titolari di potere appaiono insieme, fuori e accanto alle limousine ferme, in una attesa o deferenza non si sa verso che cosa. La differenza è il vuoto nel punto in cui, nei grandi dipinti politico-religiosi del Rinascimento, abbagliava il trionfo della Madonna con Bambino (il figlio di Dio), spesso con il dito levato a indicare ben altro potere, ben altro trionfo e, presumibilmente, ben altra esplosione di luce. Qui, nel libro e nel film, siamo fuori, lontani e fermamente costretti da qualcosa di cui, come nella vita, come a Wall Street, come a Buildenberg, è meglio non parlare, o è impossibile da mostrare. Vediamo il destino. Ma manca il potere (almeno un riferimento all’immagine del potere) che grava su quel destino. Restiamo ancora una volta in attesa della rivelazione.
[Immagine: Robert Pattinson in Cosmopolis di David Cronenberg (gm)].
Furio Colombo in coda al suo commento a Cosmopolis ci dice dei
… grandi dipinti che sembrano religiosi e sono politici… scene di corte in cui i santi appaiono in compagnia di duchi e dignitari. È evidente il riferimento visivo nelle scene in cui autisti, guardaspalle e titolari di potere appaiono insieme, fuori e accanto alle limousine ferme, in una attesa o deferenza non si sa verso che cosa. La differenza è il vuoto nel punto in cui, nei grandi dipinti politico-religiosi del Rinascimento, abbagliava il trionfo… a indicare ben altro potere, ben altro trionfo e, presumibilmente, ben altra esplosione di luce… Qui, nel libro e nel film, siamo fuori, lontani e fermamente costretti da qualcosa di cui… è meglio non parlare, o è impossibile da mostrare. Vediamo il destino. Ma manca il potere (almeno un riferimento all’immagine del potere) che grava su quel destino…
Eppure, è un fatto, anche in Cosmopolis, ci sono grandi dipinti… sono quelli di Rothko… Packer addirittura vorrebbe acquistare la Rothko Chapel, il “tempio moderno” voluto dai De Menil a Houston intorno alla metà degli anni sessanta… ma non è possibile, è un bene di tutti, è un bene universale… ma com’è fatta la Rothko Chapel? è una grande sala ottogonale, alle pareti ci sono le tele di Rothko – l’esperienza di base, il colore –; in alto c’è un lucernario; insomma quelle tele, in senso stretto, dialogano con il “cosmo”… anche qui, in una parola, c’è “una esplosione di luce”… etc etc etc