Qualche giorno fa, negli studi Rai di Corso Sempione a Milano, ho incrociato casualmente Corrado Levi. Non lo incontravo dal 1972. Uscivo dallo studio dove avevo registrato con Oreste Bossini una puntata di Radio3 Suite dedicata al mio Oscar Poesie 1975-2012. Dopo di me avrebbe registrato Corrado le sue Pennellate all’arte. Incontri con artisti 1930-2012 edite da Corraini.
Sulla porta dello studio Bossini fece l’atto di presentarci:
“Sono stato a pranzo da te con Mario Mieli nell’inverno del ‘72”.
“Ricordo bene, c’era anche Aldo Tortorella”.
“Cucinasti delle frittate”.
“E del riso: sono la mia specialità”.
Regalai a Corrado la copia dell’Oscar chiosata da cui avevo letto:
“Un Clemente in copertina! Parlo anche di lui nel mio libro… Ne ho una copia in più… Te la lascio volentieri”.
Il 1930 è l’anno di nascita di Corrado, e il suo primo “ricordo d’arte” risale proprio ad allora, perché il padre aveva appeso sopra la sua culla dei disegni di De Pisis… Il padre poi ebbe vita dura: dovette fuggire in Argentina e potè ritornare solo a liberazione avvenuta. La madre no, era “cristiana”, potè restare. Ma i figli?
“Alla fine di una lezione”, scrive Corrado, “il maestro di terza elementare mi chiamò da parte e mi disse: domani non venire a scuola. E aggiunse: ricordati che il tuo maestro ti ha sempre voluto bene”.
Perché Mario Mieli ed io, allora ventenni, ci recammo a pranzo da Corrado Levi quarantenne in quell’inverno del ’72? Perché Corrado, che aveva moglie e figli, aveva appena fatto coming out. Erano gli anni del Fuori. Corrado rappresentava per noi la reazione all’ipocrisia e alle costrizioni. Era un modello.
In questo libro, scritto in punta di penna con una delicatezza di tratto insolita e accattivante, Levi – attraverso rapidi bozzetti in successione, senza soluzione di continuità o suddivisioni tematiche – racconta una esistenza di incontri straordinari, e altrettanto straordinarie scoperte, sempre in bilico tra avanguardie culturali (soprattutto artistiche) e understatement:
“Otto Dix. Lessi in un catalogo che abitava a Hemmenhofen. Chiamai l’operatrice della Stipel: c’è in Germania un paese che si chiama così? Sì, cerchi Dix Otto, c’è, lo chiami. Dopo un’ora mi risponde una voce maschile, era Dix: venga a Zurigo prenda un taxi e in mezz’ora arrivi nel tal posto, faccia fermare il taxi, attraversi a piedi un campo, c’è una casetta, io sono lì in Germania. Capii perché era a due passi dalla Svizzera: le sue opere furono dal nazismo distrutte fra quelle degenerate, e non si sa mai… Riattraversai dopo qualche ora il campo e ripresi il taxi. Feci poi comprare al Museo di Torino il quadro (Der) Matrone Fritz Müller aus Pieschen (1919), quello appeso per un angolo, capolavoro. Aveva un viso allungato e scuro, segnato dalla sua grande storia, bellissimo”.
Un libro prezioso, insolito e raro. Vorrei che tutti lo leggessero.
*
Il 4 luglio scorso a Roma, al tramonto, nel Cimitero degli Inglesi alla Piramide dove è sepolto, è stato presentato un volume di Percy Bysshe Shelley, La necessità dell’ateismo, comprendente, oltre alla traduzione integrale del saggio a causa del quale il poeta diciannovenne venne espulso da Oxford nel 1811, anche gli scritti “Sulla vita”, “Su uno stato futuro” e “La condizione del deismo”. La serata, propiziata da Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti) e da Keats§Shelley Memorial House, ha avuto come protagonista la giovane ricercatrice di filosofia della biologia Federica Turriziani Colonna, che per l’editrice Nessun Dogma ha tradotto e curato il volume. Presentandola ho ricordato che Turriziani Colonna è anche co-traduttrice per Mimesis di Ontogenia e Filogenia di S. J. Gould, nonché autrice del saggio Alle origini della specie: embrioni (e uova) (Mimesis 2012). Il suo impegno nel campo di quello che un tempo si sarebbe detto il libero pensiero è emerso sin dalle prime battute del dibattito: proprio il 4 luglio le gazzette erano piene di riferimenti a un fantomatico “dio” con riferimento al bosone di Higgs, e Turriziani Colonna ha esposto al riguardo non solo il pensiero suo, ma anche quello dell’inventore della felice espressione “il tempo profondo”, e persino quello del poeta romantico inglese autore dello “scandaloso” testo.
Che cosa intendiamo noi, per ateismo? “Spesso assimiliamo”, risponde Turriziani Colonna, “una posizione filosofica – la negazione dell’esistenza divina – ad una posizione civile – la laicità”. Lo scritto di Shelley mette in luce precipuamente l’aspetto filosofico della questione, inserendosi a pieno titolo nella tradizione empiristica britannica, in quella linea di pensiero che da Duns Scoto e Ockham, attraverso Ruggero Bacone prima, e Francesco Bacone poi, giunge a David Hume.
Molto interessanti anche le considerazioni a margine dell’ultimo dei saggi citati, “La Confutazione del Deismo”, che si presenta come un dialogo tra Eusebio (colui che crede nella rivelazione) e Teosofo (che pretende di dimostrare razionalmente l’esistenza del dio unico degli abramitici). E qui si inserisce la voce di Shelley, che scandisce: o si usa la ragione giungendo all’atesimo, “o ci si rimette alla rivelazione”, unica possibilità per ammettere ancora che tale “dio” esista. Illuminante la conclusione di Turriziani Colonna: “Resta la terza declinazione della teologia: lo spinozismo”. E l’identificazione totale spinoziana tra “Dio” e “Natura” (che nel lessico di Shelley diventa l’Universo, in altri termini la “totalità”), arriverebbe addirittura a giustificare i titoli delle gazzette sul bosone.
Al termine del pomeriggio ho letto questa mia traduzione di To the Mind of Man di Shelley:
Tu, luce vivente, che dei colori dell’arcobaleno
Rivesti questo nudo mondo, e il Mare
E la Terra e l’aria, e tutte le forme esistenti
Nell’oscurità popolata di questo mondo stupendo:
Lo spirito della tua gloria diffonde
Verità tu Fiamma Vitale
Pensiero misterioso che in questa cornice mortale
Di cose, bruci con vivo splendore
Ora pallido e debole, ora alto nel Cielo increspato
Che langue eternamente come te e ritorna
Sempre
Prima prima delle Piramidi
Al tempo ancora della Terra informe e primitiva
Prima che il passo di un vivente avesse scacciato la tetra solitudine,
Tu fosti, Pensiero: e la tua lucentezza stregò le palpebre
Del grande serpente Eternità, che l’albero
Teneva di bene e male.
E per spiegare ai nostri amici inglesi perché in Italia, quando si parla di ateismo, si finisce inevitabilmente col parlare di laicità, ho citato questi versi del primo Francesco De Sanctis, da La prigione:
… Vinco, allor che perdo; e, quando
Credonmi estinto, più possente sorgo;
Arnaldo muoio, e risorgo Lutero:
Tra le fiamme splendor mando più vivo,
E di sotto alla scure il capo estollo,
Finché di tanti nomi UOMO sol resti.
Vengono i tempi. In lega empia si strigne
Il castello, la Reggia e il Vaticano,
(…)
Il mio pensiero è inestinguibil fiamma,
Che serpeggia invisibile ne’ petti
De’ miei nemici ancor. Io penso e vinco.
E mi riscuoto. E quella voce istessa
Mi torna, ancora, a mormorar nel core:
– Stolto, perché tu pensi? – Ed io pur penso.
L’intenso incontro si è chiuso con la lettura di alcuni scarni dati forniti dall’Accademia Americana delle Scienze: credono in superstizioni, scaramanzie, oroscopi, religioni et similia:
il 99% degli analfabeti;
il 94% di coloro che hanno frequentato solo le scuole elementari;
il 90% di coloro che hanno raggiunto il diploma di terza media;
il 74% dei diplomati;
il 35% dei laureati in materie scientifiche;
il 7% degli scienziati (dai ricercatori ai premi Nobel).
Il legame tra l’aumento delle conoscenze scientifiche e la diminuzione delle credenze è inconfutabile.
Una maggiore diffusione del metodo della scienza – della prova e della verifica – è auspicabile.
*
Qualche settimana fa a Roma, prima alla Luiss, poi al Circolo Mario Mieli, è stato presentato un corposo volume edito dal Saggiatore intitolato L’abominevole diritto, scritto a quattro mani da due giovani studiosi, un docente di diritto internazionale della Bocconi, Matteo M. Winkler, e uno storico dell’arte, Gabriele Strazio, entrambi impegnati nel movimento lgbt italiano.
L’abominevole diritto è una sorta di viaggio attraverso i casi giudiziari che nel mondo occidentale hanno faticosamente liberato le persone gay e lesbiche dall’etichetta di criminali, trasformandoli in soggetti politici. Il libro in sostanza mostra come il diritto abbia saputo gradualmente riscattarsi da quell’abominio che, fino a qualche decennio fa, ancora induceva i giudici di molti paesi a citare il Levitico nelle sentenze di condanna.
Per questo motivo, nella mia relazione introduttiva, ho tenuto a sottolineare la fondamentale differenza tra stati etici e stati di diritto, e in particolare a definire gli stati costituzionali di diritto, quelli all’interno dei quali il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario sono effettivamente indipendenti e sovrani. E riprendendo alcune pagine dal mio Laico Alfabeto, edito due anni fa da Transeuropa, ho cercato di mettere in luce l’arretratezza della posizione clericale italiana, che su questi temi ancora fa leva sulle obsolete concezioni del cosiddetto diritto naturale, mentre il mondo moderno – superata anche la fase del diritto positivo – è oggi approdato al relativismo giuridico.
Nel secondo Novecento si è infatti compreso che un’osservazione oggettiva e distaccata della realtà non è possibile, e che l’osservatore, interpretando la realtà, la influenza necessariamente. Giuristi e giudici non sono indagatori o applicatori di una realtà già data ma, nel momento in cui la interpretano, ne diventano veri e propri creatori. Per il costruttivismo relativistico giuridico di fine Novecento – e l’ambito è quello dei filosofi analitici vs i filosofi continentali – l’uomo contemporaneamente osserva e modifica, influenza e viene influenzato, interpreta e crea. Non è completamente libero, ma nemmeno completamente vincolato; subisce pesanti interferenze da parte della realtà, ma interviene a modificarla. Quindi, se da una parte l’interprete (il giudice) è ancorato alle norme esistenti, in quanto non può prescindere da esse, dall’altra – interpretando le norme giuridiche per applicarle al caso concreto – vi immette sempre qualcosa di suo: influisce su di esse in quanto influisce sulla loro futura interpretazione ed applicazione, crea mentre interpreta. E fa entrambe le cose non in maniera arbitraria, ma sempre fortemente vincolato dall’ambiente storico, culturale e giuridico in cui si pone. Il diritto, secondo il costruttivismo relativistico, è un fatto dinamico, un processo, una pratica sociale di carattere interpretativo, in cui norma giuridica e sua interpretazione interagiscono costantemente.
Ecco perché, semplicemente, non ha più senso – mentre è in corso il dibattito sull’alterità, mentre si fa sempre più accentuato il pluralismo dei valori e degli stili di vita – che il governo di un paese occidentale, membro fondatore dell’Unione Europea, ricorra a una categoria obsoleta come quella del cosiddetto diritto naturale per disattendere alle direttive dell’Unione stessa, conculcando le richieste di milioni di suoi cittadini, in linea coi valori “non negoziabili” dell’unica monarchia assoluta – alias dell’unico stato etico – rimasto sul continente europeo. (Per trovare analogie istituzionali col quale occorre volgersi ad Arabia Saudita, Oman, Qatar…).
In particolare al Circolo Mario Mieli, grazie agli interessanti interventi di Andrea Maccarone e Andrea Contieri, la discussione si è protratta a lungo, permettendo a Matteo Winkler e a Gabriele Strazio di illustrare alcuni concetti di fondo del libro. Anzitutto come, dopo l’emancipazione delle minoranze etniche e la liberazione della condizione femminile, i diritti civili degli omosessuali si pongano come la meta da raggiungere in tutto il mondo civile (alias negli stati costituzionali di diritto). In particolare facendo leva su tre conquiste:
– il matrimonio (o come altrimenti si voglia definire l’unione affettiva di due persone volta alla creazione di un nucleo famigliare);
– l’esperienza genitoriale (omogenitorialità, maternità surrogata, adozione);
– le leggi contro l’omofobia e in particolare contro i crimini d’odio.
Su questi temi si impernia anche l’importante prefazione al volume redatta da Stefano Rodotà, che così conclude: “Si raccomanda questo volume a tutti i cittadini curiosi, a coloro che non si arrendono ai messagi della politica o della chiesa cattolica, ma che vogliono capire il mondo che li circonda, nella speranza che sia sempre meno ingiusto, sempre meno ‘abominevole’”.
[Immagine: David Hockney, The Arrival of Spring in Woldgate (2011) (gm)].
Completamente d’accordo con le tre proposte finali di questo articolo di Franco Buffoni. Anche l’accenno al relativismo giuridico è condivisibile.
“Il legame tra l’aumento delle conoscenze scientifiche e la diminuzione delle credenze è inconfutabile.
Una maggiore diffusione del metodo della scienza – della prova e della verifica – è auspicabile” (con tutto quanto precede).
Gentile Buffoni, non le sembra un po’ tranchant? Ma vorrei dire di più, messa giù così, la faccenda mi inquieta e non poco. Se non l’avessi letta nel diario pubblico di un poeta penserei di avere a che fare, nella peggiore delle ipotesi, con uno scientista sordo a ogni altro verbo al di fuori di quello del dato positivo, nella migliore, con un illuminista ciecamente fiducioso nelle magnifiche sorti e progressive.
Il suo intervento ha una curvatura etica, civile, politica, viste le tre proposte sulle quali si chiude, e su questo non avrei granché da obiettare, visto che sono fra quelli che pensa che l’Italia sia un paese a laicità dimezzata dalla presenza del Vaticano e che su tutte le questioni di bioetica e di diritti civili siamo arretrati in una maniera che dire imbarazzante è poco. Insomma, non perché sia importante la mia collocazione al riguardo, ma perché capisca da che punto di vista scrivo: sono laico e relativista anche io, e sostanzialmente agnostico (ah, ma quanto è difettiva e ambigua questa definizione…). Però quando si parla di educazione ed istruzione in termini così banalizzanti e si pone e risolve il tutto in due parole, dico no, così proprio no.
Non le sfuggirà certo che è perfettamente possibile avere un’ampia e diffusa cultura scientifica senza per questo riscontrare un atteggiamento laico ed empirico in questioni gnoseologiche. Intendo dire che anche la scienza può diventare un totem, e si può avere verso di essa lo stesso cieco fidesimo che si ha verso “superstizioni, scaramanzie, oroscopi, religioni et similia” (il fatto di mettere il fenomeno antropologicamente ricco e complesso delle religioni insieme agli oroscopi e a quel dispregiativo, e francamente offensivo, “similia” è da ricondurre alla responsabilità autoriale dell’Accademia Americana delle Scienze o alla sua?). Ha presente quelli che, forti della loro verità certificata dal metodo sperimentale (e chi potrebbe metterla in discussione?), sghignazzano di fronte a tutti quelli che come lei e me credono nella poesia (words, words, words) come a una forma di CONOSCENZA, non solo di vaga e soggettivistica espressione di sé e delle proprie private ubbie? Il materialismo positivistico delle scienze, vulgato e annacquato (ché quello filosoficamente consapevole e fondato è un altro paio di maniche), diventa né più né meno che una nuova forma di religione, quella che riconosce come proprio dio unico la Realtà: esiste solo ciò che si vede ed è provabile.
Non le sfuggirà certamente anche il fatto che il relativismo da lei invocato come fattore positivo e progressivo mostra anche un’altra faccia della medaglia, lo scetticismo e il cinismo, che di solito vanno di pari passo con l’egoismo più gretto (riassumibile più o meno così: poiché Dio è morto, ora faccio come pare a me).
No, una società liberata dalla religione non sarebbe una società migliore, lo credo profondamente, da laico. Anzi proprio perché sono laico mi piacerebbe che si uscisse da questa coazione lessicale per cui scienza è uguale a metodo per trials and errors. La scienza contiene in sé anche ideologia e retorica; molti altri saperi (quelli umanistici, per dirla in breve e un po’ brutalmente), se realmente interiorizzati e privati di ogni forma di spocchia idealistica o polvere erudita, invitano proprio a quello stesso metodo: a sperimentare su di sé la vita per prove ed errori. Avrei molta paura di uno scienziato che non fosse in grado di applicare alla sua vita intima quello stesso metodo empirico che applica ogni giorno in laboratorio. Chi non è in grado di farlo non è una persona che si sia emancipata dall’oscurantismo delle fedi, ma una che si limita ad applicare una tecnica che gli è stata insegnata e che gli han detto che funziona (indubbio che funzioni: la tecnica ci ha messo a disposizione molte cose nuove e utili, come le cure mediche). Essere davvero in grado di vivere e conoscere per prove ed errori non è un portato della scienza, ma un atteggiamento, una forma mentis, un habitus, che si può avere o no, a prescindere dal titolo di laurea e dal genere di studi.
Crede davvero che basti verificare quella progressione di percentuali di credenti sempre più residuali per certificare che la società si sia emancipata dall’ignoranza?
Non possiamo uscire da questa contrapposizione tra fideisti e laici (e atei) tornando a rileggere Leopardi, grande figlio del sensimo settecentesco e, insieme, uomo spiritualissimo? Non sarebbe utile discutere piuttosto insieme di come l’arido vero della materia sia indubitabile eppure insufficiente? Riusciamo a difendere il diritto dei gay a sposarsi e quello di ciascuno a scegliere se accettare o no le cure di fine vita, senza per questo appoggiarci a statistiche francamente semplificanti nel miglior stile americano e senza “disinfettare razionalmente il cielo” (Jung)?
Ho fiducia che anche lei sia d’accordo con me, visto che nel suo scritto cita anche una poesia di Shelley che è difficile non ascrivere a un sincero sentimento religioso.
Il suddito pontificio Giacomo Leopardi – che per terrore del freddo rinunciò alla cattedra universitaria in Germania (filologia classica e studi danteschi) – a Roma non potè lavorare nemmeno come bibliotecario per il rifiuto a indossare l’abito talare. Lo stato in cui era nato, di cui aveva il passaporto – uno stato che aveva sudditi da Pesaro al Garigliano – gli chiedeva solo di essere ipocrita. Come ogni stato etico.
A Leopardi – suddito pontificio dissidente – mi accade di pensare quando certi eventi pubblici e parlamentari contemporanei paiono costituire delle vere e proprie rese “ai preti”, che “possono ancora e potranno eternamente tutto”. (Dalla Lettera a Luigi De Sinner del 22 dicembre 1836: “La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto”).
Di Leopardi che ritorna col pensiero a Roma
Dalle pendici del Vesuvio: “Anco ti vidi /
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade /
che cingon la cittade”. Desolazione per desolazione,
Naturale per intellettuale, deserto per deserto…
Di Leopardi suddito dello stato pontificio
Liberale clandestino in ideologico isolamento
– Il ridicolo e il grottesco delle Operette
Per eccellenza armi illuministiche
Contro antropocentriche metafisiche –
In quell’angusto regno del silenzio
Dalle mostruose tipologie censorie
Che fu il governo della
Reverenda Camera Apostolica.
Roma desertica.
Caro Conte Giacomo,
con riferimento al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, è stato da molti osservato che, facendo risalire all’ignoranza e alla credulità acritica l’origine delle credenze magico-oracolari pagane, tu in realtà abbia liberato te stesso da tutte le nozioni che non reggevano alla luce della ragione.
Anche Ghan Singh, uno dei tuoi migliori traduttori in lingua inglese, sostiene questo; tuttavia da cattolico naturalizzato irlandese aggiunge: “Ciò in effetti provocò in Leopardi un altro dualismo: la sua condanna della ragione e, nello stesso tempo, la sua incapacità ad aderire a quelle idee e credenze che non reggono ad un esame critico. Così, suo malgrado, Leopardi è, insieme, l’apostolo e il critico del razionalismo”.
Capisco, stai per arrabbiarti. Per favore non farlo. Lo so bene che alla ragione intesa come ragionevolezza continui a tenerci molto.
Per te il vero è nella filosofia; il bello nella poesia. C’è una famosa lettera dello Zibaldone in cui dichiari esplicitamente che in ogni grande filosofo è un grande poeta e in ogni grande poeta è un grande filosofo. Una volta raggiunta – invero molto precocemente – la convinzione della impossibilità di rigenerazione – o persino di conoscenza – attraverso una palingenesi di stampo salvifico, anche per te la filosofia diventò scienza. E come Bacone, come i primi grandi greci, ti occupasti di scienza dichiarando di star facendo filosofia. Sempre temendo, naturalmente, l’alterigia, la supponenza dell’”arido vero”, ma fortemente percependo come irrinunciabile tale propensione alla ricerca.
Se penso che poi furono Gladstone e De Sanctis, Croce e Gentile principalmente a divulgare il tuo pensiero, posso ben capire le ragioni dell’equivoco (tanto duro a morire) circa il rapporto tra te e la ragione. Pensa che, nel Novecento, quando – giustamente – si tentò di tracciare un parallelismo tra il tuo pensiero e quello di J. S. Mill – sulla linea dei giudizi di Gladstone prima e di Matthew Arnold poi – lo si fece in tono negativo, considerando “distruttivo” il pensiero delle Operette e definendo, come fa Helen Zimmern, “nata morta” tout court la tua filosofia.
Ti prego, non stracciare il foglio, continua con la tua coppa di gelato al pistacchio, versati il rosolio e ascolta quanto il pregiudizio teleologico possa ancora obnubilare le menti. Tre sono i punti cardine su cui Zimmern vede convergere “negativamente” il pensiero di Mill e il tuo: “Entrambi credono che un cieco caso governi l’universo, che il male trionfi più spesso del bene e che la natura segua le sue leggi inesorabili senza tener conto dell’uomo”.
Dopo aver letto la Autobiography di Mill, mi sono convinto che la convergenza tra le vostre concezioni non solo resti, ma sia ben positiva: basta rileggere i tre punti anzimenzionati scevri da pregiudizi di carattere teleologico. E al primo punto basta togliere l’aggettivo “cieco”; al terzo confermare letteralmente l’affermazione che la natura segue le proprie leggi (che lo faccia inesorabilmente è solo una prova della sua serietà; e che lo faccia senza tener conto dell’uomo fa sorgere l’inevitabile contro domanda: perché mai dovrebbe tenerne conto?).
Quanto al secondo punto – la convinzione che il male trionfi più spesso del bene – la riflessione potrebbe articolarsi molto a lungo, ma appare arduo sostenere che una concezione finalistica dell’esistenza possa portare a compiere più facilmente il “bene”.
«…Non io / Con tal vergogna scenderò sotterra».
Qual è, quindi, la “vergogna” di cui, nella Ginestra, giuri che non ti saresti mai macchiato? Ricorrendo alla terminologia già usata, si potrebbe affermare: la vergogna di aver ceduto ad una credenza finalistica, ad una concezione teleologica dell’esistenza. E in questa prospettiva viene ad essere completamente ribaltata l’accusa che per tanti decenni ti è stata mossa. La vera alterigia è quella di chi, non sapendo accettare umilmente il proprio stato di mero caso biologico, giunge a ritenersi – per via forse di rivelazione – un essere in qualche modo “eletto”, e spregiando il “finito” persegue la propria finalistica elezione sopra a tutte le altre specie.
“Io tengo per fermo”, afferma il Folletto nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, “che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”. Ma non è ai cinquant’anni che separano questo tuo dialogo dalla teorizzazione darwiniana che voglio pensare a conclusione della mia lettera. Sarebbe pertinente, ma consolatorio. Molto più in sintonia col tuo pensiero non consolarsi affatto, scorrendo le proposte del vicepresidente del Cnr [>Calamandrei] per l’insegnamento delle scienze, e apprendendo che il creazionismo è stato reintrodotto nei programmi scolastici di alcuni stati americani con pari dignità rispetto all’evoluzionismo.
Ti lascio, conte Giacomo, pensando alla tua solitudine intellettuale: per esempio a quando cogliesti la nozione di “tempo profondo” e non avevi nessuno a cui dirlo. Te lo scrivo in poesia – si parva licet – e ti abbraccio.
Ho pensato a te, contino Giacomo, vedendo
Su una rivista patinata
Le foto degli scavi in Siria a Urkish,
A te e ai tuoi imperi e popoli dell’Asia
Quando intuivi immensamente lunga
La storia dell’umanità.
Altro che i Greci il popolo giovane di Hegel
O il mondo solo di quattromila anni della Bibbia
Credendo di dir tanto, fino a ieri.
Tu lo sapevi che sotto sette strati stava Urkish
La regina coi fermagli
L’intero archivio su mille tavolette
Già indoeuropea nella parlata
L’accusativo in emme. Capitale urrita
Dai gioielli legati all’infinita pazienza
Dei ricami in oro. Tu lo sapevi che poi gli Hittiti
Sarebbero giunti a conquistarla,
Già loro vecchi e di vecchi archivi nutriti…
Sono stufo di preti e di poeti, conte Giacomo.
E di miti infantilmente riadattati.
Pagina tratta da F. Buffoni, Laico Alfabeto, ed Transeuropa 2010
@ Buffoni
Ammiro i liberi pensatori. Quando, però, un libero pensatore (aspirante o a tutti gli effetti come lei) vuole condurre una lodevole lotta contro posizioni retrive (in questo caso quelle che negano i «diritti civili degli omosessuali») , attestandosi su posizioni che per me sono politicamente retrive, mi sento di dirgli: Alt.
Perché, infatti, ritengo retriva la posizione che si ferma alla distinzione «tra stati etici e stati di diritto». E considero più valida, anche se oggi rimossa (da alcuni perché non conosciuta, da altri per scelta non so quanto motivata e non opportunistica), la critica allo Stato di origine marxiana, leniniana e gramsciana.
Non riuscendo a rimuoverla io, dubito dell’ampiezza del libero pensiero altrui. E perciò
non capisco come un poeta e una persona aperta alle scienze possa accettare la favola che negli stati costituzionali di diritto « il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario sono effettivamente indipendenti e sovrani».
Credo, dunque, giusto ricordare a chi sta magari faticosamente arrampicandosi su una altura, che egli crede una collinetta, che in realtà c’è da scalare un monte vero e proprio e molto rischioso e che sarebbe meglio saperlo.
In altre parole, lasciando ora da parte discorsi teorici( che sarebbero importantissimi e necessari), un magistrato, per quanto non «completamente vincolato» non è però «libero». (Quel «completamente» è troppo speranzoso…).
Perché il suo ‘io’ – fosse pure quello di un libero pensatore (Kant etc.) – partecipa di un ‘noi’ ben preciso e direi davvero vincolante: l’Ordine dei magistrati. E cioè di un apparato dello Stato (niente affatto neutro!) *strutturalmente* (oh, che parola arcaica e sgradevole!) congegnato in un certo modo, dal quale non si “sgarra”.
Quale modo? Quello che porta ad affermare – questo è il “gioco democratico” – il “diritto” delle lobby più potenti che nello Stato hanno facoltà di agire (sia apertamente che velatamente).
Mi pare giusto ripeterlo, sia pur invano.
Perché i fatti e la storia d’Italia cantano.
Ma “canta” anche la storia della magistratura. Che al di là della sua “elevazione” in cieli tiepoleschi da parte dei mass media, su cui molto ci sarebbe da preoccuparsi, arriva quasi sempre (quando arriva) a modificare una realtà (legislativa) *ex post*. Solo cioè quando altre forze sono state in grado di imporre modifiche nella realtà extra-legislativa (poi recepite da alcune delle lobby più “democratiche” della magistratura in sintonia con altre forze “democratiche” e imposte alle “meno democratiche”).
Mi perdoni le aride e archeologiche cose appena scritte.
@ Daniele Lo Vetere
“Non le sfuggirà certamente anche il fatto che il relativismo da lei invocato come fattore positivo e progressivo mostra anche un’altra faccia della medaglia, lo scetticismo e il cinismo, che di solito vanno di pari passo con l’egoismo più gretto (riassumibile più o meno così: poiché Dio è morto, ora faccio come pare a me).”
Non vedo cosa ci sia di male nello scetticismo. Ma comunque…la storia mostra che massacri, stragi, olocausti sono stati commessi da persone religiosissime. L’esistenza di Dio non e’, e non e’ mai stato, un freno, anzi. Lei puo’ pure pensare che senza religione sarebbe addirittura peggio (magari per le persone che conosce lei, ad esempio…), ma se si riferisce alla societa’ e’ smentito dai fatti. Non c’e’ certo bisogno di fornire lenzuolate statistiche per dimostrare che tasso di religiosita’ di un paese e benessere (nel senso migliore del termine) siano indirettamente proporzionali.
Perche’ mai “l’arido vero della materia” sarebbe insufficiente? Io scommetto che lei non sa come funzioni una capillare, un temporale, una poesia in lingua araba, un telefono, una supernova, pero’ e’ certo dell’insufficienza della materia. Mah…
Nel finale del mio precedente intervento in questo thread, dopo la menzione del vice-presidente del CNR (oramai ex, De Mattei) appare tra parentesi il nome di Calamandrei. Si tratta di un rimando a un’altra voce del libro, che in questa sede doveva essere espunta.
“Nel secondo Novecento si è infatti compreso che un’osservazione oggettiva e distaccata della realtà non è possibile, e che l’osservatore, interpretando la realtà, la influenza necessariamente. Giuristi e giudici non sono indagatori o applicatori di una realtà già data ma, nel momento in cui la interpretano, ne diventano veri e propri creatori. Per il costruttivismo relativistico giuridico di fine Novecento – e l’ambito è quello dei filosofi analitici vs i filosofi continentali – l’uomo contemporaneamente osserva e modifica, influenza e viene influenzato, interpreta e crea. Non è completamente libero, ma nemmeno completamente vincolato; subisce pesanti interferenze da parte della realtà, ma interviene a modificarla. Quindi, se da una parte l’interprete (il giudice) è ancorato alle norme esistenti, in quanto non può prescindere da esse, dall’altra – interpretando le norme giuridiche per applicarle al caso concreto – vi immette sempre qualcosa di suo: influisce su di esse in quanto influisce sulla loro futura interpretazione ed applicazione, crea mentre interpreta. E fa entrambe le cose non in maniera arbitraria, ma sempre fortemente vincolato dall’ambiente storico, culturale e giuridico in cui si pone. Il diritto, secondo il costruttivismo relativistico, è un fatto dinamico, un processo, una pratica sociale di carattere interpretativo, in cui norma giuridica e sua interpretazione interagiscono costantemente.”
Ecco, lo stesso autore nel testo che ho riportato, da’ la motivazione che impedisce alla scienza di aver euno statuto sui generis, un fondamento epistemologico che la elevi rispetto a tutti gli altri saperi, io non potrei dirlo meglio.
Dovremmo forse concludere che l’articolo è stato scritto da due differenti persone, l’una che mette in crisi il metodo sperimentale, e l’altra che lo deifica…
Nel pezzo che ho citato però, c’è dell’altro, c’è l’ideologia liberale che vede la cultura come fattiva creazione della pluralità degli individui che vengono influenzati e a loro volta influenzano l’ambiente. Perccato che nella società reale c’è chi ha mezzi per influenzarlo davvero l’ambiente, mentre per quasi tutti gli altri l’interazione consiste esclusivamente nell’assorbire l’ultimo dei messaggi pubblicitari diffusi sui media.
Gli interessi particolari dei pochi “influenzatori” stanno di fatto portando al disastro l’intero mondo con una crisi sistemica di cui ancora si vuol ignorare la profondità direi epocale, ed ancora stiamo quia baloccarci con lo stato di diritto che dovrebbe basarsi su due soli elementi, da una parte la legge e dall’altra la morale individuale.
Ebbene, questa cosa non funziona, lo ripeto da anni solitariamente ed inascoltato, ma guardate che se non ci fosse un ethos condiviso, col cacchio che potremmo costituire una società, e la legge ha in fondo anche la funzione di creare questo ethos, senza cui letteralmente qualsiasi società deflagherebbe perchè sarebbe impossibile convivere senza che nascano mille conflitti interindividuali.
Il liberalismo può declamare la morte dell’ethos, perchè nei fatti l’ethos si crea spontaneamente, soltanto che non si tratta di un ethos consapevolmente assunto, ma del prodotto casuale dell’interazione tra tutti gli interessi particolari con i riusltati che abbiamo davanti agli occhi, che cioè tale ethos riproduca alcune caratteristiche istintuali della nostra specie in un contesto in cui tale istinto assume una funzione distruttiva.
Mi scuso per lo stile così conciso dallo sfiorare l’incomprensibilità, magari posso chiarire in seguito.
@ Buffoni e a tutti/e
A riprova della non indipendenza, non neutralità e non trasparenza della magistratura ecco dopo la lunga sequela di assoluzioni e mancate soluzioni dei “misteri d’Italia” ( da piazza Fontana a piazza della Loggia) le ultime sentenze sui fatti di Genova 2001. Si confrontino le condanne per i funzionari della polizia intervenuti alla scuola Diaz e quella dei manifestanti che hanno commesso “azioni delittuose” in piazza…
@ Buffoni. Grazie della citazione, che arrichisce il discorso e spiega quel tanto di troppo reciso che vi sentivo (mi scuso se non conoscevo il suo testo: ovviamente nominando Leopardi non intendevo segnalarne l’ignoranza – ci mancherebbe -, solo introdurre nella riflessione l’autore che più di ogni altro ha pensato in termini di complessità il rapporto tra ragione e fede – per lui illusioni -, natura e cultura, materia e spirito).
Io però continuo ad essere convinto che il fascino e la grandezza di Giacomo stiano proprio in quello che Singh, da lei ricordato seppur con una precisazione diminutiva, chiama “dualismo”: non poter negare l’evidenza del vero, circoscritto dalla ragione e dalla moderna scienza, senza per questo potersene appagare. Stanco di “miti infantilmente riadattati”, che decostruisce e irride, egli però cerca anche (ecco l’altro corno del dilemma dualistico che riemerge) di reperirne di più profondi e meno bambineschi. Cesare Galimberti parla delle visioni di L. come di visioni “di un mondo […] in cui figure, cose, eventi, appaiono tutti nella loro finitezza e, nello stesso tempo, investiti di sensi esemplari […] segni tutti – figure, cose, eventi – di una dissimulata mitologia, che ha ritrovato d’istinto, al di fuori di qualsiasi ricorso classicistico, il suo fondo originario e la carica di verità delle ‘prime’ mitologie” (in “Leopardi: meditazione e canto”). Non solo distruzione delle illusioni, ma anche rinnovata mitopoiesi, benché ad una profondità di tutt’altro grado rispetto a quella dei banali teleologismi del suo secolo.
@ Galimberti. Scetticismo è parola plurivoca. Non la intendevo in senso filosofico, ma nel volgare senso comune (il più diffuso, proprio in società, diciamo, postreligiose, in cui vige la “libertà obbligatoria”: Gaber): “nulla è assoluto, posso dire (e fare) più o meno tutto quello che mi pare, la riflessione morale è roba troppo complessa per star lì a saggiare ragioni, coerenza e fondatezza delle proprie scelte, tanto ognuno segue più o meno le mozioni delle trippe e fa i suoi comodi, perciò faccio così pure io” (ecco il cinismo e l’egoismo).
Se lei per società senza religione intende senza dogmi e chiese-istituzioni-monocrazie, io ci sto. Io però intendevo società senza senso del religioso, o, se preferisce (io lo preferisco), senza senso spirituale: se lei intende questo, allora ribadisco il mio no. (Tolga pure a “spirituale” ogni connotazione propria delle religioni positive e ogni sfumatura new age. Lasci però le venature mistiche, la commozione estetica ed estatica, il senso sgomento di finitudine, …).
La materia, se davvero è materia, solo e soltanto materia, non ha senso alcuno, senza l’intervento di una res cogitans, di un soggetto, di un dio che la informi di sé (anche qui tolga alla parola dio le connotazioni già ricordate). La distinzione non è assoluta, vale ovviamente entro certe categorie concettuali, occidentali a quanto ne so (e nemmeno questo è un assoluto: Spinoza è occidentale e non sarebbe d’accordo). Comunque il mio discorso era legato al pensiero di Leopardi e lo citava, non erano mie esclusive affermazioni. Io non sono affatto certo dell’insufficienza della materia e se trovo un senso in un temporale o in una poesia araba, che lei così gentilmente ipotizza neanche sappia come funzionino (ma in che senso intende “funzionare”? Lei elenca oggetti naturali e culturali e non vedo in cosa essi siano tutti egualmente espressione di una materia per me “insufficiente”), certamente avrò trovato in quelle cose un senso, un senso entro la materia, ecco. Ma, sempre secondo le categorie di cui sopra, non sarebbe più materia – che è inerte, res extensa – ma spirito, pensiero, logos, più genericamente significato: lo si può chiamare in molti modi.
Credo che la distinzione tra fede e ragione, chierici e atei sia una distinzione solo di superficie. Preferisco questa, che tra l’altro è trasversale alle distinzioni appena nominate: persone capaci della sola interpretazione letterale del mondo VS persone capaci di un’i. spirituale (littera occidit ecc…), che sanno guardare tra i dati (nelle loro pieghe) e oltre essi.
I religiosi che hanno compiuto stragi, massacri, olocausti erano dei letteralisti (dei dogmatici), ok. Ma esiste anche un letteralismo laico (e vogliamo non nominare Robespierre, la “Dea Ragione” e i giacobini, visto che parliamo di olocausti?). Quanto alla correlazione inversamente proporzionale tra tasso di religiosità e di benessere (ma continua a spiacermi questo lessico economicistico e statistico in temi come questi), capisco cosa vuole dire, ma non è una verità così lapalissiana. Benessere? E’ così sicuro di cosa sia di preciso? Forse le cose sono un po’ più complicate: stress, depressioni, varie forme di angoscia non sono mai state tanto diffuse come nelle società odierne, sostanzialmente areligiose (se poi pensiamo a quello che a noi latini pare il non plus ultra del laico benessere, la Svezia, non ha forse raggiunto quote altissime di suicidi già nei decenni passati, quando noi si andava ancora allegramente a messa?). No, l’oscurantismo e il bigottismo religiosi non li rimpiango proprio, ma pensare che eliminati i preti avremo eliminato gli ostacoli al “benessere” mi sembra una pia illusione o un equivoco, forse perfino viziato da un tocco di teleologismo storicistico.
Segnalazione in tema:
http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/2193-wu-ming-4-genova-2001-e-la-sentenza-10t100-orizzonti-di-gloria.html
Me lo ricordo Levi al politecnico, un personaggio! Ricordo una piccola bella mostra organizzata da un collettivo gay del Poli con foto di Mapplethorpe di proprietà di Levi, mitico!
Ma sei sicuro sia del ’30? Mi pareva fosse del ’36…
@Gianni
E’ del trenta, e in questi giorni sta festeggiando le sue 82 estati splendidamente in vacanza in Marocco…
@ Buffoni e Biondillo
Rammemorando il Poli
dimenticarono la Polizia.