di Carlo Carabba

[Lo scritto seguente è apparso come prefazione al libro di Richard Millet, L’inferno del romanzo, pubblicato da Transeuropa nel 2011, nella traduzione di Stefania Ricciardi].

È verità universalmente riconosciuta che un individuo incaricato di scrivere un’introduzione, debba ricercare le parole più adatte ad elogiare il testo. Partire dunque da quanto, nel libro prefato, non sia parso convincente, da quanto non sia piaciuto, addirittura da quanto sia apparso detestabile, parrebbe stravaganza estranea alle più universali leggi del galateo e del buon senso. Ma è quanto farò io.

Ho trovato l’Inferno del romanzo irritante per il suo nazionalismo – l’ossessione patriottica con cui Millet ripete la parola Francia e gli aggettivi da essa derivati –, risibile nel suo antiamericanismo (frutto di uno spirito competitivo e testosteronico, caratteristico di certi abitanti di un’ex potenza coloniale che lamentano, adducendo pretesti, la scomparsa della propria egemonia e rivolgono i loro strali contro i nuovi potenti, guardati come barbari e usurpatori), irritante nella scelta della forma aforistica, dell’incedere veggente e oracolare delle argomentazioni.

Eppure l’Inferno del romanzo è un libro che chiunque oggi abbia a cuore la letteratura e la produzione di libri (generalmente chiamata editoria) dovrebbe leggere e tenere caro. Le parole di Millet hanno davvero il raro potere di destare dal sonno dogmatico chi le legge.

Che Millet possa provare un qualche piacere nel cercare lo scandalo sarebbe sciocco non crederlo, ma ridurre il suo libro a un tentativo tardivo di épater les bourgeois di un intellettuale irregolare e maledetto sarebbe commettere un grande e grave torto e, schiacciato dal pregiudizio che ama la formula che pacifica, andrebbe perduto il senso del libro.

In realtà ha ragione Millet ad ammonire più volte: le sue tesi non sono mai astruse o incomprensibili o logicamente manchevoli. Anzi, al contrario possono essere macchiate dal difetto opposto e mancare di originalità (è il caso della polemica, di cui si vedrà, contro la banalizzazione linguistica, giusta, certo, ma oramai vexata, ampiamente discussa con superficialità più o meno maggiore da un numero impressionante di scrittori e intellettuali).

Vano sarebbe tentare in questa sede un riassunto del libro, cercare di riorganizzarlo fornendo al lettore strumenti filologici e critici da lui non richiesti per orientarsi nel mare di suggestioni e riferimenti (alcuni dei quali di difficile comprensione per chi non sia esperto di letteratura francese contemporanea – ma quasi mai la mancata conoscenza di un autore citato pregiudica il piacere della lettura o la comprensione del senso delle pagine di Millet), così come non mi pare questo il momento di stilare un catalogo che ripercorra gusti e disgusti di Millet. Come ogni ingegno forte Millet pronuncia alcuni giudizi che suonano aberranti (quello su Robert Louis Stevenson all’aforisma 46, per dirne uno), ma a essi fanno da contrappunto intuizioni geniali, come quella sullo stile di Dostoevskij, in apparenza «precursore dell’assenza di stile, caratteristica del romanzo postletterario», quando invece la sua lingua «ossessionata dall’oralità» è «preda di una febbre simile a nessun’altra che, con le immersioni nei bassifondi dell’anima, ne costituisce il pregio, serbandola straordinariamente sprizzante, per contagio del vivo» (af. 65). Del resto, scorrendo la storia della letteratura, ci si imbatterà non di rado nelle idiosincrasie difficilmente condivisibili dei più grandi autori (l’elenco del Signor Pococurante nel Candido di Voltaire o le lezioni di letteratura di Nabokov sono esempi non lontani dai toni e le opinioni di Millet). Sarà però di grande utilità ripercorrere – senza pretese di completezza, senza ritenere di esaurire il pensiero dell’Inferno del romanzo – alcuni dei punti fondamentali dell’invettiva di Millet, lasciandoci condurre dalla loro forza fino a un crocicchio che può spalancarsi su un burrone, un punto morto o su nuove, felici, strade. Con un’avvertenza da tenere sempre sotto gli occhi: l’Inferno del romanzo non è un manifesto di poetica, non delinea uno stile da seguire, non prescrive ciò che la letteratura deve o non deve fare; piuttosto Millet delinea ciò che la letteratura non deve né può essere.

L’obiettivo, chiaro e insistito, della polemica è quella che Millet chiama postletteratura. La definizione di postletterario si ricostruisce utilizzando successivi dettagli che compongono un quadro tutto sommato chiaro. Postletterario è chi «scrive senza avere letto» (af. 277), la sua principale caratteristica è scrivere senza rendere conto di trovarsi in una tradizione: «Nei postletterari, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio» (af. 346), o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico» (af. 233). L’autenticità data dall’immediatezza è obiettivo dello scrittore postletterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria» (af. 3); «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento» (af. 92). (Opportuno osservare che il postletterario non coincide con il postmoderno, categoria sempre complessa da maneggiare. Semmai, secondo Millet, il postletterario è una «postmodernità che sogna di essere postpostmoderna», af. 83. La postmodernità è l’orizzonte temporale in cui un’epoca si muove e, per Millet, annaspa, ma gli scrittori dichiaratamente postmoderni sembravano avere una consapevolezza di cui l’autore postletterario è privo.) In poche parole l’autore postletterario è quello che considera la letterarietà come un disvalore, che rinuncia a interrogare la tradizione a favore di uno spontaneismo compositivo, in cui l’atto creativo può rispondere a certe regole più o meno apprendibili e formalizzabili, ma mai a uno sguardo sull’«abisso come principio di conoscenza» (af. 290).

Risolta a grandi linee la questione definitoria, si possono individuare i tratti più perniciosi, per Millet, dell’autore postletterario.

Come si osservava il primo e più facile bersaglio è l’omologazione linguistica, che porta con sé l’assenza di stile, il giudizio sprezzante sullo stile «letterario» visto come «superato» (af. 235) o addirittura l’ostilità verso lo stile tout court, inteso come ciò che distingue inconfondibilmente uno scrittore da un altro (le parole di Richard Ford, citate come esempio quantomai pernicioso all’aforisma 47, che suonano curiosamente affini a «oggi il mio stile è non avere stile», verso di una poesia di Postkarten di Edoardo Sanguineti, laddove però l’assenza di stile mostrava il desiderio di anonimato, e dunque di morte).

Maggiore rilevanza però assumono alcuni rilievi assolutamente inediti e controintuitivi, contrari al consenso generale e pacifico. Il primo è l’attacco alla concezione utilitaristica e etica della letteratura, portato avanti sin dall’esergo nietzschiano anteposto al volume: «È sufficiente cominciare a vedere nella cultura qualcosa che ha una sua utilità: si confonderà presto ciò che è utile con la cultura. La cultura universalizzata si trasforma in odio per la vera cultura». Qui Millet prova a violare una delle concezioni centrali e universalmente condivise dagli amanti dei libri: l’utilità della cultura. L’ossessione per l’utilità della cultura (generalmente garantita dalla sua funzione pedagogica e dunque etica) è probabilmente la strategia difensiva di una società permeata dall’idea che solo ciò che sia immediatamente e riconoscibilmente indicabile come utile abbia un valore, cosicché in modo significativo il sintagma “valore della cultura” diviene il leitmotiv da opporre agli attacchi dei nemici. Lo stesso valore però è fatto coincidere non con l’opera in sé ma con la sua capacità educatrice, in un tentativo tardivo di cancellare il sospetto di Platone nei confronti dei poeti. Alla fine dei libri migliori, ammonisce Millet, «si esce non “arricchiti”, come vuole il luogo comune, ma impoveriti, indeboliti, dunque meglio capaci di essere sconvolti, e agguerriti, pugnaci, eminentemente leggeri e profondi» (af. 370).

Il secondo rilievo è quello che contesta l’egemonia del romanzo. Non solo in quanto forma unica, che schiaccia le forme minoritarie del teatro, della poesia o di quei «testi detti inclassificabili nei quali sovente risiede il meglio della letteratura» (af. 6), ma anche, all’interno del romanzo stesso, come trionfo della narrazione sull’introspezione (af. 47 – su questo punto sono persino disposto a accordare qualche legittimità alle pretese nazionalistiche di Millet, laddove in nessuna letteratura l’introspezione ha una centralità paragonabile a quella che occupa nella letteratura francese, Montaigne, Pascal, Proust). L’introspezione in effetti è sovente criticata e messa in ridicolo dall’uso condiviso di due luoghi comuni decisamente triviali: l’irrisione della cosiddetta “scrittura ombelicale” e il fastidio davanti a quella che viene chiamata “masturbazione intellettuale” (o, più rudemente, “seghe mentali”), a favore dell’abilità nello storytelling.

E in buona parte la concezione utilitaristica della letteratura e l’egemonia del romanzo robustamente narrativo sono curiosamente connesse. L’amore per la cultura produce semplificazione e omologazione, chi non sopporta le seghe mentali lo fa spesso a favore di una lettura più produttiva, ai fini della coscienza etica, dell’apprendimento di nozioni tecniche o storiche, o anche, semplicemente, del divertimento.

Su alcune questioni specifiche la lucidità iconoclasta di Millet prova a individuare altre criticità.

Bersaglio di una polemica piuttosto violenta sono le donne. Millet parla di «femminizzazione degli studi letterari e dunque della letteratura» (af. 156), constata che «nella postletteratura il romanzo è femminile: le donne ne sono divenute non solo le prime consumatrici ma anche le più importanti produttrici» (af. 379). Si badi bene, non si tratta di delirio maschilista e misogino. Millet non nega che esistano grandi scrittrici (af. 178) e, al contrario di quanto fanno certi sostenitori della femminilità letteraria e non, si guarda bene dall’affermare che esista una «scrittura specificamente femminile»; eppure, conclude amaro, «ve ne è ben una dal punto di vista di quella ideologia chiamata Donna» (af. 379). Dietro la maschera del politicamente scorretto Millet critica due pregiudizi simmetrici, quello maschile della fatua inutilità del romanzo (per cui l’uomo serio non legge narrativa) e quello femminile della sua nobiltà (secondo cui la lettura – ma anche la scrittura – è appannaggio di spiriti eletti, di anime sensibili).

Poi, in modo solo in apparenza curioso visto il suo lavoro per Gallimard ma assolutamente coerente con le sue posizioni, critica il lavoro dell’editor, visto come «falsario» (af. 36 e af. 530), a favore dell’idea della scrittura come atto costitutivamente e irriducibilmente individuale, finestra solitaria sull’inconoscibile e, come vuole il titolo, sull’inferno (la medesima concezione è alla base del disprezzo di Millet nei confronti delle scuole di scrittura creativa, af. 346).

Infine dura è la contestazione del concetto, postletterario, di autore, che deve essere promuovibile e spendibile (meglio se già noto), più del suo stesso romanzo, arrivando a sostituirsi al libro. «Finora il romanzo aveva un principio: far dimenticare la persona stessa dell’autore; nella postletteratura, la libertà (o la frenesia) di dire tutto fa dimenticare il romanzo, la qual cosa non può avvenire senza la visibilità dell’autore» (af. 11).

Così la diagnosi di Millet assume l’aspetto di una colossale pars destruens che non prelude a un momento positivo ma lascia il lettore di fronte a domande dolorose: è ancora possibile una letteratura? E, ammesso che sia possibile scriverla, è lecito sperare che sia anche letta e diffusa o, come afferma Millet verso la fine del libro, «verrà un tempo in cui non si potranno più pubblicare presso grandi editori i libri che indichiamo sotto il nome di letteratura» (af. 530)?

E la domanda regina che comprende tutte le altre è: nell’epoca del «totalitarismo della democrazia» chi decide del gusto? Una maggioranza sovrana, un capitalismo che manipola una maggioranza bovina, sfruttandone le pulsioni più basse, un establishment culturale fintamente indipendente e colto ma in realtà profondamente superficiale e «postletterario» o un drappello di uomini coraggiosi e nobili che oppongono una sapienza dolente e dolorosamente acquisita alla stoltezza dei tempi? O è ancora possibile pensare, almeno in qualche misura, a un buon gusto cartesianemente diffuso in parti simili tra gli esseri umani? In un motto è la questione irrisolvibile degli arbitri elegantiae e delle preferenze irragionevoli del pubblico.

L’oggi del blog e il domani dell’ebook portano con sé la paura, di cui Millet parla, di una cattiva orizzontalità (come la proverbiale notte delle vacche nere di Schelling su cui ironizza Hegel) in cui tutti i romanzi avranno pari dignità e sarà impossibile tentare di ristabilire gerarchie che non siano quelle del mero dato commerciale.

Pare che Alberto Arbasino osservasse che, con i criteri delle classifiche di vendita, il miglior ristorante del mondo sarebbe McDonald’s. Eppure laddove alla tirannia del mercato si è sostituita quella della critica letteraria, i risultati sono stati ancora peggiori. Lo stato della poesia oggi è miserevole. Non è letta, non è amata, anche molti lettori colti (e conoscitori dei poeti della tradizione) davanti a una raccolta scritta da un poeta contemporaneo storcono il naso e alzando le spalle si schermiscono con finta umiltà: «Sai, io la poesia non la capisco.» Così al poeta non resta, se vuole essere letto e apprezzato, che rifugiarsi in scuole e consorterie, che – più rigide dei corsi di scrittura creativa – impongono regole a cui non si può non rifarsi e da cui si ingenera un fiorire di poeti indistinguibili gli uni dagli altri, poesie di maniera, banalmente e interamente aderenti a un modello.

La letteratura, dunque, non può fare a meno di un pubblico. Può darsi che Millet abbia ragione, e da fare non resti nulla, se non contemplare, con la soddisfazione e il dolore di Cassandra, la fine già in atto.

Ma al di là di ogni retorica della speranza, su questo non sono d’accordo con Millet, e credo che esistano nuove strade non solo per la letteratura, ma anche per i meccanismi di produzione e diffusione dei libri.

La stessa America che Millet detesta tanto profondamente e proprio nei settori che Millet ritiene totalizzanti e aberranti (cinema e televisione) ci fornisce esempi virtuosi di industria culturale (ovviamente Millet non sarebbe d’accordo). Un esempio evidente è la scelta di affidare i film di supereroi (il massimo del mainstream) a registi di nicchia e culto, come Cristhopher Nolan (autore dei fortunatissimi Batman) e Darren Aronofsky (che sta girando Wolverine). E una politica centrata sullo sviluppo di trame anticonvenzionali e tecniche sperimentali ha prodotto la fioritura degli straordinari cartoni animati degli ultimi quindici anni, sia a livello televisivo (I Simpson, I Griffin, South Park) che cinematografico (i lungometraggi post-Pixar, Alla ricerca di Nemo, Shrek, Wall-E, Up). Per non parlare del grado di eccellenza raggiunto dalle produzioni televisive, ormai in grado di attrarre anche i più grandi autori in attività (Martin Scorsese).

Dunque il problema non è il pubblico di per sé, ma la concezione del pubblico che si sceglie di avere.

In Italia tale concezione è schiacciata da un identico pregiudizio portato avanti dalle due fazioni contrarie, che si possono riassumere nei tipi dell’intellettuale sprezzante e del produttore (editore) cinico. Per entrambi il grande pubblico vuole sempre e solo il male, del peggio vuole nutrirsi e l’industria sarà ben felice di nutrirlo del peggio, tutto ciò che non è basso non ha mercato.

L’industria culturale, se vuole sopravvivere, deve abbandonare radicalmente questo modo di pensare. Alla miopia che trascina verso il basso come una catena, si deve sostituire una lungimiranza in grado di diversificare e di investire sul successo (anche commerciale) dell’eccellenza, un’eccellenza che al suo interno comprenda innovazione e varietà.

Altrimenti, arroccati in difesa, si giocherà al ribasso, temendo la propria insignificanza che cresce ogni giorno di più, assediati dal disprezzo universale, perdendo un lettore al giorno fino all’esaurimento delle scorte.

[Immagine: Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point (gm)].

4 thoughts on “Il romanzo nell’epoca della postletteratura

  1. «È sufficiente cominciare a vedere nella cultura qualcosa che ha una sua utilità: si confonderà presto ciò che è utile con la cultura. La cultura universalizzata si trasforma in odio per la vera cultura».

  2. Ma sì che c’è salvezza (umana, ovvio): pensare che la letteratura si ridurrà solo a intrattenimento perché solo di quello avranno bisogno le masse è tirare a concludere in modo un po’ bovino. Anzi, la contemporaneità produce un enorme bisogno di senso, perché nessuna tradizione te lo fornisce più bell’e pronto. Dal punto di vista dei singoli ciò significa che c’è un sacco di gente che si fa seghe mentali. Ecco, quello è un pubblico potenziale per la letteratura vera, quella che lascia “impoveriti, indeboliti, dunque meglio capaci di essere sconvolti, e agguerriti, pugnaci, eminentemente leggeri e profondi” (bello, proprio bello). Certo, è un pubblico che va coltivato e educato, perché facilmente le sirene del contemporaneo gli soffieranno nelle orecchie risposte facili ed egolatriche, adolescenziali, per dare senso alle sue seghe mentali. Se qualcuno, al contrario, proverà a portarlo un po’ più in là e in alto, avremo guadagnato un nuovo adepto alla letteratura e l’avremo tolto dalle grinfie degli psicologi da talk-show. (C’è un assioma dell’ultima serie di Casadei, che capita a fagiolo qui e che mi era piaciuto: “Una conoscenza più profonda della posizione dell’io nel mondo può derivare adesso dalla demistificazione delle mitologie consolatorie: l’arido vero, ora, è che nelle patologie del singolo non risiede alcun senso importante”).

  3. Le riflessioni sulla stato attuale della poesia in Italia sono particolarmente puntuali.

  4. salvezza è una idea del tempo e sempre presente nell’umano.tutti vogliono salvarsi/preservarsi/aumentarsi/possedersi/essere visti/amati…oggi salvezza appare come una sezione della medicalizzazione del corpo in epoca di performance.tutto è “troppo” complesso,lontano,altrove,diverso,mutevole,sfuggente.quello che usiamo per calmarci è salvezza(o ci dicono che emulando così lo saremo,ma la differenza è sottile).se l’energia destinata alla cura(ossia quel che rimane dei sensi ottenebrati dalla medicina) è poca,la letteratura che rompe il ghiaccio dentro appare inutile.da cui volo avallone e tanti altri..

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