[Dal 25 dicembre al 4 gennaio LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. In questi giorni, per non lasciare soli i nostri lettori, ripubblicheremo alcuni post. L’articolo che segue è uscito il 21 giugno 2012]
di Emanuele Zinato
Criticare una voce autorevole di Repubblica equivale tout court a essere, più o meno consapevolmente, “di destra”? Credo di no, anche se molto è stato fatto, in Italia, negli ultimi vent’anni perché le cose potessero sembrare proprio così. Ultima: la larga ospitalità concessa da organi del berlusconismo, come “Il Foglio”, a voci del pensiero critico più indocile e eterodosso, come quella di Alfonso Berardinelli, che ai tempi di “Diario”, della satira contro Eco o Scalfari hanno fatto uno dei propri maggiori cavalli di battaglia. Ultimamente, nel mirino di questi ultimi, ai “guru” di “Repubblica” si sono aggiunti Fazio e Saviano. Personalmente, credo sia necessario distinguere. Credo a esempio che alla volgarità dei talk show urlanti e scosciati la sobrietà, sia pure “politicamente corretta” e talvolta stucchevole, sia di gran lunga preferibile. Credo, insomma, per dirla tutta, che i “socialdemocratici” fossero preferibili ai “fascisti”, che il parlamentarismo borghese, sia pure coi suoi infingimenti e il suo “terrore mite”, fosse più “abitabile” di una dittatura. Sulle responsabilità dei “consumi culturali” nella degenerazione populista e mediatica della nostra vita politica occorrerà, inoltre, prima o poi decidersi a spendere energie cognitive ideologicamente indipendenti e eticamente sensibili: servirà una storiografia critica, contro i luoghi comuni e contro l’oblio controllato, e una saggistica capace di partire almeno dagli anni Settanta (da Piazza Fontana, a esempio, film a parte). Ma non credo nemmeno all’utilità di un approccio adorniano fuori tempo massimo e so bene che le cose sono in generale più “complesse”: rinvio, per questo, alla mia verifica delle parole n. 1, Libertà e comunismo, pubblicata su LPLC.
Tuttavia… tuttavia non posso fare a meno parlare di Alessandro Baricco. L’ho già fatto, una volta, all’uscita di Oceano mare. Ho tentato in seguito in tutti i modi di convincermi che si trattava di un “efficace divulgatore”, uno tra gli altri, buono quanto e forse più di un altro. Ho cercato di pensare, per attenuare e estinguere la mia allergia, alla mia stessa esperienza divulgativa e didattica, a scuola e poi all’università: alla mia necessità quotidiana di interagire con l’immaginario degli studenti, modellato dal rock e dai manga, di non lasciare intentate le vie, anche le più ibride, per far incontrare loro, in forme vitali, i classici.
Ora però Baricco è intervenuto alla bolognese “Repubblica delle idee” con una conferenza che prometteva “Le ultime indiscrezioni sui barbari”. A Piazza Santo Stefano lo ascoltava una folla attenta, onesta, ben disposta alla “civile conversazione”: non in venerazione ma in rispettoso ascolto. L’oratore, assai invecchiato rispetto ai tempi di “Pickwick,”, aveva dunque davanti a sé la sua senile e decisiva occasione per un’autocritica. Poteva dire “ebbene sì, le cose che ho scritto nel 2006 su Repubblica e che poi ho raccolto nel fortunato volumetto I barbari. Saggio sulla mutazione erano approssimazioni ad effetto, vere e proprie rimasticature di cose dette molto meglio da Benjamin, da Debord e poi persino da Lyotard svariati anni fa, e che io ho riadattato per il vostro immaginario distratto e incerto di lettori di gazzette. Confesso: in tal modo non ho rispettato la vostra parte più intelligente e attenta. Le mie rimasticature avevano, però, un pregio: bene o male divulgavano la “perdita dell’aura” e la condizione postmoderna, concetti che non tutti conoscevano. E’ vero: c’era già stato l’11 settembre, il postmoderno scricchiolava, la storia si faceva sentire di nuovo col suo volto di tritacarne, ma una bassa divulgazione ha pur sempre un suo quoziente di dignità. Ora, però, la crisi mondiale ha reso quei miei pretenziosi “bignami” già allora approssimativi e tardivi, completamente superati e del tutto inutili. Siamo mutati, ma assomigliamo di più, di nuovo, ai personaggi di Faulkner o di Conrad che a quelli di Walt Disney. Lo scenario è cambiato del tutto: ecco la vera indiscrezione sulla “mutazione” e sui barbari.
Così avrebbe restituito rispetto al rispetto ben percepibile nello sguardo franco dei suoi tanti ascoltatori. Invece no: Baricco esordisce col dire che quelle sue cose nel 2006 erano del tutto inedite, perfino pionieristiche, e solo ora, e proprio grazie al suo libro, sono diventate di dominio comune. Poi fa vedere su un maxischermo cinque minuti della partita Olanda/Uruguay del 1974 per mostrare in modo non confutabile come una delle due squadre in campo fosse a suo dire già “barbarica” e l’altra no, senza saperlo e anticipando i tempi. Infine riassume, malamente e senza pudore, i contenuti del suo vecchio libretto.
“Ciò che è percepito dai più, soprattutto da noi di sinistra, come un’apocalisse imminente è, in verità, il vero annuncio del futuro”. Per condensare questa oracolare verità in una efficace “immagine di pensiero” sottrae ancora una volta senza ritegno la metafora a Parise che, già nel 1975, nei suoi reportage da New York, parlava più o meno così della mutazione: “quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro alle orecchie e ha deciso di vivere sottacqua”.
Nel supponente e ripetitivo discorso di piazza Santo Stefano, esattamente come nel volumetto edito da Fandango, è il palazzo imperiale di Google con i suoi milioni di links a fungere da emblema indiscutibile di mutazione. E la nota dominante di Baricco è, ancora una volta, l’euforia: “la mutazione è la fine delle mediazioni, ed è elettrizzante”: saltano le caste, evaporano gli intermediari mercantili, si dissolvono i critici letterari e i professori. Ma scompaiono anche i dirigenti d’azienda, i giornalisti, le guide turistiche e i preti. “Su e-bay puoi vendere la bici, l’auto, la moglie, su twitter le news girano da sole, e tutto questo è in sé liberatorio”. A dire il vero, tutta questa euforia sembra suscitare perplessità nel pubblico e lasciare di pietra lo stesso oratore, assai freddo nella mimica facciale, nel movimento oculare e nel timbro vocale. Perché ci sia da elettrizzarsi, infatti, non è dato sapere: il messaggio non passa per merito di un’argomentazione falsificabile o condivisibile ma grazie a un mix di sapienza oracolare e di brutale ricatto. Poiché tutti siamo nella metafisica della Grande Mutazione, non possiamo opporci a ciò che ci arriva addosso, che ci pervade, che è ignoto e che chiamiamo barbarie: se vogliamo vivere, dobbiamo sforzarci di considerarlo magnifico.
Una vignetta del grande Altan (ecco un vero “divulgatore”!) riassume e svuota esemplarmente la pochezza di questo assioma baricchiano: “E’ venuta l’ora di rivalutare la merda!” – dice un personaggio ‘rampante’ – “E quando mai è stata svalutata?” risponde Cipputi.
Tutto ciò che è accaduto di recente nel mondo ha cittadinanza per Baricco solo se assunto in questo schema euforico: la “primavera” araba, a esempio, è solo un riflesso dell’immaterialità di Google, della sua velocità e immediatezza. La pesantezza dei morti, il rumore degli spari, l’angoscia della disoccupazione, la tirannia del monetarismo, la democrazia umiliata a intrattenimento…Di tutto questo non c’è traccia alcuna nella meraviglia barbarica e nella elettrizzante fine delle mediazioni postulate da Baricco. Non c’è nemmeno, ovviamente, un briciolo di autocoscienza del proprio ruolo nel campo culturale, del fatto che chi parla è legittimato a farlo come mediatore, dunque come specie in estinzione, e che la stessa festa in cui ha preso la parola voleva essere un atto di mediazione culturale. Quanta mediazione nell’immediatezza! Quanta ideologia nella morte delle ideologie! “E sotto quella cera, senti il teschio” (Franco Fortini). L’argomentazione laica e democratica non doveva essere un connubio di retorica e prova? In Habermas, in Perelman in Ginzburg e già in Keynes? Qui, invece, e proprio come nei discorsi di Berlusconi, (un altro “grande comunicatore”!), si assiste al dominio assoluto della fiction, delle sequenze di asserzioni non disposte a essere smentite, del discorso inteso come puro spettacolo.
È legittimo a questo punto chiedersi: tutto ciò è di destra o di sinistra? Diciamo innanzitutto che è un imbroglio: è assenza di civile argomentazione, lamentata già da Leopardi. Ben esemplifica inoltre il penoso attardarsi di una parte della cultura italiana nelle mitologie del postmodernismo: un po’ come negli anni Settanta alcuni intellettuali erano in attesa di una “elettrizzante” rivoluzione maoista nel momento stesso in cui la Fiat riarticolava il lavoro e nella società prevalevano i ceti medi. Di certo, c’è solo il fatto che, nello spazio tragico spalancato davanti a noi, non c’è alcun futuro per Alessandro Baricco.
[Immagine: Alessandro Baricco, Lezione 21 (2008)].
Un articolo del tutto condivisibile.
secondo me il discorso non è SE chi critica una penna di Repubblica sia di destra, ma il discorso è quanto di destra sia Repubblica… se lo sono imparati pure i muri a chi si rivolge e chi rappresenta Repubblica; dedicare scetticismo alla sua linea editoriale, negli anni sempre più autoreferenziale e revanscista e “illuminata”, credo sia una buona maniera di contrastare (o almeno difendersi) (da) una delle retoriche più insopportabili del populismo di sinistra. Altro che essere di destra!
credo che solo in un paese di m… eritevoli costumi come il nostro si possano fare baroni delle lettere scrittori così scarsi come Baricco… che poi siano riusciti (gli industriali della rotativa) a farne addirittura un “pensatore” autorevole e di punta… non so davvero cosa non si può fare con un po’ di editoria in mano
Condivido del tutto l’analisi su Baricco. E sottoscrivo la denuncia della “semicultura” di cui si ammanta la sinistra, la venerazione per certi personaggi intollerabili (Battiato, Celentano, Ligabue, e anche Baricco). Fazio e Saviano sono un po’ diversi. Su Fazio, va detto che non assume la posa dell’intellettuale o dello scrittore: fa il presentatore intelligente e furbo, con il peccato del buonismo, siamo d’accordo, ma intanto fa una televisione migliore di molti altri (anche se l’ultima cosa sulle parole era mediocre, sfociava solo nel buonismo). Su Saviano mi sembrano del tutto pertinenti le analisi di Pellini nel suo ultimo intervento sugli intellettuali. La sua funzione è limitata, ma secondo me non criticabile, nei suoi limiti: informazione e denuncia sul terreno della mafia e della corruzione, va bene.
Ma ha davvero senso scrivere un intervento su Baricco??
Non conosco nessuno che lo abbia mai preso sul serio come scrittore, figuriamoci poi come interprete del moderno.
D’accordo, è uno che vende… Ma dedichereste mai un intervento a Moccia? No, evidentemente. Ebbene, per Baricco è lo stesso.
Condivisibilissimo.
Sull’euforia baricchesca per la finzionalità pseudo-postmoderna e la completa obliterazione del dramma storico è istruttivo rileggere quanto scrisse il giorno dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Lo lessi allora e mi sgomentò: giocava a moltiplicare i piani del vero e del falso per dire che quanto accadeva sembrava falso ma era vero e che a noi abituati ormai al falso anche quel vero sembrava falso (sì, ci si perde, lo so). E si parlava, allora, di 20.000 morti.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/09/12/quando-la-storia-si-presenta-come-un.html
beh non è che zizek abbia detto cose troppo diverse in alcuni punti di “benvenuti nel deserto del reale”… e quello è un gran bel libro
Ogni ammicco
di Baricco
lo fa più barbaro e ricco.
Una mano
di Saviano?
Fa più bianco il sepolcro italiano.
@mauro piras
“Su Saviano mi sembrano del tutto pertinenti le analisi di Pellini nel suo ultimo intervento sugli intellettuali. La sua funzione è limitata, ma secondo me non criticabile, nei suoi limiti: informazione e denuncia sul terreno della mafia e della corruzione, va bene”
So che te ne farai presto una ragione, ma non sono affatto d’accordo con quanto scrivi. Saviano come artista val davvero poco e niente (e questo ormai, dopo tutte le copie che ha venduto, il consorzio letterario ci permette di dirlo senza essere linciati) ma come mafiologo, o politologo o giornalista di cronaca, fa acqua da tutte le parti, e vale, credo io, ancor meno del Saviano romanziere. Negli ultimi mesi ha collezionato una figuraccia dopo l’altra, per via che si muove sempre su fonti incerte, le sue posizioni (specie ed anche sulla mafia) sono casco-e-non-casco perché non portano la discussione avanti di un pollice rispetto alla semplificata e semplicistica percezione comune sulla malavita e le organizzazioni mafiose.
Non ho mai visto né sentito Saviano dimostrare una briciola di umanità, di comprensione per chi ha commesso un reato, per chi è in carcere; delle volte è arrivato a scatenare la “macchina del fango” prima dei processi (come con Cosentino per es), processi che poi hanno addirittura scagionato (caso Magliocca per esempio) gli imputati… ma non sono i soli casi.
A me pare che Saviano sia abbastanza disorientato, gli mancano delle solide basi e si vede come il giorno e la notte che si orienta colle nuvole. Basti pensare a quando, impunemente, se l’è pigliata con Leonardo Sciascia, durante il tanto amato Vieni via con me… e mi riferisco al caso dei Professionisti dell’antimafia.
L’articolo parla della tv che spettacolarizza, che denuda le cosce, una tv a cui si dovrebbe sempre preferire quella che, seppur buonista, fanno Saviano e Fazio.
Vi chiedo se quando nell’ultimo programma Quello che (non) ho, Saviano ha narrato la strage di Beslan, si è trattato di una mezzora di tv dolore o di tv d’inchiesta. Vi chiedo se in quella mezzora Saviano (che è arrivato a raccontare perfino di una ragazzina che offriva ad un altro bambino, ostaggio come lei, una ciotolina di pipì perché non c’era l’acqua) ha spettacolarizzato una strage come quella di Beslan, oppure ha scavato come un bravo giornalista dietro a quella strage per capire alcuni dei momenti più importanti dalla nascita della Federazione Russa.
La strage di Beslan è stato un momento centrale in Russia, visto che ha permesso a Putin delle manovre, sul versante federale e quello politico, e sul versante ceceno, che rientrerebbe in un discorso più ampio sul terrorismo e le logiche interne di un paese cruciale come la Russia.
Beslan si poteva raccontare in tanti modi, e a Saviano e Fazio nessuno dice che dovevano raccontarlo come l’avrei raccontato io, ma non mi si può dire che quel racconto non sia una modalità, tutta conforme all’attuale modello televisivo, di fare comunicazione del dolore, del sensazionalismo e del pietismo.
amen
leggo questo blog da pochi giorni
e vi ringrazio tutti di chiamarvi con un nome e un cognome vero,
non con una identità nascosta come fossimo tutti
rintracciabili da chissà quale entità divina
scoperti chissà poi di cosa.
solo questo vi rende tutti molto simpatici
e la mia sim pathia riguarda anche quanto scritto
su l’ a pathico di baricco.
devo dire che la cosa giusta l’ha scritta
Gabriele Pepe,
a costo di passare per i soliti iper critici di sinistra.
io faccio l’operaio otto ore al giorno sotto il sole,
volete togliermi anche un po’ di
sana spocchiosa misura delle cose barbare?
Grazie, Francesco Gavilli.
Ma il divertimento è anche in questo: non mi chiamo davvero Gabriele Pepe (nome che ho scelto in omaggio al grande patriota) e non sono di sinistra…
Baricco non sono mai riuscita a leggerlo: grondava autocompiacimento ad ogni riga.
L’avevo un pò apprezzato come intrattenitore televisivo, anche se, pure lì, eccedeva in virtuosismi autoreferenziali( guardate come sono bravo e affascinante) : mi sono accorta che l’onestà dell’intenzione è la prima cosa che si percepisce appena si legge qualsiasi pagina e nelle pagine di Baricco non l’ho mai sentita, in quelle di Saviano sì: anche se non è sufficiente , da sola, a dare vita ad una buon libro.
(Chi non ha ancora inteso l’utilità di Saviano forse vive in uno sgabuzzino delle scope o ha pochissima memoria).
Mi pare che la discussione si vada polarizzando su un confronto tra Baricco e Saviano. E in particolare riveli una interessante differenza fra chi (più o meno implicitamente) li accosta per liquidarli (Abate, Seligneri) e chi preferisce distinguerli (Mauro Piras, Nives, dm). Il mio scritto in effetti, -pur incentrato sull’intervento di Baricco a Bologna – ha autorizzato questo confronto, prendendo le mosse anche da alcuni affondi polemici sul “Foglio” contro Saviano-Fazio (a esempio “Dizionario dei luoghi comuni 2.0” di M. Mancuso uscito il 5 maggio 2012).
Io sarei per comparare pacatamente, individuando costanti e varianti. “Gomorra” credo non sia un capolavoro ma che sia stato un libro importante, di denuncia, reattivo rispetto al periodo in cui è stato scritto, un periodo di incancrenimento culturale e morale. In quell’epoca l’autore era un intellettuale precario e poi perseguitato. In seguito è subentrato il Saviano mediatico e il bestsellerismo. Da un lato, poiché è il medium che fa il contenuto, i “contenuti” veicolati da Saviano si sono inevitabilmente spettacolarizzati, con impoverimento del loro quoziente argomentativo e di verità. Dall’altro, però, io credo, nel quadro della televisione-spazzatura di cui si sono nutriti due generazioni di italiani, Fazio e Saviano hanno rappresentato un modo e meno violento e meno totalitario di invadere le coscienze, lasciando salve isole di ragionamento e di indignazione. Comparando poi i “Barbari. Saggio sulla mutazione” a “Gomorra” si apprezzano soprattutto le differenze: sono due libri pressoché opposti. Il secondo presuppone un ritorno alla materialità corporea, alla violenza delle cose, là dove il primo è un inno euforico all’immaterialità, al virtuale osannato usando come una clava Benjamin, non “malinteso” ma direi consapevolmente del tutto stravolto.
SEGNALAZIONE
Sul n. 8 di “Poliscritture” del dic. 2011 è uscito un ottimo saggio di Marco Gaetani:
Der Erzähler refurbirshed. Benjamin revisionato da Baricco
Lo leggete gratis a questo link:
http://www.backupoli.altervista.org/IMG/Polis8_PDF_4_dic_2011.pdf
o gabriele
l’iper critico di sinistra sono io
e d’altronde il mio vero nome
è alfonso maria dellamartina
Di Baricco non me ne frega niente, salvo che è stato uno dei primari testimonial del Repubblica Espresso Style, dopo Eco e prima di Saviano. La letteratura c’entra poco, anche se Eco ha almeno un totale controllo della sua mediocrità letteraria, ciò che ne fa un gigante nei confronti dei suoi nipotini (a partire da Wu Ming). Il punto è: siamo contenti del Repubblica Espresso Style, dei suoi risultati in termini di rappresentazione del paese? Repubblica Espresso è contenta, il portafogli di Carlo De Benedetti è contento, io non sono contento, e, mi auguro, neanche il paese…
Secondo punto, siamo contenti del modo in cui viene rappresentata la cosiddetta cultura nei programmi di Fabio Fazio, a maggior ragione in quelli fatti con Roberto Saviano? Io per esempio trovo più ” colti ” i programmi di Chiambretti – per mancanza di protezione esiliato prima alla 7 poi a Mediasatana -, li trovo più rappresentativi dei bisogni di rinnovamento estetico, etico e politico; così come non mi è sembrato affatto spregevole il debutto televisivo su rai tre di Fabio Volo. In ogni caso ritengo che la tv necessiti di un regolare turn over: non è possibile che uno spazio di espressione sia occupato in esclusiva da uno o l’altro per decenni, perché così facendo lo si sclerotizza limitando la creatività generale (vale anche per il grandissimo Enrico Ghezzi), e si alzano barriere censorie, se non peggio, convincendo chiunque abbia qualcosa da dire a rivolgersi alle strutture di potere per essere via via inserito (mi scuso se la chiusa del paragrafo può essere malamente interpretata).
Sul perbenismo di Fazio va anche detto che i suoi programmi sono sempre più un teatrino dove appaiono sempre gli stessi, dove per 20 strepitosi minuti di intervista a Paolo Poli ti devi sorbire ore e ore di Fiorella Mannoia e Claudio Baglioni e Teo Teocoli che si autocelebra finendo sempre a rievocare gli anni di gioventù con Celentano (che dovrebbe essere un mito della destra populista… perché è tra l’altro quello del chi non lavora non fa l’amore…). Nei programmi perbene di Fazio si fa sì lo special Enzo Jannacci, ma si caccia dal programma lo Jannacci di ora, che è Maurizio Milani (in questo Fazio ha dimostrato anche di essere un pessimo autore televisivo, perché Milani, estraniandosi con il suo tavolinetto portato da casa, contestava il programma dal di dentro, dandogli più equilibrio). Che dire, infine, dello scandaloso cambio di ruolo, da componenti del cast a ospiti del programma, che hanno fatto sia la Littizzetto che Gramellini per pubblicizzare i loro libri?
c’è gente che non ha problemi ad usare contemporaneamente i personaggi di Faulkner o di Conrad e quelli di Walt Disney. Lo scenario è altrove.
Però Baricco nell’esordire dice che il primo terzo del suo libro sarebbe inutile perché molti già saprebbero di cosa parla in virtù delle proprie esperienze, non necessariamente perché l’hanno letto ne “I barbari”.
Questo stravolgimento è di destra o di sinistra?
@ Dfw vs jf: è vero, Baricco a Bologna ha esordito dicendo che il primo terzo del suo libro ora è di dominio pubblico mentre all’uscita era una grande novità. A questo proposito, è vero anche che io non ho riportato le parole “non necessariamente leggendo quel mio libro ma anche dalla realtà”, che si possono appezzare ascoltando la registrazione in VideoRepubblica. Tuttavia penso proprio che da quanto segue (in particolare dalla riproposizione integrale dell’euforia della ‘mutazione’, quel “non necessariamente” possa ragionevolmente – senza stravolgerla – esser interpretata come una vera e propria autoesaltazione, come retorica della modestia in atto, funzionale a quella che a me è parsa totale assenza di modestia e , soprattutto, una mancata occasione per un briciolo di autocritica.
@ zinato
grazie per la risposta. posso essere d’accordo, ma si può anche avere più fiducia, e non credo che baricco non sappia di essere immodesto e allo stesso tempo che la gente certe cose le abbia potute scoprire da sole. non fa autocritica, però a un certo punto dice che gli era sfuggito quel tratto ( se non ricordo male ) per cui i barbari se possono evitare la mediazione lo fanno. ora, io i barbari lo rileggo di tanto in tanto, e il tono generale non mi pare affatto quello di uno che sale in cattedra ma piuttosto come ripete spesso di uno che prova a delimitare il campo. da quello che scrivi pare che baricco sia consapevole di prendere per il culo la gente. magari avrà scritto un mucchio di cazzate, però il suo è stato un bel gesto. ha provato a tenere in piedi un discorso. ha raccontato delle belle storie. perché c’è sempre questo astio nei suoi confronti? poi nel tuo saggio di commento non spieghi praticamente nulla di ciò che avrebbe scritto di sbagliato ma tiri fuori un sacco di nomi e dai per scontate tante, troppe per me, cose. poi certo, lui si compiace, lui parla col suo modo apodittico, ma se è convinto di ciò che dice perché dovrebbe dire altre cose? non dice cosa c’è di elettrizzante? beh, dice che per lui questo è il futuro, e che con il futuro un buon atteggiamento è quello che ha lui. è una stronzata? va bene, discutiamone, discutiamo ciò che dice. perché domandarsi se sia di destra o di sinistra il suo (non)argomentare? dove sta l’imbroglio? perché dirci che non puoi fare a meno di parlare di lui? ma che è questa insofferenza?
Ringrazio Dfw vs Jf perché è la sola voce che, contestando il mio “astio” ed essendosi levata in difesa di Baricco, rilancia davvero il dibattito. Chiede, a ragione, spiegazioni.
Prima di approdare alla narrativa, gli interessi di Baricco sembravano quelli di un brillante musicologo con buona formazione filosofica. Si era laureato nel 1980 a Torino con una tesi sulla teoria estetica di Adorno con Gianni Vattimo. Il suo primo libro, “Il genio in fuga”, è dedicato al teatro musicale di Rossini. E di argomento musicale è anche “L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin”, del 1992. Diventa un personaggio pubblico esordendo nel ’93 in TV come conduttore de “L’amore è un dardo”, una tramissione di Rai3 dedicata alla musica lirica e poi nel ’94 conducendo “Pickwick”, un ciclo di dieci puntate dedicate al piacere della lettura. L’operazione culturale – naturalmente legittima – che soggiace già a queste prime seducenti escursioni mediatiche è stata poi ben sintetizzata da un critico letterario molto bravo e a Baricco non avverso: Mario Barenghi in “Baricco e la nostalgia della modernità”. La radice vitale baricchiana è proprio la “nostalgia” con cui egli guarda ai grandi eventi del Moderno, dimenticati o surclassati dalla condizione postmoderna (l’avvento delle ferrovie, della vita metropolitana, dei passages, delle prime corse automobilistiche, degli areostati e dei biplani). Solo che come antidoto, come esorcismo alternativo, cerca di considerare il presente come un’aurora di un’epoca nuova, mutante, straniante, da day after, da epoca barbarica successiva al crollo di un impero in decadenza. In tal modo nei “Barbari” o in “Barnum. Altre cronache del Grande Show” cerca di riprendere tutte le categorie non gradite a ciò che resta del pensiero critico (un suo omologo, Eco, direbbe agli “apocalittici”) e – da apocalittiche” le rovescia in “meravigliose”. Senza quasi mai nominare nulla del dibattito critico ormai centenario che ci sta alle spalle, alle discussioni accanite già avvenute, al nesso tra passato e presente. Ogni cosa nuova e sconvolgente diventa in lui di necessità “un incubo bellissimo”. Così anche “la fine delle mediazioni”: togliere le mediazioni culturali significa fruire della cultura senza più educatori, insegnanti, professori, critici. Togliere le mediazioni politiche vuol dire fare a meno di organizzazioni, partiti, rappresentanti. Credo (posso sbagliare) che queste due idee (euforia del presente e liquidazione dell’intermediazione politico-culturale) non si possano formulare oggi senza un alto quoziente di disonestà. Cercherò di dirla in modo “oggettivo”: il presente è un campo di forze, in cui le componenti entropiche, distruttive, stritolanti sono non voglio dire dominanti ma quantomeno presenti e “il nuovo che avanza”, in forme di nuovi poteri, nuove acculturazioni, nuovi stili di vita non ne è certo scevro. Se vengono meno i “mediatori” il solo a mediare è il potere economico. L’industria culturale piazza – come già avviene – i propri prodotti sul mercato, stabilisce i canoni, formula un giudizio di valore (che coincide con l’audience) insindacabile: ha diritto di visibilità solo ciò che vende. Analogamente, in campo politico, con apparente “rimozione” della “casta”, a una democrazia partecipativa già agonizzante si sostituisce l’oligarchia mediatica (come è avvenuto in Italia per due decenni). Privarsi di una visione “dialettica” si sarebbe detto un tempo, capace di vedere le antitesi in seno all’unità, per uno che pensa in pubblico, e ha responsabilità pubblica del proprio pensiero, è come suicidarsi in pubblico. Ma – poiché Baricco da intellettuale-mediatore continua a parlarci – il suo feticismo nei confronti di Google, ineso come assenza della mediazione, come elogio della “semplificazione, superficialità, velocità, immediatezza” è assai sospetto: non solo occulta i conflitti del presente ma occulta la stessa posizione di chi parla nel campo culturale: quella di Baricco, un mediatore-intrattenitore, che seduce e che non spiega, e che per sedurre (un po’ come gli alfieri dell’antipolitica) si legittima proclamando inservibili le stesse categorie che adopera. Su questo paradosso si son già fatte le fortune di gente come Berlusconi, Sgarbi e – mi pare – anche di Grillo. In quell’autobus, però, non c’è più posto, neanche in piedi. Ecco la ragione della mia finale liquidazione.
mi pare che ci concentriamo ancora troppo su di lui e sulla sua presuntà onestà. lui crede di aver còlto un tratto di ciò che chiama mutazione e ce lo racconta nel modo che sappiamo. ma leggiamo le conclusioni del suo libro: “non c’è mutazione che non sia governabile. abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremmo diventare. così diventa importante la cura quotidiana, l’attenzione, il vigilare”. ( salto qualche riga ). “credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo”. ( salto ancora ). “perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dei tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo”. tornando alla mediazione, il tratto importante è che per la nuova civiltà non è un valore, che non vuol dire che ne faremo sempre a meno, ma che se possibile, lo facciamo. io contesterei piuttosto che sia un tratto nuovo, o addirittura che sia un tratto antropologico. contesto alla radice il tuo riferimento alla industria culturale che in assenza di mediatori è mediata dal potere economico. questa mi pare una visione proprio fuori dalla realtà. oggi abbiamo molti più lettori e molti più mediatori, dal momento che grazie alla rete abbiamo a disposizione molti più pareri su qualsiasi opera. e molta più possibilità di accedere a qualsiasi opera. se non è elettrizzante questo ditemi cos’altro può esserlo. quello che mi pare fragile e allo stesso tempo piacevole è il suo prendere degli esempi accattivanti e porli come basi, come il momento calcistico. ma non mi pare così grave. seduce e non spiega, d’accordo. ma sta offrendo spunti, seduce perché poi ognuno continui il percorso.
Gentili tutti, io credo che il problema sia il punto di vista. Emanuele Zinato, giustamente, cerca di rivendicare alla letteratura una funzione diversa da quella di una disonesta provocazione, interpretata oggi – nella periferia letteraria cui apparteniamo irreversibilmente – come unica ragione d’essere del fatto letterario, dal momento che letteratura pare esistere solo nel momento in cui qualcuno parla e fa parlare dei libri che scrive (letteratura = marketing), spesso senza rendere conto delle sue fonti, dei suoi riferimenti culturali, della sua Weltanschauung, perché, tanto, a un pubblico narcotizzato dai media non interessa sapere se dietro quella citazione o quello specifico ragionamento vi siano Benjamin, Lyotard, Jameson o Baudrillard (che pure ci sono, eccome). Zinato, se interpreto bene e conoscendolo un poco, ribadisce con convinzione il fatto che la ‘raison d’etre’ della letteratura debba essere la demistificazione delle ideologie che orientano la nostra visione del mondo e la nostra quotidianità (compito che io pure reputo consustanziale allo statuto stesso della letteratura: in caso contrario si scade nell’afasia o nella gratuità del tipo ‘scrivo perché scrivo’ o, appunto, nella mera seduzione retorica). Se non è questo, la letteratura, semplicemente, non esiste o non si distingue dalla scrittura privata di chicchessia, con inevitabili e facili complicazioni epistemiche sul suo statuto: basta scrivere per fare letteratura? Quando un libro è integrabile nel codice del letterario e quando invece no? Cosa stabilisce la letterarietà? Domande, si capisce, radicali per la critica di ogni tempo e luogo e che una certa corriva critica novecentesca ha spesso usato per giustificare (autoassolvendosi) la propria funzione culturale. Baricco, quali che siano i suoi meriti e le sue abilità (si badi bene che sono lungi dal credere che a lui si debba attribuire il ruolo di supremo cancro delle nostre lettere e non entro nella polemica su ‘Repubblica’ che mi riesce un po’ stucchevole…), mi pare più personaggio che scrittore, come del resto molti dei suoi compagni di strada (Veronesi?), più seducente che convincente, e perciò mi sembra un naturale epifenomeno della società nella quale viviamo, ove la mediatizzazione ha bulimicamente ingoiato tutto e i piazzisti, i seduttori, i retori hanno, in ogni campo, sopraffatto i veri scrittori, i veri intellettuali, ormai incapaci – se non a prezzo dell’isolamento che equivale all’autoesclusione – di realizzare un discorso critico autentico sulla realtà nella quale viviamo. E la questione riguarda anche (o soprattutto) coloro che apparentemente sembrano consapevoli del rischio, salvo poi adeguarsi al ‘modus operandi’ della media. Consiglio sempre, a questo proposito, di rileggere il memorabile e definitivo Baudrillard de ‘La società dei consumi’ (1970), per capire quanto difficile sia per chiunque esercitare le proprie abilità critiche nel presente; ciò nondimeno dobbiamo cercare di farlo, tentare, provarci, perché l’alternativa è la sconfitta, l’abdicazione, la fine della critica, la vittoria della quantità sulla qualità, il trionfo del consumo passivo.
@ Giazzon
che la ragion d’essere della letteratura sia demistificare le ideologie è appunto un’ideologia. Così come la vittoria della quantità sulla qualità e il consumo passivo.
@ Dfw vs Jf
E anche dire che ‘demistificare le ideologie è un’ideologia’ è una ideologia, o no? E allora non la si finisce più e si procede ad infinitum. Cioè, quando ci si può fermare? Non nego che vi sia una precisa focalizzazione ideologica quando si dice che la letteratura ha una funzione demistificante e decostruttiva: al contrario, lo assumo proprio come principio positivo e come essenziale strategia culturale. Proprio questo io sto rivendicando. E in Baricco questo aspetto, semplicemente, non esiste. Ciò non toglie che lui pubblichi, molto, ed abbia un vasto pubblico di lettori.
Anche a me pare che sia questione di angolatura del discorso, perché trovo sensate molte delle considerazioni sia di Zinato che di Dfw vs Jf (in ultimo anche quelle di Giazzon). Comunque ricordo che siamo partiti dalla posizione sostanzialmente tollerante e possibilista di Zinato, che diceva sì “questa volta non riesco proprio a tacere”, ma che faceva anche notevoli sforzi per tentare una giustificazione di Baricco e una sua possibile utilità nel sistema della cultura massmediatizzata.
Mi concedo un po’ di cerchiobottismo scemo: probabilmente Baricco un’utilità ce l’ha, come ha un’utilità la critica a Baricco.
La funzione-Baricco postula un certo tipo di lettore preciso: è un lettore di romanzi (anche tanti), disdegna però i best-seller troppo commerciali, perché ha gusti che crede raffinati. Tuttavia mai prenderebbe in mano un libro di poesia o un saggio: appartiene a quelli che credono che un libro sia, per default, sempre un romanzo, una STORIA. Eppure, proprio perché di gusti non triviali, ama sentirsi un lettore intelligente. Ecco che B. gli ammanisce allora romanzi dove l’a capo e certi tratti liricizzanti e apparentemente suggestivi simulano la poesia (a teatro, si chiama birignao), così può credere di capire (meglio: sentire) la poesia, o in cui un non-so-che che aleggia in tutte le pagine sembra promettere grandi rivelazioni esistenziali, così può credere di essere sensibile a questioni filosofiche.
(Non voglio offendere nessuno: da ragazzetto anche io leggevo Baricco e me ne lasciavo affascinare. Poi mi si sono chiariti alcuni punti qualificanti dell’arte. Sto scagliando la prima pietra, ma la primissima su di me).
Di fronte a un lettore del genere, cui sfuggono distinzioni cruciali come quelle fra prosa e poesia, letteratura e saggismo, basta modulare un certo tono perché sembri che si stia facendo cultura, poesia, saggismo: che si sia un intellettuale che pensa criticamente il presente (quanti lettori forti invece di saggi storici preferiscono leggere piuttosto le divulgazioni storiche ad opera di giornalisti?). Si possono allora scrivere romanzi, saggi, tenere conferenze, riscrivere poemi epici. Tutto si confonde e mescola. Ma questa funzione-Baricco è vincente, perché è proprio la quintessenza del nostro omologante Zeitgeist.
Secondo me non bisogna demonizzare Baricco (ma qui mi pare che nessuno sia caduto in questa trappola), perché c’è chi lo ascolta. Bisogna capire bene perché chi lo ascolta lo ascolta e provare, con critiche scevre di fiele, a mostrargli altro, insegnargli a distinguere, educarlo al rigore del pensiero, così da leggere saggi veri, e al procedere analogico della poesia, così da non farsi più sedurre dalle generiche suggestioni della sua copia sbiadita (la sto buttando in pedagogia, ma è una deformazione professionale).
un certo tipo di lettore preciso = un tipo di lettore preciso
@ Lo Vetere
Strano. Ma provare per credere. Se dopo la B sostituiamo le altre lettere con Bersani, Berlusconi etc. (anche loro non vanno demonizzati e anche dei loro fan bisogna capire perché li ascoltano etc) il suo discorso fila lo stesso: andiamo avanti così con “le critiche scevre di fiele” e, quando sarà il momento di “mostrargli altro” etc., ci accorgeremo che questo “altro” non interessa più a nessuno e che forse neppure “noi” sapremo più cos’è… E dopo i Baricco, Bersani, Berlusconi, etc. avremo i multipli nanetti dei nani, che a loro volta parranno giganti…
Ah, se bastasse la pedagogia!
“Mo me lo segno… proprio… cioè ‘na cosa… non vi preoccupate”, Abate. Grazie, come sempre, per i suoi puntuali e ineluttabili (come la morte) insegnamenti.
Possiamo tornare a parlare di quello di cui si parlava?
@ Abate
se posso permettermi, pare che i tuoi commenti precedano sempre la fine del mondo.
quello che mi pare d’aver capito alla fine dell’intervento di baricco è che noi non abbiamo tanto bisogno di portarci nel mondo nuovo Hendel piuttosto che x, ma il metodo che ci consente di comprendere il percorso che va da Hendel a x; perché altrimenti senza la mediazioni ci rimangono tante storie slegate. e ciò che spero non accada è che i lettori di baricco si credano raffinati. i barbari comincia con un racconto ( per me favoloso ) dell’esordio della Nona di beethoven, che oggi è un totem culturale e che all’epoca fu visto ( da un rappresentante della cultura ) come l’emblema dell’assalto dei selvaggi. a me pare che anche questa sia una buona demistificazione.
che poi è già stata segnalata da Zinato in effetti. Baricco è ascoltato anzitutto perché è indiscutibilmente bravo. se non si accetta questo, è inutile stare a farci i conti. bravo, non furbo.
@ Dfw vs Jf
Non so se i miei commenti – ineluttabilmente mortuari per i progressisti giocondi come Lo Vetere – precedono o seguono “la fine del mondo”.
Che poi può essere accolta anche da applausi liberatorii da chi ne trarrà vantaggio…
Uè guagliù! Chest’è ‘a fine ro munno!
Puo’ darsi pure che Baricco, col suo “arrivano i barbari”, stia esorcizzando, appunto, la fine del mondo della sinistra, a cui è approdato (credo) e di cui gode lautamente il plauso, perché è, ovviamente, “bravo”.
Ma sa quanti “bravi” conosco, che da quel mondo si sono separati, considerandolo già finito (almeno dagli anni Settanta del Novecento, diciamo dall’uccisione di Moro, toh..)?
Abate, ma quello che davvero mi pare uno spreco è il suo tono allusivo. la fine del mondo è la fine del mondo. e quando dici “avanti così” fino a che saremo sommersi dalla merda, io avverto lo spreco. non so cosa esorcizzi baricco. io lo leggo, e non solo lui. e non mi interessa né mi pare veritiero teorizzare l’avvento di una mutazione. mi pare invece utile raccontare un bel po’ di cose, e questo fa. parlaci dei tuoi bravi, ma parlaci, non alludere, non sprechiamo tempo a rinfacciarci profezie, a guardare chi è più famoso e stronzate varie. dice: prima il mondo dei libri era un mondo ristretto a pochi privilegiati. lentamente fino a oggi si è allargato questo mondo. è una cosa bella, o no?
@ Dfw vs Jf
“dice: prima il mondo dei libri era un mondo ristretto a pochi privilegiati. lentamente fino a oggi si è allargato questo mondo. è una cosa bella, o no?”
E’ una cosa problematica.
Vedi per cortesia,
cosa penso di quella in poesia
qui sul blog dei “moltinpoesia”:
http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/06/ennio-abate-una-riflessione-per-la.html
Ciao e grazie
E’ in effetti una cosa problematica, non semplicemente bella o brutta: come l’esperienza della modernità. I grandi pensatori del moderno, come Marx o Kierkegaard, Ibsen o Baudelaire, Carlyle o Dostoevskij, erano ad un tempo entusiasti e nemici della vita moderna, hanno saputo coglierne le contraddizioni senza rinunciare – ciascuno a loro modo – al tentativo di superarle. I postmoderni invece sono scivolati verso polarità irrigidite.
Sa qual è la cosa divertente @Abate? Che chi mi conosce di persona mi dà, di solito, dell’ottocentesco, del medievale, quando non del reazionario (ma quest’ultima accusa è un un’ironica esagerazione che viene da parte di coloro cui io stesso, per gioco delle parti, esagerando, do dei “progressisti giocondi”). Sono un po’ anch’io, si parva licet, “entusiasta e nemico” della vita moderna.
Di certo procedere – in sede di discussione, in sede teoretica, come qui, dove in fondo usiamo solo parole – con critiche scevre di fiele (insisto) non può che permettere di ampliare un po’ gli orizzonti e rifiuto di pensare che ciò sia in qualche modo una forma di connivenza con la trivialità, insomma che il mio marginalissimo (nell’economia del reale) argomentare produca quella deriva di cui parla lei. Io non avallo né B. né B. né B. Il piano delle parole e il piano delle cose sono in qualche modo connessi, anche se è difficile dire precisamente in quali, tuttavia non c’è una così diretta consequenzialità fra di essi.
Per portare però un argomento al dibattito e non fare il ping pong fra due, direi che quello che a me personalmente urta di Baricco è proprio che nella sua letteratura quei due piani semplicemente non esistono più, proprio perché lui va sciorinando in pubblico che la postmodernità sia “magnifica”, come dice giustamente Zinato. Può usare le parole come vuole, estetizzando, e senza neanche più quel meraviglioso tanfo di morte (di vita dunque, poiché era tanfo di carne, di organico in putrescenza) che emanava dai precedenti estetismi, perché tanto lo scrittore-seduttore non ha più alcuna responsabilità etica verso il linguaggio e può ricorrere al make-believe della letteratura sganciandolo dalla materialità delle cose. Ecco perché mi sgomentò il suo pezzo-giochetto dopo l’11/9 sulla realtà che sembra finzione e la finzione che sembra realtà: ma ci si può, eticamente, permettere questi ghirigori davanti alla morte? Infatti B. ha cancellato con uno svolazzo di penna il problema centrale del Novecento e della modernità, la frattura tra realtà e linguaggio, quel problema che costringeva Luzi a chiedersi se ormai lo scriba avesse l’arto anchilosato, se la cosa avesse definitivamente sopravanzato la parola: Luzi infatti appartiene alla stessa grande e dialettica e ricca modernità di “Marx o Kierkegaard, Ibsen o Baudelaire, Carlyle o Dostoevskij”.
@ Abate
Io ho seri problemi a confrontarmi con il suo testo, perché mi pare scritto da una persona che crede al soprannaturale o che quantomeno non ritiene importante regolare qualsiasi discordo attraverso i criteri di verità\falsità.
Che fino a ieri dei “pazzi” potevano credere che esistono poesie che non sono poesie ( per non parlare di coloro che credono alla “letteratura” o alla “letterarietà” come una sorta di essenza e non come è ragionevole credere, che sia ogni qualità intrinseca a qualunque opera che abbia le caratteristiche di un testo ), e che per giunta fossero riconosciuti come “autorità” mi lascia perplesso. E, non centra una mazza il postmoderno.
Che si continui a parlare della “crisi della poesia” senza spiegare cosa significa mi lascia perplesso. Da quando sono nato sento parlare del cinema italiano in crisi, solo che almeno lì si parla di numeri, incassi, film prodotti. Per la poesia di che si parla?
Mi rendo conto di essere un poco stronzetto ( però anche lei, diamine, ancora con la “mutazione antropologica” pasoliniana ), comunque il testo l’ho letto. Non tutto. Ma dei tagli qua e là invece? Ci riprovo cmq. Tvb. :-P
@ Tutti
È una cosa problematica? Qual è il problema? Perché a parte che l’esperienza della modernità è un concetto fumoso che va benissimo per scriverci dei bei saggi ( belli e fumosi ), mi riuscite a dire che tipo di problema crea l’allargamento del mondo dei libri? Che non sia l’abbattimento degli alberi, l’uso degli inchiostri, i traduttori mal pagati eccetera.
@ Lo Vetere
C’è un grosso inghippo per i commentatori nella comunicazione sui blog. In genere non ci si conosce che per quello che uno scrive nei botta e risposta. E’ l’immagine che uno si fa è parziale. Nel suo caso ho calcato la mano e me ne scuso. Tenga conto che a volte provoco per stanare e togliermi dei dubbi… Si fa quel che si può, visto che di questi tempi le ragioni per scambi faccia a faccia sono diminuite…Ma le mie affermazioni su di lei o su altro sono correggibili. (Almeno ci spero)
@ Dfw vs Jf
Il testo che le ho proposto non spiegava la “crisi della poesia”, la presuppone ( vuol dire che ne ho parlato o mi aggancio ad altri che ne hanno parlato). Se oltre ad essere “un po’ stronzetto”, leggerà con più attenzione e vorrà passare a una discussione con un presunto visionario, possiamo anche scriverci, senza annoiare i visitatori di LPLC.
Il recapito è quello del blog: moltinpoesia@gmail.com
@ Abate. Chiaro, ci si fa un’idea dell’altro da ciò che ne filtra, qui solo le parole. Nessun problema, anzi, almeno posso dire a chi mi dà del reazionario che altrove risulto persin progressista!
@Dfw vs Jf. Eh, temo che l’allargamento del bacino dei lettori, che mi guardo bene dal definire solo e soltanto una deriva o un imbarbarimento, produca effetti giganteschi, che vanno tutti pensati e interpretati, mica solo l’aumento del disboscamento!
Penso a quando Eco ha detto che la tv è stata un mezzo di innalzamento del livello culturale delle masse, ma che ha appiattito la cultura delle élites. Il problema è sempre questo: che oggi più persone sappiano leggere e scrivere mi sembra sia un bene; tuttavia è anche vero che chi cerca nella babele qualcosa che valga la pena leggere, che non produca solo l’effetto di un anche buono e gradevole entertainment, fa fatica a trovarlo. Ciò, nelle nostre limitate 24 ore, comporta la necessità di perdere del tempo a prender visione di ciò di cui, a posteriori, diremo che non valeva la pena prender visione. E non perché oggi non ci siano buoni poeti e scrittori, ma per l’ovvia ragione che la loro voce è sovrastata dal rumore di fondo.
Questo E’ un problema.
@ Abate
ci penso e semmai scriverò
@ Lo Vetere
è un problema come lo è il fatto che i telefonisti delle compagnie telefoniche, del gas, e dell’elettricità ci provocano l’ansia di dover scegliere l’offerta migliore. ma io cambierei la prospettiva: l’idea che esista qualcosa di specifico che vale la pena di leggere appartiene a un’epoca passata, quella del soprannaturale. qualsiasi libro potenzialmente vale la pena di essere letto, e il suo potenziale si trasforma solo a lettura avvenuta. la maggiore offerta comporta solo che ci vuole più tempo per leggere. così come si allarga il bacino delle persone che non scriveranno opere notevoli, si può allargare il bacino di coloro che invece ne scriveranno di notevoli. può capitare di compiere percorsi più o meno fortunati, per questo esiste il passaparola, la critica, i blog, la pubblicità. facciamo un gioco: chi passa di qua deve elencare gli scrittori che gli hanno regalato bei momenti.
Ottimo articolo e ottime osservazioni. Coincide perfettamente con quello che ho sempre pensato: Baricco non è nient’altro che un enorme bleuf…!! Una sorta di impostore intellettuale che mente a tutti compreso se stesso. et
L’articolo è ovviamente condivisibile, al netto di una certa acredine che non lascia intravedere nulla di buono.
Io personalmente non so se Baricco abbia copiato, plagiato, rimescolato Benjamin nei Barbari. So però che è un saggio straordinariamente veloce da leggere e, perché no, facile. Lo può leggere chiunque: c’è del male in questo? Io credo di no.
Prendete anche l’ultima operazione editoriale, quella sui 50 libri più belli che ha letto negli ultimi dieci anni. Si legge in un amen, e fa venire una voglia incredibile di leggere tutti quei 50 libri da lui consigliati. Può dirsi un male una simile conseguenza?
Non discuto l’inefficacia, se vogliamo la supponenza (che, per quanto oggettivamente riconosca possa trasparire, secondo me non c’è, io non la sento: Baricco ha detto più volte che dei suoi libri non resterà traccia e che di gente molto più brava di lui ce n’è, eccome), dicevo, inefficacia supponenza e inadeguatezza dell’arte scrittoria di Baricco. Ma anche qui c’è un Ma. Intanto va riconosciuto che, se nelle opere non dichiaratamente fiction scriva da Dio, capita anche che nei romanzi scriva qualche paragrafo da Dio. Vedi le prime 30 pagine di Questa storia. Ed è il narratore più originale (riuscito, non riuscito, non importa) italiano degli ultimi vent’anni dopo Aldo Busi e pochi altri. L’unico che non abbia tentato di copiare gli exempla americani (come per esempio Ammaniti), e credo gli vada dato atto di questo.
Non sono per niente d’accordo, e scusate se mi ripeto, sulla sua bontà divulgativa: ragazzi, Baricco se volesse potrebbe guadagnare milioni pubblicizzando carta igienica: invece pubblicizza grandissime opere letterarie e saggistiche. Non è un buon divulgatore: è il miglior divulgatore che potessimo sperare di avere in Italia. Se c’è qualcosa da segnalare, lui la segnala. Ho letto centinaia di articoli et similia dove l’autore invitava a leggere Benjamin, e mai una volta che mi sia venuta voglia. Con Baricco succede, per quanto, ripeto e chiudo, non lo ritenga un eccellente narratore (perché non lo è). Non va idolatrato, ma neppure – tantomeno – osteggiato e bollato da Maligno. Se grazie a lui tanti leggeranno la Trilogia della Kristoff, per dire, non dovremmo esserne contenti? Almeno di queste piccole cose?
@Luca L.
Grazie di questo commento. Sono assolutamente d’accordo.
@ Luca L.
Proviamo ad accostare l’etica della recensione con cui Cases fondò l’Indice o i brevi aforismi e saggi di Berardinelli e Bellocchio pubblicati su “Diario” alla saggistica “divulgativa” di Baricco. Analizziamo serenamente – senza acredine- gli stile e le forme, le reciproche – opposte – posture retoriche. Da una parte abbiamo un pensiero critico in movimento, che rigetta l’oscurità e non disdegna l’umorismo, ma che si propone di risvegliare i cervelli. Mi passi la metafora gastronomica: da una parte abbiao una buona cucina casereccia, con sapori ben delineati conditi da un vino non edulcorato. Dall’altro, è egemone la “divulgazione” gustativa del McDonalds. Verrebbe da dire col vecchio Croce: “Il rimprovero che, secondo l’antico aneddoto greco, le Muse fecero al filosofo che voleva “divulgarle” apparendo a lui in sogno in un postribolo e accusandolo di avervele lui collocate, quando si era proposto di divulgarle, serba il suo intransigente significato ammonitivo”. Se Baricco è “il miglior divulgatore che potessimo sperare di avere in Italia”, forse è anche perché negli ultimi 20 anni – gli stessi in cui abbiamo offerto la gola a un altro B. – noi italiani non brilliamo particolarmente nel campo della “speranza concreta”.
Egregio Zinato, in questa Italia figlia del Berlusconismo Baricco è, senza dubbio, il miglior divulgatore che potessimo avere. Se divulga bellezza, sia essa incarnata dal Faulkner o dalla biografia di Agassi, per me è sempre da medaglia d’oro. Non si arriva al Croce senza step intermedi. Baricco, se non osteggiato, può essere quello step.
Il problema posto da Luca L. è reale e lo prendo sul serio, in quanto insegnante, dunque persona che deve porsi sempre il problema di come “divulgare”. Nonostante ciò, a scanso di equivoci, confermo che la penso come Zinato.
Già a giugno dicevo che Baricco bisogna imparare a superarlo. Se si arriva, come dice Luca, a Croce, grazie a Baricco, ben venga. Però questo è molto diverso dal definirlo il miglior divulgatore che l’Italia abbia ed è anche da dimostrare che questo sia l’effetto che egli produce. Per una ragione: che Baricco è ruffiano e molti si lasciano arruffianare, fermandosi lì.
Capisco però che c’è chi dedica una vita intera a leggere letteratura e riflettere criticamente su di essa, mentre c’è chi legge solo nel tempo libero: quest’ultimo avrà il tempo di “superare” Baricco? Perché il problema è questo: si può anche parlarne male, ma magari solo per snobismo. L’obiettivo invece è superarlo proprio nel senso di prenderlo in mano e non trovarci ciccia. Aver bisogno d’altro. I gusti dovrebbero maturare.
Detto ciò, la metafora di Zinato sul buon cibo casereccio e il cibo di McDonald mi pare azzeccatissima: tutti possiamo facilmente constatare come i palati abituati all’hamgurger McDonald, siano incapaci di distinguere la differenza di sapore che passa tra un bel brasato e una cotoletta mal impanata e cotta in olio di girasole strarifritto. Per questa via si può arrivare a Croce (o al brasato) o, piuttosto, ci si allontana di un bel po’?
Io credo che il problema non sia tanto superare Baricco, ma in direzione opposta. Se uno si ferma a Baricco per me va già bene, nel senso: per quanto ruffiano, ogni tanto propone anche dei contenuti, e ben venga se qualcuno coglie gli inviti.
Ma la metafora col cibo la ribalterei: per me Baricco (il “romanziere”) è un ristorante a 5 stelle, con porzioni piccole, accostamenti strani che se non apprezzi il problema è tuo, e prezzi esorbitanti. Crea artificialmente un divario tra il lettore succube dei suoi corsivi, gli inficia invidia penis, senso di inferiorità. Baricco ti fa vedere un mondo lussuoso, con le tovaglie stirate piene di pizzi e merletti dove tutti bevono Krug, e possono guardare alla violenza che c’è lì sotto passandosi uno stuzzicadenti sugli ultimi rimasugli di una festa infinita.
Rispetto a Baricco bisogna capire che è molto più buona la semplicità, figlia di secoli di tentativi, della multiforme cucina casalinga. Quando Baricco scrive cose “serie”, è come se per un attimo scendesse dallo scranno e si mettesse a nudo per quelle che sono le sue passioni sincere.
Ora siamo sinceri: avete letto l’ultimissimo libricino uscito con Repubblica (che io non leggo e di cui osteggio la nomenklatura)? E’ clamorosamente leggibile, non so se mi spiego. E io di tutti quei libri che lui consiglia, da Erodoto a Ian McEwan, non ne perderò neanche uno. Perché ha saputo coglierne la grandezza (immagino) e la particolarità riproponendola sotto una veste luccicante, invitante come un elettrodomestico. Se in tanti ci cascheranno, be’, non mi sento di poter dire che la trappola artificiosa di Baricco sia troppo da condannare.
Solo questo dico: separiamo il Baricco romanziere dal divulgatore. Rispetto al primo bisogna tornare indietro, rispetto al secondo anche, ma con un po’ più di attenzione e cautela. Io fossi un docente I barbari lo farei leggere ai ragazzi, ma poi imbastirei delle discussioni e tenterei di indirizzarli verso una sempre crescente complessità. Pensate a quante persone una volta rimanevano fuori dal solo sentir nominare uno come Benjamin, e a quante oggi invece, per pura aderenza al proprio ruolo di Fan, sono state addirittura invitate a leggere Benjamin. Io la trovo una cosa bellissima, che certamente, una volta agguantata, va percorsa a ritroso verso la complessità che abbiamo smarrito.
cit. “Così anche “la fine delle mediazioni”: togliere le mediazioni culturali significa fruire della cultura senza più educatori, insegnanti, professori, critici. Togliere le mediazioni politiche vuol dire fare a meno di organizzazioni, partiti, rappresentanti. […] Cercherò di dirla in modo “oggettivo”: il presente è un campo di forze, in cui le componenti entropiche, distruttive, stritolanti sono non voglio dire dominanti ma quantomeno presenti e “il nuovo che avanza”, in forme di nuovi poteri, nuove acculturazioni, nuovi stili di vita non ne è certo scevro. Se vengono meno i “mediatori” il solo a mediare è il potere economico. L’industria culturale piazza – come già avviene – i propri prodotti sul mercato, stabilisce i canoni, formula un giudizio di valore (che coincide con l’audience) insindacabile: ha diritto di visibilità solo ciò che vende.
Zinato, io non capisco perché lei consideri i “mediatori” estranei al potere economico. O meglio lo capisco se accetto una certa interpretazione di “potere economico” e di “industria culturale”. Ma se intendo queste in senso generale, anche il mediatore è espressione di un potere economico e in particolare del potere economico che considera se stesso legittimo a priori.
La fine del mondo è che il mondo non finisce mai.
Lo diceva Delfini, che di disastri se ne intendeva parecchio.
@amitraua Grazie intanto di aver tolto dalla polvere dell’oblio il mio pezzo su Baricco, a cui sono affezionato, nonostante possa contenere qualche (“sano”?) estremismo o semplificazione.
Certo che i “mediatori” non sono neutrali o innocenti rispetto ai sistemi egemonici. Ma – nella storia politica e culturale dell’occidente – hanno mantenuto al contempo vivi preziosi margini di contraddizione, fra ubbidienza al principe e trasgressione. Non penso solo a Francesco d’Assisi rispetto all’ordine della Chiesa, a Tasso alla corte Ferrarese, a Lukacs o Adorno rispetto alla Terza internazionale: penso al lavoro quotidiano dei migliori fra i nostri insegnanti di scuola ( e talvolta d’università) che fra valutazione, crediti e debiti, burocrazia pedagogista e ruoli alienati, “mediano” fra testualità del passato e orizzonte d’attesa del presente ridando un senso ad alcune scritture (e alla vita). Sono “mandarini” del potere o intellettuali “di base” e spesso precari, che – mediando – tengono in vita schegge di “libero pensiero”?
Non condivido l’articolo, nelle argomentazioni e nel tono.
Il saggio di Baricco non può essere criticato per non essere sufficientemente “accademico” e “scientifico”. Tra l’altro, non c’è in Baricco nessuna volontà di essere pari ad Adorno o Benjamin o persino Croce (che poi non sono certo il bene assoluto, come tanti ancora credono). Benjamin, poi, viene ampiamente citato da Baricco già nelle prime pagine, quindi cade in toto l’accusa di plagio e/o rimasticatura.
Lo stile comunicativo, e anche le argomentazioni, di Baricco hanno, invece, una parentela con la linea che parte da certa avanguardia sovversiva e spregiudicata del XX secolo e, attraverso McLuhan e la scuola di Toronto, giunge a pensatori eretici come Abruzzese, Maffesoli e altri. Cosa che appare evidente anche ad una prima frettolosa lettura e viene confermata ampiamente da numerosi riferimenti presenti nel saggio.
Sono pagine di sintesi, non di analisi. Saggi che partono e restano nel quotidiano, non nelle aule universitarie. Sostanza, non formalismi. Vita, non accademia.
In questo senso, dire “divulgativo” è fare un bel complimento, non un’offesa.
In sintesi, criticare il valore divulgativo del saggio di Baricco appare davvero come operazione reazionaria, di rabbiosa difesa dello status quo. Operazione, questa sì, che apre la strada a populismi e autoritarismi otto/novecenteschi. Velleitari, per fortuna. E dobbiamo ringraziare i nuovi barbari, anche di questo.
Dal “Corriere” di oggi (a dimostrazione di come le parole diventino cose):
” non mi stupisce che proprio l’establishment italiano in questi giorni si sia espresso più o meno implicitamente contro questo passaggio. Considerano Renzi come un barbaro».
Un barbaro?
«Il termine è forte, ma calzante: un barbaro che rompe i rituali e rappresenta un rischio per la conservazione dello statu quo. Come se l’Italia sonnolente, abituata a lucrare sulle posizioni di rendita economica, sociale e culturale, si trovasse improvvisamente e radicalmente messa in pericolo».
@ Zinato
Sarebbe forse più corretto dire che i “barbari” ormai siano ben distribuiti in tutti gli schieramenti ed esprimono di conseguenza leader più o meno “barbarici”. E gli intellettuali (monaci medievali?) o stanno a guardare o “s’imbarbariscono” pur essi.
Ma più corretto ancora sarebbe parlare di lobby che si fregiano ancora dell’etichetta di partiti (ovviamente democratici) o addirittura di Stato (ovviamente democratico).
Verrà mai più un’epoca post-barbarica? O i nostri figli se la troveranno iper-barbarica?
@ Zinato
“Saggi che partono e restano nel quotidiano, non nelle aule universitarie. Sostanza, non formalismi. Vita, non accademia.”
La retorica della Sostanza : Forma = Vita : Accademia è più reazionaria della retrograda e polverosa avversione a Baricco, che avrebbe meritato (forse non più ora, non vale più la pena) qualcuno che lo decostruisse etsi deus daretur, cioè prendendolo sul serio almeno una volta nella sua vita.
C’è accademia e accademia, come c’è vita e vita. Che poi il Grande Scrittore, il più convinto e consapevole assertore del dominio della Forma sulla Sostanza-Vita – tanto da imbastirvi sopra non solo il nocciolo ideologico e il regime formale di suoi romanzi (si legga la conclusione di Emmaus, pregevole per sopraggiunta autocoscienza), ma una pretestuosissima critica della civiltà, se non addirittura una filosofia della storia di terza o quarta mano – che poi Baricco riesca a farsi leggere come partigiano dell’immediato e dell’esperienza contro la mediazione e l’astrazione, scrittore hard-boiled che viene dalla strada citandoci Benjamin come un terrorista che minacci di far saltare in aria la cittadella del sapere con una bomba da lui stesso disinnescata, è solo l’ennesima dimostrazione della sua astuzia – o della nostra inermità intellettuale. Zinato ha ragione, comunque: B. sta invecchiando inesorabilmente e rischia di perdere rappresentatività, a furia di replicarsi a vuoto un giorno ci risulterà perfino simpatico.
era @ Saccoccio, perdonino la svista.
La dichiarazione è di Dario Nardella, già vicesindaco di Firenze e fedelissimo renziano, al “Corriere” del 19 febbraio, e mostra i segni dell’avvenuto trapianto terminologico. L’equazione – di origine baricchiana- conseguente al lemma “barbaro” usato come sinonimo di “euforico mutante”, è più o meno la seguente: come la cultura asequenziale e reticolare del web è il veicolo barbarico che rottama in nome del fai da te la lugubre casta dei mediatori tradizionali di cultura, così è Matteo Renzi il gioioso “barbaro” che rottamerà l’intero Novecento politico italiano.