1.
Lo schema più diffuso con cui tuttora si interpreta la realtà sociale fa perno sull’opposizione tra arretratezza e modernità, e l’obiettivo apparentemente condiviso, la meta a cui giungere, è la modernizzazione (in ogni campo della vita). La vicenda storica dell’Occidente, e poi del mondo intero, è così rinserrata in un percorso obbligato e ineluttabile che, sia pure a costo di prezzi umani molto alti, produce come risultato il Progresso, o, almeno, l’agognata modernizzazione. Attorno a questo schema si sono organizzate, e hanno combattuto tra di loro, le varie ideologie politiche otto-novecentesche, accomunate dall’opzione per il massimo sviluppo possibile della Tecnica, motore della storia.
Da qualche tempo le cose sono cambiate. Il grande racconto, che semplifica e sterilizza il nostro rapporto con il passato e svuota il futuro di ogni effettiva novità, sta perdendo colpi. La marcia in avanti, rispetto a cui non si danno alternative, non è più così sicura, anzi aumentano le minacce e paure di regressione. Accade che quel che doveva essere superato da tempo riappaia, riemerga, o almeno torni ad essere visibile, e, per alcuni, indispensabile: è questo il caso dell’agricoltura contadina.
Un fenomeno che andrebbe indagato secondo molteplici prospettive, e tenendo conto della varietà dei contesti, senza eccedere in sopravvalutazioni o minimizzazioni. Del resto, questa seconda opzione sarebbe in linea con lo schema dominante, reso solo un po’ meno meccanico e unilineare, ma finirebbe con il banalizzare o nascondere una realtà che merita di essere indagata e valutata tanto nel suo significato intrinseco quanto come parte di un continente di fatti e problemi che la politica, esattamente come la società, non riesce a mettere a fuoco.
Non è passato troppo tempo da quando in Italia un referendum popolare ha abolito il Ministero dell’Agricoltura – con la necessità di cambiargli nome – nella convinzione che l’agricoltura, in una società ipermoderna, proiettata sulle nuove tecnologie, fosse ormai superata, al più un reparto dell’industria governato dalla finanza e stimolato dalla tecno-scienza, cosa per altro in gran parte vera. Il che rende fastidioso, se non enigmatico, agli occhi di chi ha in mano il governo dell’esistente, il persistere di sacche di resistenza di cui i contadini costituiscono l’idealtipo perfetto, incarnando alla perfezione, grazie ad una secolare, anzi millenaria, stratificazione di stigmatizzazioni negative, la famigerata sindrome “nimby”.
Lo stupore di fronte alla resistenza contadina, per non dire della conversione ideale o anche pratica di molti cittadini all’agricoltura, ha in primo luogo una motivazione storica. È la reazione istintiva di un modo di pensare forgiato nel corso del processo di industrializzazione, analizzato da Marx e consolidato dal marxismo, così come sull’altro fronte dal capitalismo liberale. Anche le forze intermedie, anche se in teoria filo-contadine, hanno condiviso il medesimo modello concettuale, imperniato sulla scomparsa dei contadini, propugnandone l’eutanasia invece che l’eliminazione con metodi brutali: i contadini diventando agricoltori moderni e imprenditori di successo avrebbero realizzato da sé la grande trasformazione.
Non è difficile trovare riscontri empirici a questo modello nella geografia storica della contemporaneità; anzi, in molti luoghi si tratta di processi pienamente in atto, anche se lo sradicamento delle popolazioni e la desertificazione di interi territori rurali sono sempre più affidati al funzionamento normale dell’economia invece che alle espropriazioni e collettivizzazioni di natura politica. Se la scomparsa dei contadini è il portato di processi impersonali e rappresenta il prerequisito doloroso ma necessario per l’impianto di aziende razionali ed efficienti, aggiornate tecnologicamente, allora le pratiche dell’agrobusiness possono essere accettate anche dalle opinioni pubbliche più avvertite e presentate come lo scotto necessario ai fini dell’ennesima “rivoluzione verde”, in grado di risolvere alla radice la questione della fame nel mondo.
Tutto ciò purché i reazionari antimoderni, fautori dell’arretratezza contadina, non si oppongano al pieno dispiegarsi delle forze produttive. In tal modo, secondo un modello ben collaudato, le popolazioni contadine del mondo, principali vittime della fame, possono essere indicate come oggettivamente colpevoli della tragedia che le colpisce. Esse debbono semplicemente togliersi di mezzo, cosa che cercano di fare, innescando però psicodrammi presso i popoli alla testa del progresso.
E’ vero che il modello standard, egemonico, ancora massicciamente condiviso, entra in confusione di fronte alle urgenze e rischi del presente, finendo con il rivelarsi un ostacolo insormontabile per capire e agire. Ciò nondimeno dobbiamo essere consapevoli della sua forza e radicamento.
Il caso italiano è da questo punto di vista esemplare: un paese contadino si modernizza nel giro di un decennio. E’ un miracolo e un trauma mai veramente metabolizzati che, a qualche distanza dai fatti, Pasolini cerca di mettere a fuoco dicendo che con il “miracolo economico” si era verificata una trasformazione antropologica degli italiani. Pasolini, non unico ma con forza del tutto particolare, attira l’attenzione sulla fine della civiltà contadina ma proprio questo lato del suo discorso risulta inaccettabile, suscita un rigetto quasi unanime, e viene bollato di estetismo e passatismo. Non si voleva letteralmente vedere cosa stava succedendo, considerandolo acriticamente utile, necessario, inevitabile. Una frattura epocale dalle dirompenti conseguenze sociali e culturali venne banalizzata attraverso l’egemonia del linguaggio televisivo e pubblicitario. La fuoriuscita dalla miseria trova la sua celebrazione nei riti collettivi della nascente religione dei consumi, che incentiva la fuga dal Sud e dalle campagne, dal mondo contadino, simbolo di arretratezza, fatica, infelicità, stupidità.
L’accusa ricorrente nei confronti dei contadini, non senza fondamenti, era quella di vivere rinserrati nel loro piccolo ambiente, un microcosmo locale che abbandonavano solo per necessità e non senza traumi (come metterà in luce in modo magistrale Ernesto De Martino). Al contrario i lavoratori dell’industria, dando vita alla classe operaia, si presentavano o apparivano come l’incarnazione dell’internazionalismo e universalismo.
Questo nella fase iniziale dell’industrializzazione e per tutto il suo sviluppo, nonostante le successive e drammatiche divisioni del movimento operaio. Oggi però la situazione appare letteralmente rovesciata: il movimento operaio in pratica non esiste più, le divisioni all’interno del mondo del lavoro, in tutte le scale dimensionali, sono arrivate all’estremo della frantumazione e polverizzazione; impera la concorrenza reciproca, la competizione individualistica, con arretramenti vistosi in termini economici e politici, dei diritti e delle prospettive di futuro. L’unica via d’uscita sembra essere quella della collaborazione in posizione subalterna verso l’impresa, senza nessuna possibilità o velleità di metterne in discussione le finalità, il come produrre, e, tanto meno, il cosa produrre.
I contadini, dati per scomparsi, dimostrano invece di sapersi collegare attraverso i paesi e i continenti – si pensi anche solo a “Via campesina” – sia nei contesti dove sono ancora socialmente maggioritari, come in gran parte dell’Africa, America Latina, Asia, sia in realtà altamente industrializzate, come quella europea e italiana, dove la loro presenza numerica è rarefatta, ma non priva di qualche incidenza, culturale più che politica.
Il fatto è che le questioni sollevate dai contadini di oggi, con la loro variegata e multiforme resistenza, hanno sì un forte e concreto radicamento nella terra, nel loro ambiente di vita e di lavoro, ma esprimono altresì istanze di valore generale, che concernono il pianeta, o almeno la vita della specie umana in un punto di svolta della storia naturale, alle prese con le conseguenze dell’industrializzazione, in quanto processo di illimitata artificializzazione del mondo. La resistenza contadina, nonostante la sua fragilità, debolezza economica e politica, costituisce un fatto di grande valore simbolico.
Il processo di convergenza, nel bene e nel male, è molto rapido, dobbiamo però aver presenti le differenze di cui si diceva tra parti del mondo in cui i contadini sono socialmente maggioritari, e in cui la modernizzazione deve ancora compiere il suo ciclo di trasformazione, se si vuole di distruzione creatrice di ricchezza monetaria, con i noti costi sociali e ambientali, e quelle zone in cui la riemersione dei contadini è un fatto di indubbio rilievo ma ancora privo di peso politico, apparendo ai più un fenomeno marginale se non snobistico ed élitario.
In un caso la dimensione che assume la questione contadina ha un’immediata incidenza sociale e politica, specie laddove si intreccia con il riscatto delle popolazioni indigene, nell’altro fatica ad imporsi finendo con l’assumere una connotazione prevalentemente culturale, come momento della difficile elaborazione di una teoria politica centrata su una non più aggirabile crisi ecologica.
E’ comunque su questo terreno che la contemporaneità del non contemporaneo può trovare una ricomposizione in positivo, purché i contadini non siano lasciati a se stessi, isolati dal resto della società, come è avvenuto in tutto il ciclo della industrializzazione – modernizzazione, quando la resistenza contadina venne interpretata come espressione della loro arretratezza culturale.
L’incidenza di un tale stereotipo, trasversale alle forze politiche, contribuisce ad oscurare la rilevanza che ha oggi la questione agraria, e della terra in generale, non solo per i paesi alle prese con la fame (e la sete), ma anche nelle nostre società ipersviluppate, devote alla religione dei consumi. Né si può attendere che la marcia delle cose compia il suo corso svelando il misero inganno che la sottende. Nel ripensamento del rapporto tra la società e la natura, l’agricoltura occupa uno snodo cruciale, il fatto che le forze politiche e intellettuali non lo capiscano e non vedano letteralmente il problema non deve affatto stupire, è solo la conferma di quanto ci dicono molti altri indicatori.
2.
L’esistenza di settori agricoli ancora incentrati sul lavoro dei contadini coltivatori diretti, qualche fenomeno circoscritto di ritorno alla terra, la pluralità di esperienze di agricoltura biologica e ecologica, non debbono indurci ad una rappresentazione falsata della realtà. Non è in atto, soprattutto nel nostro paese, un’inversione di tendenza, la resistenza è importante ma fragile e limitata.
L’agricoltura che conta, che fa produzione, continua ad essere un fattore, invisibile ai più, dell’attacco distruttivo all’ambiente. La crisi ecologica non è causata solo dall’industria e dalle sue infrastrutture, dall’invasione e cementificazione delle campagne. L’agricoltura industriale incide in modo non meno pesante e diretto colpendo la biodiversità e la fertilità del suolo, consumando in modo squilibrato energia e risorse naturali, causando inquinamenti non inferiori a quelli industriali (si pensi alle porcilaie), il tutto per produrre su grande scala cibi di scadente qualità se non dannosi alla salute.
La Padania, non a caso diventata luogo simbolo del degrado, è un epicentro dell’industrializzazione dell’agricoltura, con la concentrazione della produzione in un numero ridotto di grandi aziende, a forte impatto ambientale, e largo impiego di manodopera immigrata priva di diritti. Il resto del territorio, non ancora occupato da strade e capannoni, è abbandonato. La concentrazione è particolarmente forte nell’allevamento del bestiame, con carichi insostenibili, ma anche la conversione delle aziende agricole in fabbriche di biocarburanti ha aspetti inquietanti se non assurdi. Nel giro di pochi decenni una delle agricolture più avanzate e ricche del mondo è stata progressivamente demolita dal pieno dispiegarsi della logica del capitalismo industriale.
Del resto le politiche comunitarie sono state improntate agli stessi principi, sostenendo le aziende economicamente “sane”, rispondenti al modello standard di azienda agraria ottimale, innestando una selezione darwiniana modernizzante, rivelatasi socialmente, ecologicamente, ed anche economicamente fallimentare.
I fattori negativi che colpiscono l’agricoltura contadina, sia tradizionale che ispirata all’agroecologia, sono così numerosi da rendere sorprendente il fatto che esistano delle più o meno ampie sacche di resistenza. La caduta dei redditi agricoli, nel contesto di una crisi economica generale di lunga durata, spinge verso l’insostenibilità economica le aziende ecologicamente sostenibili. Una situazione da cui si può uscire solo con un diverso orientamento delle politiche agricole, accompagnato e stimolato dall’ampliamento dei circuiti virtuosi tra produttori, commercianti, consumatori, sul modello dei gruppi di acquisto solidale, sapendo affrontare i problemi conseguenti ad un salto di scala dimensionale. Le difficoltà in cui versano i contadini oggi, con quote sproporzionate di reddito a vantaggio dell’intermediazione, sono causa di fragilità finanziaria, indebitamento verso le banche, fallimento vero e proprio. Si perpetua quindi uno dei meccanismi secolari di subordinazione del mondo contadino.
Per altro anche le innovazioni legate alla modernità e agli sviluppi tecnologici possono essere molto penalizzanti. La burocrazia, si pensi ai sistemi di certificazione, è causa di molteplici difficoltà per le aziende contadine, che avrebbero bisogno di strutture di servizio, invece che di essere abbandonate a se stesse, al punto da indurre produttori integerrimi a sottrarsi alle certificazioni cercando di instaurare un rapporto fiduciario diretto con i loro utenti.
La partita è ancora più complessa per quanto riguarda le normative sulla sicurezza e la salute, rispetto a cui sono molto più attrezzate aziende industrializzate tutt’altro che salubri. In ogni caso normative forgiate per l’agroindustria si sono rivelate micidiali per i piccoli agricoltori e allevatori. Una via d’uscita possono essere le cooperative, purché non esemplificate sul modello economico standard con cui competere, soggiacendo alle stesse logiche e regole.
Per quanto riguarda gli aspetti direttamente produttivi nella filiera agricola e dell’allevamento, il contrasto tra agricoltura industriale e contadina è netto e radicale. L’invasività dell’agricoltura industriale, a parte i metodi colturali, il tipo di meccanizzazione, di utilizzo dei prodotti chimici e farmaceutici, con tutte le forme intermedie che si possono riscontrare, risulta micidiale su alcuni decisivi passaggi: il controllo e il trattamento delle sementi; la trasformazione dei prodotti agricoli; la produzione dei mangimi.
La differenza tra agro-business industriale e agricoltura e allevamento contadini si gioca in buona misura a queste livello: se contadini e allevatori perdono il controllo su ciò che seminano e su quello che danno da mangiare ai loro animali, la partita è persa, quali che siano le forme di organizzarne del lavoro e le forme giuridiche di utilizzo della terra e delle risorse naturali. Lo stesso vale per la filiera della trasformazione dei prodotti di base, con la necessità di spezzare la separatezza e il monopolio dell’industria agroalimentare.
Come dimostrano le esperienze novecentesche le strutture collettivistiche e stataliste possono essere non meno distruttive della grande azienda capitalistica. In entrambi i casi si produce una rottura e l’eliminazione della dimensione contadina, ecologicamente sostenibile. Una sostenibilità pagata ad altissimo prezzo in termini di lavoro e di scarsità di risorse e consumi: l’impronta ecologica era lieve ma quella sui corpi di uomini e donne molto pesante. Una sostenibilità dovuta al fatto che ogni rottura dei limiti poteva essere sanzionata molto duramente. Questa storia è finita e non è auspicabile e giusto che ritorni. La nuova ruralità deve ancora far perno sui contadini, deve essere ecologicamente sostenibile, ma a un livello superiore di consapevolezza, dignità e libertà.
In linea di principio, sul piano teorico, la piena compatibilità ecologica delle varie economie contadine, incentrate sulla coltivazione diretta della terra, sia essa in proprietà, possesso o uso, può essere oggetto di discussione e critica visto che l’agricoltura segnò una profonda rivoluzione nel rapporto delle specie umana con la terra, dando vita ad un ambiente artificiale, mentre rendeva possibile la nascita delle città. Ci pare però che nell’orizzonte della crisi ecologica che segna il nostro tempo si debba far valere la compatibilità degli agro ecosistemi contadini rispetto all’accelerazione catastrofica dell’entropia derivante dalla generalizzazione dell’agricoltura industriale.
Si può dire che la civiltà contadina, nel suo estinguersi, abbia lasciato un’eredità che deve essere ripresa in termini riflessivi, e quindi conosciuta nella sua varietà e ricchezza, trasmessa in molteplici forme, contribuendo a sanare la frattura prodotta dal compimento e generalizzazione dell’industrializzazione.
Un punto molto delicato è quello della trasmissione dei sapere tecnici non codificati tra le generazioni, tenendo conto delle rotture storiche che si sono verificate nei decenni passati, mettendo in crisi il passaggio spontaneo delle conoscenze nei contesti famigliari. Per porvi rimedio è necessario un intenso lavoro culturale, la valorizzazione e rivitalizzazione di un patrimonio immateriale non folklorico ma operativo, cosa che è possibile solo attraverso esperienze concrete che vedano l’incontro di contadini e cittadini, tradizione e innovazione, il che in modo puntiforme ma troppo rarefatto sta avvenendo.
Su questo fronte esiste una sorta di duplice problema linguistico. La lingua naturale dei saperi contadini è il dialetto, che per tutto quel che riguarda la cultura materiale è molto più ricco, preciso e minutamente diversificato dell’italiano. D’altro canto i contadini del futuro saranno in gran parte lavoratori provenienti dal Sud e dall’Est del mondo, il che aggrava il problema della lingua ma arricchisce di molto il patrimonio della tradizione. Su questi e altri problemi la questione contadina, riconosciutane la valenza strategica, ha bisogno di un intenso lavoro di ricerca, divulgazione, messa a punto politico-teorica.
Alcuni concetti stanno emergendo e sembrano persuasivi, a maggior ragione andrebbero analizzati più a fondo. Si prenda la “sovranità alimentare”, contrapposta alla linea della sicurezza alimentare su cui sono attestati gli organismi internazionali come la Fao. E’ evidente che la comunità internazionale, tanto più in un mondo globalizzato, dovrebbe mettere le popolazioni al riparo della fame. Cosa che non avviene e diventa un motivo per spingere ancora di più lo sviluppo dell’agricoltura industriale, quali che siano gli impatti ambientali, per fornire alimenti ai diseredati. Naturalmente il massimo delle rese è possibile solo stimolando e applicando in modo sempre più spinto la tecno-scienza, la chimica e la genetica, dai semi ai prodotti finiti, alla loro trasformazione e commercializzazione, il tutto nelle mani di poche, sempre più grandi, società multinazionali, in simbiosi con i governi degli Stati più potenti. La sicurezza, per nulla garantita, diventa così uno strumento di espropriazione.
Di qui l’indicazione di un programma antitetico, facente perno sulla capacità di ogni territorio di auto sostenersi, valorizzando al massimo le risorse locali, evitando gli sprechi, innanzitutto energetici, puntando sulla biodiversità e la sostenibilità ambientale. Tutte cose sacrosante ma che non possono tradursi nell’isolazionismo e nell’autarchia. L’insegnamento principale dell’ecologia è stato quello di imparare a concepire il pianeta come un tutto, un’ecosfera unitaria, quindi l’approccio deve essere universalistico; d’altro canto la Terra, come ambiente di vita, è fatta di una molteplicità di ecosistemi locali di varie dimensioni, con vocazioni produttive diverse, da cui la straordinaria varietà di prodotti locali –di contro alla serialità industriale-. L’azzeramento degli scambi, anche a lunga distanza, è assurdo, impossibile, negativo. Data l’importanza della posta in gioco non bisogna imbucare strade che non portano da nessuna parte.
La nuova ruralità ha bisogno di più intensi rapporti con le città, quindi i reticoli locali debbono infittirsi; né le campagne né le città possono essere autosufficienti. Ma anche su scala planetaria non possiamo pensare ad una frammentazione isolazionistica per porre rimedio ai disastri di una commercializzazione globale socialmente e ecologicamente inaccettabile. Se i produttori, in sostanza i contadini, potranno ricevere un reddito adeguato al loro lavoro e se le produzioni saranno ecologicamente equilibrate, molte delle follie dell’agricoltura mondializzata cadranno da sole. Al contrario il commercio equo e solidale non è solo moralmente encomiabile ma rappresenta una necessità per compensare carenze e deficit locali, e arricchire le diversità agroalimentari, in connessione tra di loro su scala planetaria. Il che è in perfetta sintonia con la vocazione internazionalista dei movimenti contadini di questi anni. Gli scenari sul futuro sono indispensabili per dare un senso a ciò che già esiste e cogliere le possibili prospettive, nel contempo bisogna confrontarsi costantemente con la dura realtà dei fatti.
Sulla base dei puri dati economici l’agricoltura contadina in Italia e in Europa appare in condizioni disperate. Il crollo dei redditi dei produttori diretti delle derrate, senza alcun beneficio per i consumatori, è un indicatore preciso del fallimento delle politiche comunitarie, per altro centrali in tutta la vicenda storica dell’Unione Europea. L’idea tuttora prevalente sembra essere quella di un’agricoltura senza contadini, che nei più oltranzisti diventa l’utopia negativa di una produzione di cibo senza terra fertile.
La speculazione finanziaria impazza e svolge un ruolo cruciale nel colpire gli agricoltori esposti alla volatilità incontrollata dei prezzi. Una delle conseguenze di tale situazione è la perpetuazione del processo di abbandono delle campagne, con le ben note conseguenze sulla tenuta dell’assetto complessivo del territorio, e l’invecchiamento degli agricoltori coltivatori, tra i quali solo il 7% ha meno di 35 anni. Tutto ciò mentre per molteplici motivi avremmo bisogno di un forte rilancio dell’agricoltura contadina, che invece resiste a fatica, nell’indifferenza delle forze politiche organizzate, del tutto carenti di una cultura che consenta loro di capirne l’importanza economica, sociale, ecologica.
3.
La nostra tesi è che l’agricoltura contadina abbia un ruolo imprescindibile per una strategia di fuoriuscita dalla crisi ecologica e che proprio il manifestarsi palese dell’insostenibilità della civiltà industriale abbia contribuito ad alimentare il sorprendente ritorno dei contadini. Ammettiamo però che si debbano tenere presenti anche altri fattori e spiegazioni. Si tenga poi conto che l’eliminazione dei contadini è di norma un processo storico di lunga durata; la rapidità traumatica in cui tutto è avvenuto in Italia è piuttosto l’eccezione che non la regola. In vari contesti, pur avendo avversari e nemici formidabili, l’economia contadina ha manifestato una sorprendente vitalità e capacità di ripresa.
Il sociologo olandese Jan van der Ploeg ha analizzato a fondo l’economia contadina europea contemporanea. A suo avviso le politiche di modernizzazione agricola perseguite dall’ UE sono da criticare per la loro insostenibilità economica e sociale. Il modello è quello dell’industrializzazione dell’agricoltura con lo sganciamento dai limiti degli ecosistemi locali, la standardizzazione dei metodi e delle produzioni, l’espropriazione-sostituzione delle conoscenze contadine, frutto di un mix eterogeneo di tradizione, esperienza, sperimentazione, da parte di agenzie esterne burocratiche, imprenditoriali, finanziare. Il contadino viene espropriato del controllo del ciclo produttivo e delle capacità di gestirlo. La modernizzazione, dice van der Ploeg, crea un agricoltore virtuale che esegue le operazioni che gli sono prescritte dall’esterno. Il successo di tali politiche è consistito principalmente nella eliminazione di un gran numero di aziende, specie di piccole dimensioni, ovvero, aggiungiamo, nella loro sopravvivenza fittizia dato che i principali lavori agricoli sono affidati a cottimisti e trattoristi che portano agli estremi una concezione industriale dell’agricoltura.
Pur non nascondendo che la linea della modernizzazione resta quella dominante, van der Ploeg e con lui molti altri studiosi del mondo agricolo forniscono elementi preziosi a sostegno della scoperta di una diffusa e multiforme resistenza contadina. L’analisi empirica dimostra che il modello obbligato (unico, efficiente, economicamente razionale) non si è affermato ovunque. In molti contesti il pluralismo e le specificità locali hanno retto all’urto congiunto della tecnica e del mercato. L’eterogeneità intrinseca all’agricoltura ha alimentato molteplici “stili aziendali”; la differenziazione, in molti casi, si è dimostrata vincente rispetto a livellamento. Questa nuova agricoltura, tutt’altro che marginale, se non sarà lasciata a se stessa, può essere una risorsa per attraversare la crisi economica globale e contribuire alla transizione verso un’economia sostenibile.
L’agricoltura in Europa e non solo, argomenta ancora van der Ploeg, potrebbe compiere un vero salto di qualità, anche dal punto di vista della redditività, una volta che fosse fondata sulla biodiversità e la connessione alla società attraverso l’offerta di prodotti tipici. Oggi invece l’agricoltura è in difficoltà perché è scollegata sia dalla natura e che dalla società.
La costruzione di un nuovo paradigma, antitetico a quello della modernizzazione, deve partire dal dato fondamentale: la fertilità del suolo indispensabile per alimentare la biodiversità. Il sociologo olandese per indicare il reticolo vitale che consente alle forme viventi, e alla specie umana in particolare, di esistere, parla di “food web”, ma su tutta questa partita è necessario rimandare al formidabile e misconosciuto lascito intellettuale di Giovanni Haussmann, grande conoscitore, dal suo osservatorio di Lodi, dell’agricoltura padana (prima che venga distrutta), teorico di un profondo riorientamento tra la “società e il suolo” imperniato sul ruolo dell’agricoltore “simbionte”, in relazione organica con il suolo, le piante, gli animali.
L’indicazione è verso uno sviluppo rurale che comporti una ristrutturazione globale dell’agricoltura, con un forte incremento dell’occupazione e un drastico riequilibrio delle risorse a favore del settore primario, passando da un’agricoltura ultra specializzata ad aziende miste, integrate, multi produttive, autosostenentesi. Un modello di agricoltura auspicabile per motivi economici e sociali e però indispensabile se si vuole affrontare la crisi ecologica, che governi balbettanti tentano inutilmente di aggirare. Un’agricoltura in grado di assicurare il miglioramento qualitativo dei prodotti e di presidiare gli ecosistemi (suolo, biodiversità, paesaggi).
Nella sintesi di Jan Douwe van der Ploeg il nuovo paradigma dovrebbe poggiare su tre assi: la tipicità attraverso cui ricollegare l’agricoltura alla società assicurando l’approvvigionamento di prodotti genuini, del territorio; la biodiversità, rifondando l’agricoltura sulla natura, l’ecologia, i saperi contadini, la consapevolezza culturale dei cittadini; l’autoregolazione, sottraendo l’agricoltura alla presa del capitale finanziario e ai suoi giochi speculativi, attraverso la partecipazione attiva, cooperativa e solidale, dei contadini, spezzando la gabbia culturale dell’isolazionismo e individualismo, riscoprendo, ad un livello superiore, le pratiche comunitarie inscritte nella loro lunga storia.
La sopravvivenza in alcune situazioni e la ricerca in altre di un’agricoltura in grado di sottrarsi all’industrializzazione, le cui ricadute negative diventavano sempre più percepibili e non più considerate ineluttabili, almeno da una parte della popolazione, ha reso possibile uno sviluppo significativo dell’agricoltura biologica, in sostanza a coltivare facendo a meno dei prodotti chimici industriali. L’analisi delle molteplici forme –con le relative accanite discussioni- che ha assunto l’agricoltura biologica richiederebbe un’analisi a parte. La prospettiva di fondo dovrebbe essere quella dell’agroecologia, cioè di un’agricoltura ecologica, mirante al massimo di compatibilità con l’ambiente inteso nella sua globalità. Questa come idea regolativa di fondo.
Stabilito che la strada è quella giusta le diversità possono e debbono esserci, evitando settarismi e scomuniche. I rischi maggiori, inevitabili dato il contesto, sono l’affarismo e le truffe, nonché gli attacchi di un sistema della comunicazione ai servizi dell’agrobusiness, delle multinazionali, delle speculazioni finanziarie. Quando l’attacco diretto non funziona e l’agricoltura biologica continua a svilupparsi il capitalismo tende ad appropriarsene, come avviene per tutto ciò che concerne lo sviluppo sostenibile o green economy. Il tentativo dell’economia di sussumere l’ecologia è in qualche misura il fronte avanzato di una lotta culturale e politica probabilmente decisiva e dagli esiti incerti. In tale orizzonte la resistenza contadina può giocare un ruolo importante, dobbiamo però essere in grado di coglierne le valenze e il forte potere di contestazione nei confronti degli esiti della modernità, entrando in rotta di collisione con i suoi stessi grandi interpreti.
I filosofi che hanno indagato il sorgere e dispiegarsi dell’industria, in primo luogo Hegel e Marx, consideravano i contadini fuori dalla grande corrente della storia perché erano troppo interni alla natura e ai suoi cicli; il loro faticoso lavoro era fondamentalmente ripetitivo e governato da meccanismi intangibili e misteriosi; la terra era un padrone molto più potente dei signori a cui ubbidivano e contro cui si ribellavano. La loro sconfitta era inscritta nel dislivello incolmabile tra ciò che erano in grado di fare e la potenza creatrice o distruttrice della natura.
Il progresso era nelle mani dell’industria e degli operai che ne erano il motore; liberandosi dei padroni essi avrebbero potuto padroneggiarne e dirigerne gli sviluppi, integrando le campagne trasformate in fabbriche agricole.
Di tutto ciò qui ci interessa solo un aspetto: la questione della conoscenza dei contenuti del lavoro. Attraverso peripezie storiche siamo arrivati a esiti antitetici rispetto a quelli propugnati da Hegel e Marx: i contadini sembrano in grado di padroneggiare l’intero ciclo e sono costretti ad avere tale visione se vogliono continuare a produrre, tanto più se in termini agroecologici. Al contrario gli operai, ma in realtà tutti gli addetti all’industria, hanno perso ogni controllo sulla produzione. Solo i mistici del “general intellect” la pensano diversamente, ma nemmeno troppo visto che la ricomposizione della conoscenza avviene a livelli intangibili per gli uomini comuni, in carne e ossa.
In tutti i contesti industriali, per non parlare dei servizi, il lavoro si intellettualizza incessantemente ma ciò avviene nella forma di una non meno incessante parcellizzazione e specializzazione. La massa complessiva di sapere aumenta continuamente ma contemporaneamente aumenta il non-sapere, di tutti, e in primis di coloro che sono interni ai circuiti dell’innovazione tecnologica, della comunicazione, della politica.
Questo spiega perché, nel migliore dei casi, trovate degli uomini-macchina che perseguono indefessamente e ciecamente i loro ristretti obiettivi. Mancando di ogni visione del mondo, avendo perso il contatto con la terra e i cicli vitali, non padroneggiando lo stesso artificio che hanno edificato, quelli che dovevano essere le guide del nostro tempo si rivelano esseri vacui e pericolosi. In essi il non-sapere assume la forma dell’idolatria della tecnica e del denaro, il che, in combinazione con la corrosione del carattere, ci espone, come genere umano, a rischi mortali.
L’unica via d’uscita è il ritorno alla terra, l’unica possibilità di contrastare la follia è la riconciliazione con la natura, l’abbandono del sogno irrealizzabile di farne uno zimbello sottomesso alla nostra volontà.
Sull’ecologia esiste ormai una letteratura immensa, di valore diseguale. Nessun altro ha però espresso con altrettanta forza la centralità della questione della terra e dei contadini quanto Aleksandr Solzenicyn, le cui posizioni politiche possono e debbono essere criticate, riconoscendo però la sua capacità di sintetizzare al meglio l’attualità della grande cultura russa, travolta dal bolscevismo e stalinismo.
E’ necessario che gli uomini tornino alla terra per motivi pratici, per contrastare la logica del capitalismo, per impedire la distruzione dell’ecosfera. Ma ancor prima, dice Solzenicyn, viene la salute mentale, la saldezza del carattere. Gli uomini travolti dalla velocità compiono azioni insensate perché non c’è tempo per capire e pensare. Gli uomini non pensano e si illudono in tal modo di cancellare la paura della morte, ma è vero il contrario: l’Occidente è attanagliato dalla paura della morte, i ricchi, coloro che vivono nel lusso, nella prosperità, sono ossessionati dalla paura di invecchiare e di morire; pretendono di essere immortali e si istupidiscono per sfuggire alla verità. Per i contadini a contatto con la realtà del ciclo della vita, la morte è la transizione da una vita ad un’altra. Essi, nota Solzenicyn, “l’hanno sempre saputo e sono morti tranquilli”.
Troppo sbrigativamente e violentemente abbiamo pensato di fare i conti con la loro civiltà e liquidarla. Un ripensamento è necessario da più punti di vista: sorprendente e inaspettata, la resistenza contadina lo rende possibile.
[Immagine: August Sander, Contadini (gm)].
Ottimo articolo, grazie.
Tra l’altro mi sembra che in Italia sulla non attuazione della riforma agraria si sia giocata la partita piu’ sporca. Trasversalmente tutte le forze politiche hanno bypassato la questione. Questa mia idea, tuttavia, non essendo basata su studi e approfondimenti personali, non so quanto sia fondata..
Questo saggio di Pier Paolo Poggio è un contributo importante alla definizione, attraverso la questione dell’agricoltura, della “contemporaneità del non contemporaneo” oggi. Ricordo che il concetto fu introdotto da Ernst Bloch per spiegare l’ascesa del nazismo e la sconfitta della rivoluzione proletaria, travolta dalla persistenza nel presente del passato precapitalistico, di cui i nazisti si fecero interpreti. Nel mondo odierno gli stessi termini si profilano in maniera molto diversa: ciò che appariva come il passato – i contadini stando alla linea Hegel-Marx – si ritrovano, o possono ritrovarsi, in posizione “centrale” nel processo produttivo rispetto agli operai o ai “lavoratori della conoscenza”, che non hanno alcuna possibilità di cogliere l’insieme del processo.
È un’idea suggestiva – a mio parere anche vera. La prospettiva che viene a delinearsi, tuttavia, non è quella di una pura e semplice uscita dalla modernizzazione ma di una sua completa ridefinizione in termini di sostenibilità ambientale.
Mi piacerebbe sapere che cosa pensa Pier Paolo della “decrescita” (s’intuisce che la sua prospettiva è differente). E anche il “paesologo” Franco Arminio potrebbe qui dire la sua.
Lo scritto è eccessivamente denso, e purtroppo perde di indicazioni puntuali sull’operatività.
C’è da dire che l’occupazione in agricoltura è aumentata, rispetto agli altri settori che dismettono lavoratori. Oltretutto, giocarsela sulla contrapposizione fra progressismo (e critica al progresso) e condizioni produttive precapitalistiche mi appare giocoforza una modalità di divincolarsi, dopo le analisi che conosciamo riguardo la industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, dall’irruzione di quale sviluppo decisivo è stato privilegiato e sostenuto. Bisogna attendere la fine del post, finendo di scrivere esistenzialisticamente della fine, esorcizzando di fatto la fine. Che infatti non ci appartiene come fatto e costrutto ma piuttosto come evento storico umano ineluttabile e non manipolabile. Oltretutto, il post è giocato su una astratta contrapposizione fra natura e artificio, quando la scarsa specificità ecosistemica dell’essere umano (il meno specializzato fra gli animali) comporta necessariamente la trasformazione dell’ambiente. Quindi, non c’è natura per l’uomo se non entro lo spazio di esercizio della trasformazione dell’ambiente, poichè le sue capacità adattive sono limitatissime.
Detto questo, resta puntuale il riconoscimento che la pratica agricola come la conosciamo, e che subisce il processo di industrializzazione come per la manifattura, diventa il primo campo di applicazione di una uscita possibile e di sicurezza dalla dispersione umanistica che l’industria ed il macchinismo (de)genera. Per la semplice constatazione, anche qui riconosciuta, della relazione complessiva che la ciclicità della produzione agricola comporta, e che quindi subito consente la riconnessione, nel deposito antropologico del prodotto agricolo e dell’allevamento, del pensiero con il fatto, costituendo ciò che è consapevolezza del realizzato, ovvero cognizione totale dell’operatività umana, che non è soltanto trattenuta dalla “maestria” dell’agricoltore o dell’allevatore, ma è difatto condivisa e riconosciuta nell’acquisizione “benevola” da parte di colui che ne fruisce di questo “bene”, sia in senso stretto che lato.
Ripeto, il post meriterebbe di essere diviso in 10 post. C’è, ad esempio, tutta la parte relativa alla eccessiva regolamentazione amministrativa dell’agricoltura che, paradossalmente, è avvenuta in questo settore produttivo invece che negli altri settori economici (anche se non proprio così). Ovvero, si comincia a riconoscere che tutte le regolamentazioni igienistiche che sono intervenute nell’agricoltura (ma parimenti lo stesso processo è avvenuto nella manifattura per altri aspetti di processo) hanno queste in primo luogo consentito per un verso un innalzamento dei costi di produzione a vantaggio di produttori di antibiotici o fitofarmaci o anticrittogamici, (a discapito del lavoro umano e delle retribuzioni dei lavoratori agricoli), il controllo diretto dell’attività produttiva agricola e allevatrice da parte di queste altre società chimiche e farmaceutiche, la separazione del consumo dalla produzione attraverso l’intermediazione della distribuzione degli alimenti da parte di società finanziarie (queste di fatto sono!) che assicurano la vendita di prodotti sicuri secondo parametri legislativi ma affatto parametrizzati sulla sostenibilità dei suoli delle acque del lavoro agricolo (vedi sicurezza dei lavoratori) e della redistribuzione dei redditi così ottimamente concentrati e drenati sia al consumatore che al produttore. E’ da questa separazione (che è poi la prima separazione che detta e produce l’industria) che diventa necessario ripartire. Compresa l’ottima premessa del post, riguardo il connesso fra povertà e ricchezza.
Ad ogni modo, un post intelligente e che meriterebbe di essere molto ben affrontato ed esteso, proprio per la prima e più agevole disposizione critica che l’attività agricola (ma potrebbe ugualmente esserlo la produzione artigianale) consentono, perchè è più difficile riconfigurare totalmente il senso del fare nella separazione significante che da 250 anni si opera nelle coscienze umane.
Ci potete dire in che anno è stato scritto questo testo di Poggio, se ho letto bene questo passo
“Non è passato troppo tempo da quando in Italia un referendum popolare ha abolito il Ministero dell’Agricoltura… ” l’attualità riferiva al ’93.
Grazie.
«Ricordo i veterinari dell’Oltrepò esterrefatti, una decina d’anni fa, quando si davano premi governativi per l’abbattimento delle mucche fattrici, perché la stolta Italia calcolava che convenisse di più comprare i vitelli in Baviera coi proventi, appunto, della nostra metallurgia megalomane e concorrenziale» Alberto Arbasino, Fantasmi italiani, Cooperativa scrittori, 1977.
Conosco e stimo il lavoro di storico di Pier Paolo Poggio. E mi scuso se approfitto della pubblicazione di questo suo saggio qui su LPLC per dialogare criticamente con la sua linea interpretativa. Avevo letto, quando uscì nel 2003, il suo «La crisi ecologica: origini, rimozioni, significati»(Jaca Book) e confesso che già allora, con il rifarsi sia pur in modi intelligenti al populismo russo, a Herzen, Tolstoj e Dostoewskij mi parve avviato verso un “antimodernismo moderato” che mi spiazzava.
Diffido io pure di qualsiasi iperfuturismo, ma per criticarne gli eccessi, fosse pure insufficiente quel poco che ancora resta della cultura illuminista e marxiana, non mi pare conveniente attingere al “pozzo spiritualista” a cui egli ora pare rivolgersi abbondantemente.
Quando, nel finale di questo suo scritto, arriva a una rivalutazione incondizionata della figura di Aleksandr Solzenicyn – Vate della «grande cultura russa» – e lo si fa apparire come il buon difensore di un’epoca storica, «travolta dal bolscevismo e stalinismo»,mentre in essa vigeva «la salute mentale, la saldezza del carattere», mi assalgono sconcerto e sconforto.
Sostenere che «gli uomini travolti dalla velocità compiono azioni insensate perché non c’è tempo per capire e pensare», che «l’Occidente è attanagliato dalla paura della morte», che «i ricchi, coloro che vivono nel lusso, nella prosperità, sono ossessionati dalla paura di invecchiare e di morire; pretendono di essere immortali e si istupidiscono per sfuggire alla verità» mi fa sentire nel suo discorso toni alla Spengler e spinte alla demonizzazione della realtà contemporanea, che bruttissima è ma demoniaca no.
Affermare poi, al contrario, che per «i contadini a contatto con la realtà del ciclo della vita, la morte è la transizione da una vita ad un’altra» e, ancora con Solzenicyn, che essi «l’hanno sempre saputo e sono morti tranquilli» mi pare un modo di angelicare una condizione di vita di per sé, tutto sommato, non peggiore né migliore di altre. (E non capisco perché “morire tranquilli” sia meglio che morire – che so – inquieti, tanto da porre questa “buona morte” come un ideale, magari più a portata di mano dei contadini, anche se essi vissero o vivono in condizione di sottomissione e di sfruttamento).
Nel 2003 mi parve che quel suo discorso, che mirava a costruire «un nuovo rapporto o alleanza con la natura [che] può avvenire solo in termini riflessivi, attingendo alla scienza, alla memoria, alla storiografia» (p. 191 di «La crisi ecologica etc.»), tacesse ormai sulla lotta di classe. Diffidai pure dell’uso della categoria di «industrialismo» che accomunava in un’unica condanna capitalismo e movimento operaio, in sostanza imputando a tutti la responsabilità nella distruzione dell’ambiente, senza distinguere tra il «saccheggio illimitato delle risorse naturali e umane» (p.195 di «La crisi ecologica etc.») fatto in una logica capitalistica di profitto e lotte di resistenza alla logica del profitto, giudicate tutte complici di quel saccheggio e non, semmai, insufficienti nella loro opposizione. Pensavo e penso che le stesse “distruzioni” staliniste non debbano essere considerate come parte integrante del movimento operaio rivoluzionario e vadano comunque giudicate dentro il contesto storico in cui si produssero. Poggio, suggerendo di “imparare” dal pensiero della Destra sul rapporto uomo-natura lasciando da parte l’incomodo Marx, a stento distinto dai “prometeisti” del progresso, mi lasciò insomma perplesso. La sua critica allo sviluppo sostenibile, accolto da tutte le principali istituzioni del nostro tempo perché «in pratica si traduce nel passaggio dallo sfruttamento senza freni della natura ad uno sfruttamento razionale» (p.194 di «La crisi ecologica etc.» ) sembrava avviarlo verso un’ ”ecologia rivoluzionaria”, ma alla fine egli oscillava tra due opzioni rischiose: l’ecologia riassorbita nell’economia (capitalista) e «un ritorno dell’uomo alla natura» dopo aver posto fine alla storia (p. 199 di «La crisi ecologica etc.»). Questa seconda ipotesi mi pare ora quasi del tutto abbracciata in questo scritto. E a questo punto la mia diffidenza d’allora si fa contestazione.
Vado per punti, seguendo il suo saggio:
1. Poggio fa la critica al «Progresso» in termini assoluti. Per «modernizzazione» sembra intendere un passaggio da uno stadio ad un altro delle società non guidato – mi pare – dalla politica, la grande assente del suo discorso, ma da una sorta di “demone absconditus” che attraverso gli Stati trasforma e distrugge per mera passione distruttiva, sempre e solo irrazionalisticamente. Il concetto di progresso resta indeterminato, facilmente confondibile con i miti di epoche precedenti (età dell’oro, paese della cuccagna, socialismo utopistico, ecc.). La «modernizzazione» non ha avuto in sé il buono o il cattivo, ma unicamente il peggio.
2. La sua affermazione che le varie ideologie politiche otto-novecentesche (liberalismo, socialismo, comunismo) sono state «accomunate dall’opzione per il massimo sviluppo possibile della Tecnica, motore della storia» mette insieme cose diverse e non aiuta a chiarire come sono andate le cose. Possiamo anche dimenticare o criticare il «grande racconto» di Marx (meglio sarebbe dire dei marxismi), ma non confondiamo le carte: per Marx il “motore della storia” non era affatto la Tecnica (con tanto di maiuscola che fa slittare il discorso verso Heidegger…), ma la lotta di classe. Se quel racconto si è interrotto e la lotta di classe ad un certo punto è scomparsa o non la vediamo più come prima, cerchiamo di capire il perché, ma non trinceriamoci dietro un luogo comune generico:«da qualche tempo le cose sono cambiate».
3. Giusto ripensare la questione dell’agricoltura contadina. Però non mitizziamola oggi, come si fece ieri per la “questione operaia”. Non so cosa pensi Poggio delle tesi della decrescita divulgate da Latouche. Egli è abbastanza cauto e sembrerebbe distante da un “ritorno all’agricoltura” come semplice “ritorno alla natura” (anche se quel richiamo a Solzenicyn m’insospettisce). Indipendentemente da questo, mi chiederei se sia pensabile un’agricoltura non «governata dalla finanza e dalla tecno scienza», se la “resistenza contadina” (o i suoi reali rappresentanti), di cui qui si tessono le lodi, pensa davvero di poter fare a meno di finanza e tecno scienza (e come), se le conviene davvero sbarazzarsi dell’analisi del capitale di Marx come un ferro vecchio.
4. In particolare mi chiedo se sia stato davvero Marx ( o sullo sfondo Hegel) l’unico ostacolo ad una trasformazione della “resistenza contadina” alla modernizzazione e se essa da sola avrebbe potuto un suo “progresso”, una sua “modernizzazione” tutta agraria.
Mi chiedo pure se la teoria del Capitale vada messa sullo stesso piano del liberalismo. (Preciso. Parlo di Marx, non del marxismo o dei marxismi sicuramente deludenti e troppo miopi rispetto a Marx). Ammettiamo poi per un attimo che Marx avesse grossi pregiudizi “modernizzatori” (del tutto ingiustificati?) verso i contadini. Gli si può però imputare l’obiettivo di arrivare a una «scomparsa dei contadini» o farlo diventare il propugnatore della loro «eutanasia» più o meno brutale (e dunque addossargli – per parlare chiaro – le scelte di Stalin, compiute comunque in una situazione storica del tutto diversa da quella studiata e vissuta da Marx? (Mi pare di ricordare che Marx fosse stato attento ai problemi postigli da corrispondenti russi sull’obščina. E, comunque, in altro contesto, quello cinese, il “marxista” Mao mai pensò di liquidare i contadini e tentò – senza riuscirvi, è vero – uno sviluppo virtuoso e concatenato tra industria e agricoltura: un esempio che da Marx non discendono automaticamente lo sterminio dei kukaki e i gulag. (Questi sono discorsi da vecchi e vecchi discorsi, ma mi pare necessario riprenderli, perché sotto le analisi di Poggio sento la delusione storica e il dente avvelenato verso i “comunisti”; e non mi pare un buon segno).
5. Non si capisce perché, trattando del caso italiano, Poggio tiri in ballo il Pasolini “di moda” – quello della mutazione antropologica -, anche se *en passant* dice che non fu l’«unico» a vedere i pericoli della industrializzazione “forzata” in versione italiana e capitalistica degli anni ’50-’60, e taccia di Danilo Montaldi, nome sicuramente non di moda, ma autore che quegli stessi fenomeni sentiti e interpretati da Pasolini studiò e ripropose in termini sicuramente meno mitizzati. Mi pare una lacuna non trascurabile. Né Poggio spiega perché Pasolini fu «bollato di estetismo e passatismo». Né capisco come possa arrivare oggi a semplificare la storia italiana di quegli anni cruciali e tremendi dicendo che «non si voleva letteralmente vedere cosa stava succedendo». O come fa a sostenere che «la fuoriuscita dalla miseria [trovava] la sua celebrazione nei riti collettivi della nascente religione dei consumi, che incentiva la fuga dal Sud e dalle campagne, dal mondo contadino, simbolo di arretratezza, fatica, infelicità, stupidità». Io credo che alla modernizzazione bisogna dare quello che è della modernizzazione. Ci fu o no «fuoruscita dalla miseria» sia pur pagata caro di una parte degli immigrati provenienti dalle campagne? Si può parlare (ma con quali implicazioni?) di «religione dei consumi»? Pongo queste domande un po’ provocatorie, affinché al dogmatismo della sinistra italiana di allora non venga sostituito un dogma ecologista. Le scelte fatte allora saranno state sbagliate, ma non stupide. Un problema arduo e contraddittorio – quello della «modernizzazione» solo con il senno del poi appare facile da risolvere come un cruciverba. Non era così. Tanto più che è lo stesso Poggio a dover attenuare a volte certi toni liquidatori («L’accusa ricorrente nei confronti dei contadini, non senza fondamenti, era quella di vivere rinserrati nel loro piccolo ambiente, un microcosmo locale che abbandonavano solo per necessità e non senza traumi»). E poi dov’era Poggio allora? L’operaismo non fu discorso (in buona parte ideologico, ma lo vediamo adesso…) con cui tutti si sciacquarono la bocca fino agli anni Settanta?. La lettura del mutamento avvenuto nell’Italia attorno al «boom economico» mi pare in questo saggio troppo semplificata. Si dice che oggi «la situazione appare letteralmente rovesciata» e non si dà uno straccio di ragione per spiegare questo rovesciamento, che un ingenuo studente potrebbe intendere dovuto solo all’operaismo e al marxismo. Si ragiona di un “nuovo scenario” senza alcun raccordo col vecchio e senza mostrare continuità e discontinuità con quello. Perché il movimento operaio non esiste più? È stato sconfitto, ma chi avrebbe potuto o dovuto salvarlo dalla sconfitta? La “resistenza contadina”? E dalla sconfitta del movimento operaio quale danno è venuto alla stessa “resistenza contadina”?
7. Adesso nuovo soggetto sembrano essere i contadini e non più gli operai (si fanno gli esempi dell’Africa, America Latina, Asia), ma non è che si getta su di loro lo stesso “sguardo mitico” e innamorato che fu gettato addosso alla classe operaia? (Pare, a vecchi come me, di risentire l’eco di un certo “terzomondismo”…). Come quella aveva «un forte e concreto radicamento» nella fabbrica, questi l’hanno «nella terra, nel loro ambiente di vita». Come gli operai sembravano esprimere «altresì istanze di valore generale», così le esprimerebbero ora i contadini (o forse – direi più dubbioso – gli intellettuali votatisi all’ecologismo?). Il nuovo simbolo su cui puntare sembra trovato. (Anche se Poggio è apprezzabilmente cauto; e ricorda che bisogna andarci coi piedi di piombo e stare attenti alle differenze tra le realtà contadine delle varie parti del mondo, perché in certi paesi la questione contadina ha un’immediata incidenza sociale e politica, in altri è solo culturale).
8. Pur individuato il “nuovo soggetto”, il discorso del “che fare” resta però fumoso. Bello (per noi vecchi) rinfrescare il concetto blochiano di «contemporaneità del non contemporaneo». Ma una cosa era pensarlo in un contesto di lotte anticolonialiste, altra usarlo oggi. Davvero, nel 2012, dopo il crollo del comunismo nei paesi in cui si tentò di costruirlo, è solo l’ideologia che dominava nel (defunto) movimento operaio a «oscurare la rilevanza che ha oggi la questione agraria»? Secondo me, esistono limiti politici dell’ecologismo e della politica ecologista che andrebbero ripensati criticamente. Temo che da noi, sconfitto il movimento operaio, la “resistenza contadina” non sia in grado di fare di più grazie all’ecologismo e agli ecologisti. Gli stessi dati che Poggio riporta sul degrado della Padania dicono chiaro e tondo che i contadini, non più “frenati” dal movimento operaio, hanno adottato (come molti ex- operai del resto) modelli industriali e partecipano al “peccato inquinatorio” più o meno allegramente. Diciamoci la verità: Il capitalismo – industriale ed agricolo – ha fatto fuori sia il movimento operaio sia il movimento contadino concresciuto col primo in modi che oggi vengono dipinti come sin troppo subordinati. Non capisco perciò – e qui arrivo al punto dolente che richiede più lucidità e volontà di non ricacciarsi in altri mitologemi – come da questa crisi di tutti i movimenti anticapitalistici si possa uscire puntando le proprie speranze solo sulla “resistenza contadina” in sostanza fondata – mi pare di capire – sulle cooperative dei piccoli agricoltori e allevatori.
9. Posso condividere l’idea che le strutture collettivistiche e stataliste del Novecento (in Urss o nella Cina di Mao per capirci) siano state non meno distruttive della grande azienda capitalistica. Ma sostenere, dopo la sconfitta di tutti i moti anticapitalistici, che una «nuova ruralità» debba far perno sui contadini, essere ecologicamente sostenibile e mostrare «un livello superiore di consapevolezza, dignità e libertà» mi pare un discorso vagamente utopistico e, specie qui da noi, senza un referente sociale. Nella Russia zarista le masse contadine erano reali e potenzialmente interessate a una rivoluzione e a Lenin (si ricordi questo!) riuscì di smuoverle. Qui semplicemente non ci sono quasi più. Quasi come gli operai. Come si fa a fare magari una “riforma” o una “rivoluzione” ecologista dell’agricoltura senza una forza sociale ad esse interessate?
10. Se la civiltà contadina si è estinta, per quanto se ne voglia o se ne possa raccoglierne l’eredità, ci si trova al massimo di fronte a delle «buone rovine»(Fortini). Chi oggi potrebbe promuovere «un intenso lavoro culturale, la valorizzazione e rivitalizzazione di un patrimonio immateriale non folklorico ma operativo»? Chi è in grado di contrastare le «sempre più grandi, società multinazionali, in simbiosi con i governi degli Stati più potenti» e portare l’attenzione su una«nuova ruralità» capace di «intensi rapporto con le città»? Degli intellettuali rifondatori di un nuovo populismo, non “grillino” ma contadino? La spinta potrebbe venire dai movimenti locali, che, come Poggio ben sa, scivolano fin troppo facilmente «nell’isolazionismo e nell’autarchia»? O dalle esperienze frammentate del «commercio equo e solidale»? A chi, dunque, chiedere «un forte rilancio dell’agricoltura contadina»? Le analisi del sociologo olandese Jan van der Ploeg non fanno che confermare l’inesistenza o l’eliminazione del potenziale soggetto del discorso ecologista cercato da Poggio. Se è vero che la modernizzazione capitalistica ha eliminato «un gran numero di aziende, specie di piccole dimensioni». A chi, dunque, predicare l’ecologismo? Alle grandi multinazionali? (Vengono in mente i discorsi che facevano prima del 1789 gli illuministi a certi sovrani…).
11. Insomma, la «scoperta di una diffusa e multiforme resistenza contadina» mi pare – sarò drastico, ma pronto a ricredermi – non dica nulla di politicamente decisivo. Se «il modello [capitalistico] obbligato (unico, efficiente, economicamente razionale[?]) non si è affermato ovunque», non vuol dire che, dove non si è affermato, ci siano di sicuro le energie capaci di contrastare la concezione industriale dell’agricoltura. (Di resistenze ce n’erano anche sotto il fascismo o sotto lo stalinismo, ma nel primo caso poterono agire attivamente solo a Seconda guerra mondiale avanzata, nel secondo restarono tali). Quella che poi non si vede è la forza o le forze che non dovrebbero «lasciare a se stessa» tale “resistenza contadina”. Una volta, ai tempi di Gramsci e in termini leninisti, un movimento operaio reale poté porsi il problema di un’alleanza coi contadini, ma oggi? Perciò il vero salto di qualità auspicato da van der Ploeg mi pare campato in aria, un mettere il carro davanti ai buoi; o avere il carro, ma senza avere i buoi. E l’idea regolativa di fondo (l’agroecologia o agricoltura ecologica) somiglia un po’ alle pensate dei socialisti utopisti. Tanto più che è lo stesso Poggio a riconoscere che «il capitalismo tende ad [appropriarsi dell’agricoltura biologica], come avviene per tutto ciò che concerne lo sviluppo sostenibile o green economy».
12. In conclusione, la sparata contro i «i mistici del “general intellect”» mi pare debole. Anche quella di Poggio, quando sostiene che «l’unica via d’uscita è il ritorno alla terra, l’unica possibilità di contrastare la follia è la riconciliazione con la natura, l’abbandono del sogno irrealizzabile di farne uno zimbello sottomesso alla nostra volontà», potrebbe essere una mistica, la mistica della “resistenza contadina”, non dissimile da quella che imputa ai sostenitori del “general intellect”. E vedo con preoccupazione che da questa sua ottica si finisca per demonizzare l’”altro” da combattere riducendo gli avversari a «uomini-macchina» il cui « non-sapere assume la forma dell’idolatria della tecnica e del denaro, il che, in combinazione con la corrosione del carattere, ci espone, come genere umano, a rischi mortali».
Non sono nichilista. Non voglio inceppare la ricerca di un’alternativa al mondo esistente, ma resto del parere che in questa lunga crisi è meglio avere gli occhi aperti che chiuderli e mettersi a sognare un soggetto “salvatore”.
Articolo sicuramente denso di stimoli, ma che credo soffre di un elemento che ne limita la chiarezza. Si tratta dell’intrecciarsi di due differenti discorsi, uno riguardante il progresso in relazione alle tematiche ambientali, l’altro la questione interna all’agricoltura, cioè il tema di “quale agricoltura”.
L’autore si dilunga sulle questioni dell’organizzazione agricola e di come esistano differenti agricolture, per tanti versi diametralmente opposte tra loro. Partendo da tali premesse, sembrerebbe ovvio che il ritorno alla terra non implica in sè nessuna svolta in ordine alle tematiche sollevate sull’uso della tecnologia e sulla crescita impossibile.
Vorrei essere ancora più drastico, anche il riferimento al coltivatore diretto, alla dimensione aziendale piccola, in sè non implica nulla di particolare. Per la mia personale piccola esperienza, il mondo contadino di una volta è definitivamente tramontato. qualche traccia rimane in vecchi contadini ormai ben oltre l’età pensionabile e davvero così avanti con l’età da non permetterci certo di affidarci a loro.
Gli altri addetti all’agricoltura sono da tutti i punti di vista uomini del loro tempo, per molti versi cittadini mancati e a volte perfino frustrati, ed ad ogni modo sono individui sicuramente influenzati dai mass media, in primis dalla televisione. I più accorti tra loro usano pienamente i mezzi tecnologici di cui possono usufruire (il limite sono le risorse finanziarie per acquistarli), e ciò vale anche per la cosiddetta “agricoltura biologica”, un’espressione buona per tutte le orecchie, ma sostanzialmente senza grande significato. Se biologico fosse inteso con naturale, sarebbe ben strano avere il biologico in serra, tanto per dirne una.
Mi pare che in molti casi, il biologico non costituisca un’opzione politica, ma più semplicemente una scelta commerciale.
A me quindi sembra che i termini vadano capovolti, che sarebbe vano attendere segnali di svolta dai contadini, ma che al contrario bisognerebbe fare una coerente scelta ecologica, una coerente scelta che metta in crisi il concetto stesso di economia come perseguimento della crescita del PIL. Solo quando tale scelta sia stata assunta come un obiettivo collettivo da un numero congruo di persone, esso può indicare ai vari settori della società, mondo contadino incluso, la via politica da seguire.