cropped-Dante_and_beatrice1.jpgdi Alessio Baldini e Anna Pegoretti

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori  del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso.  È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 17 luglio 2012].

Le riflessioni che seguono nascono da un’esperienza di insegnamento in Inghilterra. Quello che vorremmo comunicare è il senso di una differenza. Ci interessa il confronto fra due modi di insegnare e di intendere la letteratura: quello italiano da una parte, quello inglese dall’altra.[1] Quanto diremo sarà schematico e parziale; la nostra speranza è che possa comunque risultare interessante. Abbiamo deciso di parlare di un corso di introduzione a Dante, tenuto in un’università inglese e pensato per studenti di una laurea triennale in inglese o in letterature classiche – i testi venivano dunque letti in traduzione. Secondo noi si tratta di un caso su cui vale la pena riflettere, almeno per le seguenti ragioni. Anzitutto, l’insegnamento di base trasmette ciò che è considerato fondamentale in una disciplina, ciò su cui al momento non si discute o su cui c’è l’accordo dei più. Per farsi un’idea degli studi letterari e di cosa si intenda per “letteratura” in Inghilterra, guardare cosa accade in un corso di base è sicuramente un buon modo. Inoltre, per la sua importanza nella cultura europea, Dante si presta bene a rappresentare per metonimia la letteratura tout court. Infine, essendo pensato per studenti di letteratura e non di lingue e letterature straniere, forse questo corso rappresenta meglio l’idea inglese di insegnamento della letteratura in generale.

Avrete notato che non parliamo di ricerca. Anche questo è un tema importante; fare un confronto fra la ricerca in Inghilterra e in Italia comporterebbe però altre considerazioni, che ci porterebbero fuori strada. Quello che ci interessa qui è il modo in cui una società intende la letteratura: per questo è forse meglio partire dall’insegnamento di base, piuttosto che dalla ricerca.[2] È durante gli studi di base che gli studenti inglesi si formano un’idea di che cosa sia la letteratura. Dopo la laurea, la maggior parte degli studenti entra nel mercato del lavoro; la piccola parte che prosegue gli studi con un master riceve una formazione professionale o conduce già una ricerca specialistica, che poi potrà magari approfondire con un PhD. Si potrebbe obiettare che la ricerca ha un impatto sui contenuti e sui metodi didattici già al livello di base, e che in Inghilterra c’è uno stretto rapporto fra didattica e insegnamento. Questo è vero; abbiamo deciso però di osservare la ricezione e lo studio della letteratura sulla “media durata” delle tradizioni nazionali, più che sulla breve durata del dibattito interno a quelle tradizioni: ancora una volta, è nell’insegnamento che si deposita ciò che fa la continuità di una tradizione. Ciò che diremo non riguarda dunque la particolare interpretazione di Dante proposta nel corso, ma l’uso di Dante e della letteratura trasmesso agli studenti.

 Cominciamo dall’Italia. Nell’insegnamento di base della letteratura si parte dal contesto: i testi sono anzitutto monumenti e documenti di un’epoca. L’obiettivo dell’insegnamento è far percepire una tradizione che attraversa i secoli, con le sue fratture interne – si insegna a pensare per epoche e a percepire continuità e distanza storiche. Invece di essere strumenti usati per comprendere i testi, epoche e secoli sono i realia che si incarnano nei commenti di un testo o di un canone di brani antologici. Prima vengono le epoche, poi vengono i testi, non viceversa. È per questo che l’Italia produce una quantità enorme di storie della letteratura e che gli insegnamenti più importanti sono quelli di storia della letteratura italiana.

La formazione universitaria di chi studia Dante in Italia poggia su due elementi. Il primo elemento è lo studio analitico del testo: si deve essere in grado di commentalo nei suoi aspetti metrici, retorici e stilistici, usando gli strumenti critici di base (solitamente Contini, l’Auerbach degli Studi su Dante, i commenti più recenti, fra cui spicca tuttora l’asciutto ed equilibrato Pasquini-Quaglio). L’altro elemento è una forte contestualizzazione storica: grande considerazione godono gli studi storiografici sul Medioevo. La distinzione fra il poema e le opere cosiddette minori è implicitamente avallata. La preparazione viene verificata con un esame orale, in cui lo studente deve dimostrare di avere appreso i contenuti trasmessi dall’insegnante; di rado la verifica include anche la scrittura di un testo – la cosiddetta “tesina” –, in cui lo studente usi le sue letture e le informazioni ricevute per proporre una sua interpretazione.

Prima ancora di entrare all’università, lo studente italiano ha però già incontrato Dante. La figura di Dante fa parte dell’album di famiglia degli italiani: il suo nome è quello di scuole primarie e secondarie, di strade e piazze, dove magari si trova anche un suo monumento; frammenti della vita e dell’opera di Dante abitano la memoria dei parenti o si trovano fra i libri di scuola. Ci sembra che in Italia la domanda se e perché studiare questo autore non si ponga: Dante è considerato il fondatore della lingua e della letteratura nazionali, e il suo nome compare fra i “padri della patria”. Il nostro punto di partenza è insomma ancora il Dante romantico e risorgimentale. Limitandoci alla presenza di Dante nella cultura e nelle istituzioni educative, possiamo dire che c’è una forte continuità da Sopra il monumento di Dante di Leopardi ai programmi scolastici e universitari, fino alle letture dantesche di Benigni.[3]

Al di fuori dell’Italia tutto questo non esiste. Perché allora studiare Dante? Questa è la prima domanda che si pone e ad essa si può rispondere in molti modi. Il Dante inglese non è il poeta su cui l’Italia post-unitaria ha costruito una lingua e un’identità nazionali: è il grande poeta della cultura medievale. In letteratura Dante occupa una posizione simile a quella occupata da Platone in filosofia: è l’autore che segna l’inizio delle grandi letterature europee in vernacolo. Appena si risponde a questa domanda, ne sorge però subito un’altra: che cosa significa Dante per noi oggi? In Inghilterra non ci sono i segni di una tradizione e di un’identità nazionali che aiutino a trovare una risposta. Non c’è dunque altra scelta che partire dal testo, sperando di trovare nel testo delle risposte. Gli studenti che scelgono di seguire i corsi danteschi leggono i testi per intero: nel caso del corso di cui stiamo parlando, chi segue le lezioni per due anni leggerà tutta la Commedia e la Vita nova. Viene inoltre loro proposta una bibliografia di orientamento e offerto aiuto per la scrittura di saggi e commenti. La verifica della preparazione è condotta solo ed esclusivamente sui testi scritti dagli studenti. Non ci sono esami orali e non ci sono letture obbligatorie, esclusi ovviamente i testi che sono oggetto dei saggi e dei commenti; nel nostro caso sono i testi danteschi: ogni studente sarà responsabile della propria preparazione e verrà giudicato in base a ciò che scrive. Allo studente si chiede di argomentare in modo chiaro una tesi personale su un argomento dato che riguarda il testo, di seguire le convenzioni del saggio o del commento, di mostrare una conoscenza della bibliografia primaria e secondaria, di rispettare le scadenze di consegna.

In principio, dunque, è il testo, o meglio la lettura del testo. Settimana per settimana, gli studenti leggono da soli Dante, per farsene un’idea e senza preoccuparsi di capire ogni cosa – alla fine del primo anno di corso, gli studenti avranno letto tutto l’Inferno e tutta la Vita nova (nel nostro caso in traduzione). In primo luogo quindi gli studenti leggono la Commedia come un testo che racconta una storia, abbandonando qualunque soggezione e assumendosi la responsabilità di capire e interpretare. Nel frattempo le lezioni frontali offrono loro un minimo di contesto (l’Italia medievale, l’alterità del Medioevo cristiano, ecc.) e qualche nozione teorica, retorica e stilistica di orientamento (similitudine, allegoria, realismo, ecc.); infine i seminari sono dedicati ad alcuni canti, che gli studenti commentano sotto la guida di un docente o di un dottorando.

Ciò che succede in una classe universitaria anglosassone è perfettamente descritto nel recente Not for Profit di Martha Nussbaum: «Come può un’educazione di tipo liberale insegnare i valori socratici? A livello universitario, la risposta a questa domanda è ragionevolmente semplice. Per cominciare, il pensiero critico dovrebbe essere incorporato nella strategia pedagogica di classi di differenti materie, in cui gli studenti imparano a mettere alla prova e valutare i dati, a scrivere saggi con una valida argomentazione, e ad analizzare gli argomenti presentati loro da altri testi».[4] La centralità della lettura dei testi è uno degli elementi che fanno la continuità dell’idea di letteratura nella tradizione di lingua inglese. Non a caso nel 1929 T. S. Eliot inizia il saggio su Dante con queste parole: «Nella mia esperienza di apprezzamento della poesia, ho sempre trovato che, meno sapevo del poeta e della sua opera prima di iniziare a leggere, meglio era. (…) Quantomeno, è meglio essere spronati a crearsi una conoscenza in materia perché si apprezza la poesia, anziché apprezzare la poesia perché si è acquisita una dottrina».[5] Solo nelle pagine successive Eliot richiama la necessità di una certa conoscenza del Medioevo, per capire la poesia dantesca e in particolare l’uso dell’allegoria.

A quasi un secolo di distanza l’uno dall’altro, Eliot e Nussbaum descrivono un uso della letteratura che è quello ancora praticato nell’insegnamento di base in Inghilterra. Questo modo di intendere e di insegnare letteratura si basa sulla centralità dell’esperienza. Si partedall’esperienza culturale ed esistenziale dello studente, cioè dal suo orizzonte d’attesa. Al centro si trova la lettura del testo come esperienza. L’obiettivo finale è la comprensione dell’esperienza poetica e culturale che l’autore consegna al testo. L’idea della Commedia come testo monumentale dotato di una coerenza sistematica è sostituita dall’idea del poema come prodotto di un lavoro creativo e di un travaglio esistenziale, la cui comprensione è un esercizio formativo per l’individuo. È questa l’idea di letteratura che ci restituisce anche la pagina in cui uno studente di dottorato inglese spiega i motivi che lo hanno spinto a fare ricerca in ambito letterario: «amo studiare la letteratura perché è attraverso di essa che possiamo realmente comprendere la mente umana. Mi interessa lo studio delle lingue straniere perché mi piace conoscere diversi modi di pensare. Amo il mio particolare settore di studio [la letteratura italiana medievale] perché mi costringe continuamente a pensare in modo diverso. (…) So di essere migliorato sul piano intellettuale ed emotivo».

Molte introduzioni a Dante scritte in inglese fanno eco a queste parole; di nuovo è centrale il richiamo all’esperienza, in uno o più degli aspetti a cui si è accennato: «rappresentando se stesso come protagonista della storia che racconta, Dante scrive di un viaggio che è contemporaneamente interiore ed esteriore: interiormente si appresta a esplorare sia il peggio sia il meglio di cui gli esseri umani sono capaci; esternamente esplora nientemeno che l’intero universo fisico e spirituale. A ogni passo, il narratore drammatizza lo shock o il piacere della scoperta; a ogni livello, il poeta produce parole e immagini adatte a ogni nuovo sviluppo dell’esperienza»[6]. Sempre lo stesso critico commenta così la scelta di Dante di abbandonare il Convivio a favore della Commedia: «[Dante] si era reso conto che la poesia — in particolare la poesia epica — poteva servire a uno scopo di tipo morale e filosofico»; in modo simile l’Eneide di Virgilio viene letta come il «resoconto di una filosofia messa in pratica», incarnata nell’esperienza di Enea — «filosofia qui significa sapere ciò che è giusto e trovare un modo di trasformare questa conoscenza in azione»[7]. L’esperienza creativa di Dante è al centro dell’introduzione di Holmes: «Dante appartiene a quel genere di uomini che cercano di elaborare una soluzione generale ai principali problemi intellettuali e sociali della sua epoca. Molti scrittori ci hanno provato, ma il successo di Dante nel dare corpo in poesia alla sua risposta è forse insuperato»[8].

Se apriamo le introduzioni italiane a Dante, il contrasto appare evidente. Ci troveremo anzitutto di fronte a biografie, quelle Vite di Dante inaugurate da Boccaccio e riscritte nel Novecento da grandi storici e critici letterari come Giorgio Petrocchi e Michele Barbi. Il libro di Barbi inizia con un lapidario «Nacque Dante in Firenze nel maggio del 1265».[9] Più intrigante lo straordinario attacco di Contini: «Dante (ipocorismo di Durante) nacque nel maggio o nel giugno (segno dei Gemelli) del 1265».[10] Petrocchi apre la sua celebre Vita di Dante con una riflessione sui limiti e sul metodo della ricerca storica: «non è legittimo inoltrarci troppo nella puerizia e nell’adolescenza di Dante, alla ricerca dell’identità umana, dei sentimenti, delle esperienze del fanciullo e del giovinetto. Ma è impossibile anche il non presentarci il problema».[11] Sia nel libro di Petrocchi, sia in quello di Barbi, le sezioni interne dedicate alle singole opere – e in particolare alla Commedia – si aprono con riflessioni storiche e storiografiche del tutto simili. Quando un critico rimanda all’esperienza poetica di Dante, lo fa per inquadrarla nel contesto storico e culturale che la trascende. Si legga l’Introduzione di Padoan: «la Comedìa nasce (…) su un intreccio inestricabile di motivi retorico-poetici, per i quali Dante porta innanzi l’esperienza artistica già attuata ed imita e gareggia con la grande poesia antica, e di aneliti escatologici (…). Pare innegabile che Dante credette fermamente di essere strumento della volontà divina»[12].

In queste pagine abbiamo voluto indicare la differenza fra il modo italiano e quello inglese di intendere e insegnare la letteratura. Abbiamo reso schematico ed estremo questo contrasto, per fare emergere meglio i due colori di cui dispone ogni insegnante e ogni studente di letteratura: il colore della storia e quello dell’esperienza. Per fortuna questi due colori, di cui esistono innumerevoli sfumature, possono essere usati insieme. E visto che abbiamo  impiegato la metafora del colore, vorremmo chiudere con una citazione da  Ernst Gombrich, il grande storico dell’arte di origine viennese, poi divenuto cittadino britannico. In un’epoca in cui la lettura di testi letterari potrebbe diventare un’esperienza rara e irrilevante, la figura di Gombrich e ciò che scrive incarnano la conciliazione fra diversi modi di trasmettere il senso dell’arte, cioè il senso dei fragili segni della nostra esperienza nella storia:

«Nei capitoli che seguono mi occuperò di storia dell’arte, cioè della storia degli edifici, della produzione di quadri e di statue. Penso che conoscere qualcosa di questa storia ci aiuti a comprendere perché gli artisti lavorassero in un modo particolare o perché cercassero certi effetti. Soprattutto è un buon modo di allenare i nostri occhi alle caratteristiche particolari delle opere d’arte e aumentare così la nostra sensibilità alle sfumature più sottili della differenza.  Forse è l’unico modo di imparare a godere delle opere d’arte per quello che sono. Ma nessuna strada è priva di pericoli. A volte si vedono persone camminare attraverso una galleria, con il catalogo in mano. Ogni volta che si fermano di fronte a un quadro, ne cercano avidamente il numero. Li si vede sfogliare i loro libri e appena hanno trovato il titolo o il nome passano oltre. Avrebbero potuto starsene a casa, perché hanno dato appena un’occhiata al quadro. Hanno solo controllato il catalogo. È una specie di corto circuito mentale che non ha nulla a che fare con il piacere del quadro».[13]



[1] Il nostro discorso si riferisce alla Gran Bretagna e anzi più precisamente all’Inghilterra – e non a tutto “il mondo che parla inglese”, una vasta e frammentata area linguistico-culturale che possiede profonde differenze interne. Se citiamo anche autori e testi che non sono inglesi, è solo nella misura in cui ciò che dicono vale anche per l’Inghilterra.
[2]  Anche il tema cruciale della divulgazione meriterebbe di essere discusso a fondo. Purtroppo non possiamo farlo qui.
[3]  Un articolo pubblicato di recente su questo blog conferma la presenza di Dante come poeta nazionale: https://www.leparoleelecose.it/?p=5298
[4]  Martha C. Nussbaum, Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities, Princeton University Press, Princeton (NJ)-Oxford 2010, p. 55.
[5]  T. S. Eliot, Dante, Faber & Faber, London 1929.
[6]   Robin Kirkpatrick, Dante: The Divine Comedy, Cambridge University Press, Cambridge 1987, p. 1.
[7]   Ivi, p. 7.
[8]   George Holmes, Dante, Oxford University Press, Oxford 1980, p. 1.
[9]  Si cita da Michele Barbi, Vita di Dante, Sansoni, Firenze 1966, p. 5. Il saggio nasceva come voce per l’Enciclopedia Italiana ai tempi della direzione di Giovanni Gentile.
[10]  Letteratura italiana delle origini , Sansoni, Firenze 1991 (1970), p. 301.
[11]  Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Laterza, Bari 2001 (1983), p.1
[12]  Giorgio Padoan, Introduzione a Dante, Sansoni, Firenze 1995 (1975), p. 84.
[13]  Ernst H. Gombrich, The Story of Art (1950), Phaidon, London 200616, p. 34.

8 thoughts on “Dante speaks English. Studiare Dante in Inghilterra

  1. Grazie molte davvero, ho letto con grandissimo interesse. Fa bene a ogni insegnante medio e universitario leggere di esperienze straniere (ed estranee) senza semplificazioni e pregiudizi (pro e contro), come qui.
    Il sasso lanciato cade in uno stagno enorme e le considerazioni da fare potrebbero essere infinite. Mi sforzo di scegliere solo due temi.

    1)La scrittura degli studenti entro un corso di letteratura.
    Una domanda agli autori: mi piacerebbe sapere qualcosa di più delle produzioni degli studenti. Avete avuto modo di leggerne un numero ampio abbastanza da potervi fare un’idea della qualità media? La richiesta di proporre una tesi personale infatti, pur se a livello universitario, non è di poco conto e il rischio di leggere banalità è alto.
    Anche in Italia il nuovo Esame di stato incoraggia le produzioni autonome degli studenti a partire da testi forniti (tipologia B), ma, all’atto della correzione, ci si accontenta spesso di un testo che abbia un po’ di coerenza e sia scritto in un italiano decente, ovvero si usa il testo come pretesto per verificare la padronanza linguistica (come se, tra l’altro, la forma linguistica fosse indipendente dal pensiero che essa manifesta e incarna), commuovendosi davanti alla rarissima avis del capolavoro di uno studente fuori media che ha particolare originalità e profondità. Ciò dipende in parte dal fatto che il compito richiesto, come dicevo, è assai alto, in parte dal fatto che raramente gli studenti sono addestrati adeguatamente ad affrontarlo: le lezioni del triennio sono impostate ancora secondo la forma lezione-interrogazione orale e l’esercizio della scrittura è sporadico (quei due-tre temi in classe a quadrimestre che si riescono a fare, specie quando la classe è composta da 30 persone…).
    Quanto si scriva poi nelle facoltà umanistiche dell’università italiana è risaputo: praticamente mai prima della tesi (e infatti, leggendo le tesi, si vede).
    Far scrivere di più e soprattutto integrare organicamente la lezione con la scrittura degli studenti è fondamentale (e compito trasversale di tutti i docenti: quello di lettere ha una testa e due mani come tutti e non è un titano). Questo forse in Italia dovremmo impararlo, e presto, e proprio per questo sarebbe bene capire come funzioni altrove e soprattutto se funzioni e quali siano le potenzialità e i rischi.

    2) L’esperienza.
    Tutti gli insegnanti che hanno saputo e sanno far appassionare alla letteratura sono capaci di esaltarla come esperienza umana e di verità: l’arte è un evento che trasmuta in forma la realtà e abolisce la distinzione tra soggetto che conosce e oggetto che sta ad esso di fronte o contro (Gadamer). Chiaro che se, invece, il contenuto e il tema della lezione è la storia (musealizzata e monumentalizzata, Nietzsche) di una congerie di detriti sminuzzati (fatti, interpretazioni, contestualizzazioni) depositata in capitoli di manuale, siamo lontanissimi da un’educazione alla fruizione dell’arte. Insomma, l’opposizione tra storia ed esperienza è sempre stata a favore di questa seconda, almeno in campo pedagogico. Se però da questo deducessimo che allora solo in Inghilterra si facciano vere lezioni di letteratura, essendo quelle italiane solo lezioni di “storia della”, un “discorso su”, una struttura applicata (a soffocare) l’esperienza estetica, sbaglieremmo. Il bravo insegnante, anche quello italiano, anche quello che ha fra le mani manuali di storia della letteratura, è sempre stato in grado di vivificare l’arte, di incarnarla, usando la “storia della” solo come strumento capace di dare prospettiva e profondità. Chi ripete solo la lezioncina si sentirà solo ripetere la lezioncina dagli studenti.
    Dobbiamo mettere al centro l’esperienza, è fuori di dubbio: che ciò sia fare come gli inglesi o come i siberiani.

    Detto così par facile, e invece è un compito enorme e difficilissimo, per tante ragioni (mi limito a quelle più pratiche): a) chiedere agli studenti di “fare esperienza” dell’arte è possibile solo se in primo luogo l’esperienza è in grado di farla l’insegnante (non è così ovvio) e questo apre il problema di come selezionare questi ultimi (come si misura e valuta la capacità di fare esperienza?); b) mancano, almeno in Italia, strumenti di lavoro, pratiche diffuse, riflessioni condivise, su di un modo di lavorare sulla letteratura diverso: le uniche proposte didattiche che mettano al centro l’esperienza del discente sono quelle costruttiviste, provenienti perciò da saperi non strettamente legati all’arte e all’estetica, ovvero la psicologia, la pedagogia, la didattica, … c) le conoscenze, diciamo così, contestuali (storiche, retoriche, stilistiche, …) devono continuare ad avere un loro rilievo, non perché siano in sé importanti, ma perché senza di esse si perde in qualità e profondità dello sguardo nell’interpretazione: come contemperare la fruizione diretta del testo e l’appropriazione e padronanza di quelle conoscenze? Come evitare che esse siano percepite come strumenti chirurgici da applicare a freddo su di un corpo ormai morto (quello del testo: vedere le vivisezioni formal-strutturalistiche in voga nei bienni)? Ma anche: come evitare la scissione tra esperienza istintiva e esercizio sul testo, avallando la fuga verso i narcisismi e le semplificazioni del lettore giovane o adolescente? d) ripetere un contenuto (da parte dell’insegnante e da parte dello studente) è facile, verbalizzare un’esperienza è cosa molto ma molto più complicata e sfuggente (anche per questo è interessante capire la qualità degli scritti degli studenti inglesi: lì si vedrebbe il grado e la profondità della riflessione, della rielaborazione, della capacità di trovare parole giuste per esprimere idee ma anche sensazioni ed esperienze di lettura).
    Per questo bisogna parlarne, confrontarsi, scambiarsi idee, proposte, materiali, esperienze. Fra chi? Fra insegnanti medi e insegnanti medi, fra insegnanti universitari e insegnanti universitari e – finalmente, sarebbe ora – fra insegnanti medi e universitari.

    Grazie ancora e perdonate la lunghezza

  2. Solito punto di vista esterofilo: in Italia va tutto male, all’estero va tutto bene, e l’Inghilterra è il miglior estero che ci sia. Il mito inglese, di nuovo. Il problema è che in Inghilterra chi studia Dante lo fa perché è veramente motivato a dedicarsi agli studi letterari.
    Domanda all’autore dell’articolo: tu che la sai così lunga, hai studiato Dante in Inghilterra o in Italia? E lo studente medio inglese è un dantista provetto, oppure non sa nemmeno che che cosa Dante’s Inferno?
    E’ vero che l’istruzione in Italia fa veramente acqua da tutte le parti, ma se molti studenti partono dall’Italia e vengono ammessi nelle più prestigiose università straniere è anche perché il nostro sistema è ancora in grado di produrre buoni studenti.

  3. Anche io ho letto con molto interesse e sono grata a chi ha scritto questo post, steso, vale la pena di ricordarlo a Carlo Zacco, non da un autore, ma due (perdinci: c’è pure un’autrice, Anna Pegoretti). E grazie anche a Daniele Lo Vetere: per tutte le questioni (vere e non generiche) sollevate dal suo commento.

  4. Ringraziamo gli intervenuti, che ci consentono di precisare punti importanti

    @ Carlo Zacco

    Il sistema educativo inglese e quello italiano sono così diversi e hanno tradizioni così distanti, che non ha senso chiedersi quale sia il migliore. Sarebbe come chiedersi se sia meglio essere inglesi o italiani: lasciamo volentieri questo esercizio ad altri. Quello che abbiamo cercato di fare è descrivere alcune differenze fra due modi di intendere e insegnare letteratura, al livello della laurea di base.

    @ Daniele Lo Vetere

    Condividiamo molto di ciò che dice; proviamo a rispondere ad alcune delle questioni importanti e difficili che pone. Ci scusiamo se il nostro discorso si riferisce genericamente all’educazione umanistica: non abbiamo spazio per discutere analiticamente cosa si fa in un liceo, alla laurea di base, ecc.

    Anzitutto siamo convinti che ci dovrebbe essere un maggior coordinamento fra i diversi livelli di istruzione. I primi soggetti e il primo pubblico delle discipline umanistiche sono gli insegnanti e gli studenti di ogni livello di istruzione.

    (1) insegnare a scrivere

    Secondo noi, il primo obiettivo dell’insegnamento delle discipline umanistiche (a tutti i livelli) è imparare a decodificare e usare le tecniche della scrittura argomentativa e persuasiva. E questo non ci sembra poco.

    Per rispondere alla sua domanda, possiamo dirle che in Inghilterra il testo di uno studente è valutato positivamente se rispetta i criteri essenziali della scrittura argomentativa. Si richiede di saper scrivere su un oggetto e un tema dati, di argomentare in modo coerente e con esempi appropriati una tesi, di rispettare le scadenze. Una buona parte degli studenti riesce in questo compito. In un certo senso, l’originalità viene dopo: anche se avere una tesi personale ben argomentata è considerato l’obiettivo finale, che viene raggiunto dagli studenti migliori.

    (2) l’importanza della storia

    Siamo d’accordo con lei ed è per questo che chiudiamo con una citazione da Gombrich, che per noi è una figura di mediazione fra due tradizioni. Il recupero del senso dell’esperienza non solo non mortifica lo studio del contesto e della storia; siamo convinti del contrario: trasmettere il senso di esperienze distanti dalle nostre è un modo di trasmettere la passione per la storia. Per “insegnare storia” basterebbe “raccontare una storia” e cercare di raccontarla bene. La capacità di essere buoni insegnanti è un dono sempre benvenuto e insperato e dovrebbe essere un criterio di valutazione nel reclutamento del personale, anche universitario.

  5. A parte il fatto che Dante in Italia ha comunque un altro significato che in UK… E di questo va tenuto conto. L’esperienza che qui ci viene narrata – che è un unicum: la loro esperienza in una università – non può rappresentare un paradigma. Il raccontino, dunque, può essere simpatico ma non ha alcina valenza scientifica perché basato su una singola esperIenza (la loro). Si veda, piuttosto, cosa dice George Steiner proprio sull’Inghilterra e proprio su Dante: http://www.ibs.it/code/9788811675426/steiner-george/vere-presenze.html

  6. Caro Federico, intanto la ringrazio per avere mostrato interesse per un un post pubblicato un anno fa – e sono contento che almeno lo abbia trovato simpatico. Per quanto mi riguarda – Anna potrebbe pensarla diversamente – , il tentativo era proprio offrire una testimonianza del diverso significato che Dante ha in Inghilterra: mi stupisce che il post non le confermi la sua giusta osservazione. Certo, questo post è una riflessione basata su una singola esperienza di insegnamento: non si tratta di uno studio sistematico di sociologia o storia della cultura – se è questo che intendeva con il termine “scientifico”. Non vedo però quale sia il problema. E d’altra parte, Steiner incarna quasi lo stereotipo del critico letterario e non è certo un sociologo o uno storico! Ma forse l’ho fraintesa; non è sempre facile capire cosa intenda l’interlocutore con “scienza”, quando si parla di critica letteraria. Le auguro buone vacanze!

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