di Roberto Donati

Il reale va bene,  l’interessante è meglio.
(Stanley Kubrick)

This is not America.
(David Bowie)

Intellettuale dall’anima popolare e, almeno a giudicare dalle numerose fotografie che lo ritraggono, quintessenza della “romanità”, con il barbone semincolto, la voce roca e profonda, gli occhietti acuti in un faccione severo ma dai tratti gentili e l’appetito vorace da Mangiafoco uscito da qualche vivida strofa di Trilussa o del Belli, Sergio Leone nacque, a Roma, il 3 gennaio 1929, figlio unico e ambito di Vincenzo Leone e di Edvige Valcarenghi, rispettivamente regista e attrice di cinema.

Romano figlio di non romani (il padre era di origini campane, la madre friulana) o, meglio, trasteverino fin dalla prima infanzia, giocata fra i viali e i vicoli del quartiere, fra amici spesso più grandi e tutt’altro che immaginari e un “nemico” contingente a proiettare ombre inquietanti dietro le spalle come in un film muto di Fritz Lang.

Un nemico, il fascismo, e un periodo storico, quello degli anni Trenta del giovane Sergio, che tuttavia avrebbero potuto al massimo piegare od osteggiare l’attività artistica del padre – agli occhi di qualcuno passibile di condanna per come intristiva la realtà coi suoi “drammoni” cupi e ottocenteschi – ma che invece potrebbero col senno di poi anche avere temprato il pensiero e la filosofia del regista. Come sottolinea Fofi, ad esempio, e come risulterà anche dall’intervista allo sceneggiatore Sergio Donati posta in appendice.

[…] la mitizzazione della cultura americana è stata un fatto degli anni del fascismo, come reazione al clima stagnante e come idealizzazione di un mondo pieno sì di contraddizioni e di conflitti sociali e razziali, ma libero e coraggioso nella denuncia, “messaggio e risposta orgogliosa ai problemi del mondo”[1].

Fascino che tuttavia, a livello di massa, come sostiene Fofi in un excursus straordinario per brevità e intensità di analisi (in nuce anche del cinema leoniano),

 […] si era già espresso attraverso il cinema, e continuava a esprimersi nei limiti possibili, per poi esplodere con l’immediato dopoguerra. Erano gli anni d’oro (dal punto di vista della frequenza) dello spettacolo cinematografico, e il cinema americano offriva varietà di generi, stelle affermate, evasioni sicure, ma anche problematiche abbastanza nuove, pur se nascoste tra le pieghe del racconto, ancorché tutte risolte in azione e in favola. Era il “sogno americano di una cultura unitaria che trasferisse grazie al cinema i valori della società Usa in patria e nel mondo”. Il cinema americano, e quello western in particolare, aveva forza nei suoi messaggi per la sua capacità di essere dovunque, di costruire miti, di, soprattutto, nascondere le sue morali in azioni scintillanti di rapidità, concisione, speditezza. Ancor oggi, si subisce dal western anche un messaggio reazionario perché la sua astrazione avventurosa raramente riesce a irritarci ideologicamente, in fondo predisposti a “stare al gioco”, mentre con altri “generi” ci troviamo  meno “scoperti”, più armati di rigore. Il western ci proponeva un mondo chiaro di naturalezza e di movimento, senza dubbi. Era l’America dell’infanzia, luogo fuori della storia e della geografia, luogo dell’avventura e della disponibilità eroica. Poi piano piano vennero i dubbi, […] e vennero le revisioni. E i western, da luogo privilegiato della regressione, sono lentamente diventati quasi strumenti di riflessione e di “presa di coscienza”. Ma ciò che li distingue ancor oggi rispetto ad altri generi è proprio questa mescolanza di regressione e di maturità, fedeli a degli schemi e a un paesaggio ben noto e nello stesso tempo consoni alla riflessione presente e alla crisi presente. I western – e non i film – sono “better than ever” proprio per questa loro possibilità di parlare dell’oggi attraverso metafore riconoscibili a tutti, attraverso schemi che sono patrimonio comune come un tempo lo furono le chansons de geste o i romanzi d’appendice.[…] Soddisfa la nostra sete di evasione, […] e soddisfa anche la nostra sete di conoscenza presente[2].

Certo è che il Leone degli anni Trenta aveva già imparato a trascurare la realtà fenomenica, a favore di una visione ludica ancora più che artistica della vita: già il fatto che ripetesse con puntuale precisione di avere mancato di poco la nascita dentro una sala cinematografica è sintomatico.

Nella Roma mussoliniana solo apparentemente placida e benestante, il futuro regista aveva quasi sicuramente più dimestichezza con il mondo dei set del padre che con quello della quotidianità circostante  o, perlomeno, era già il primo ad attrarlo inesorabilmente. Un fascino alimentato e arricchito, inoltre, dalle esperienze concrete della sua prima giovinezza, che col senno di poi si sarebbero rivelate fonte di ispirazione e cuore tematico della sua futura opera cinematografica: le attività ludico-competitive con gli amici e soprattutto, forse, la folgorante scoperta dell’America[3], del suo mito ma anche delle sue contraddizioni, compiuta attraverso le più disparate forme di intrattenimento popolare, come il cinema, la letteratura, il fumetto.

Leone sviluppa, chissà per quali vie autobiografiche, una passione forse già innata, quella piuttosto comune d’altronde, per la violenza e si lascia consapevolmente sedurre dal western che col tempo impara a conoscere a fondo e a rispettare.  Il minimo comune denominatore fra i due interessi è certamente la nostalgia per un mondo ormai irrimediabilmente perduto con l’arrivo della moderna civiltà e delle sue istituzioni fondamentali: al tramonto di un’epoca in cui la violenza poteva ancora mantenere una sua dignità e un suo cavalleresco senso dell’onore, era subentrata l’alba di un’epoca in cui la violenza veniva (e viene) canalizzata, irreggimentata, parzialmente modificata, strumentalizzata da chi detiene il potere e vuole mantenerlo.

 Il western come anima dell’America Leone lo aveva già scoperto proprio in quegli anni di rigido regime autarchico: se già l’America come paese lontano e quindi vagamente “esotico” aveva un suo fascino epico e un suo potenziale mitico, soprattutto nell’immaginario fanciullesco di un bimbo già di per sé predisposto all’uso e abuso della fantasia personale,  il fatto di assistere a spettacoli o di leggere libri/fumetti chissà come arrivati e tradotti (i film statunitensi, regolarmente distribuiti sino al 1939, subirono un massiccio blocco nei quattro anni seguenti e Leone, come i colleghi della sua generazione, recupererà il “tempo perduto” velocemente) accresceva senz’altro lo status di culto di quell’American Dream ancora inconsapevole ma ben presto ossessione esistenziale e artistica[4].

E se per un momento può apparire lecito che l’estensore di queste pagine lavori anche di fantasia e proietti elementi biografici sulla tela dell’opera cinematografica, piacerebbe davvero pensare che, in quel periodo, Leone – luce fioca, pantaloni abbassati, libro di Jack London sulle ginocchia – passasse parte del suo tempo libero a leggere nel fetido cesso comune di un modesto condominio, abbinando il piacere della lettura a pratiche corporali quotidiane un po’ come il suo futuro Noodles, magari aspettando una Peggy a cui mostrare orgoglioso l’appendice della virilità maschile e maschilista, mentre fuori la lotta per la sopravvivenza con relativi tentativi di sopraffazione reciproca avrebbe tranquillamente continuato a sporcare di sangue le strade e a rendere ancora più deserta una città che per il coprifuoco forse assomigliava già a uno di quei paesini fantasma della lontana frontiera.

Naturalmente, nulla stava così, in primo luogo perché le condizioni economiche della famiglia Leone erano tutt’altro che  modeste  per  l’epoca,  poi perché il paesino fantasma era nientepopodimeno che la capitale Roma, certo una Roma papalina e prebellica ma pur sempre Roma.

 Il padre Vincenzo Leone, infatti, altri  non era,  dietro  la pratica  allora comune dello pseudonimo, che quel Roberto Roberti regista di tanti melodrammi muti (e anche di qualche rudimentale western): storie d’amore e dolore, passione e sofferenze dall’afflato liricheggiante e dal passo spesso incerto, sospeso fra una fedele rievocazione storica e una costruzione invece magniloquente e pomposa, tendente all’enfasi teatrale e all’arte gridata dei saltimbanchi da piazza, che la recitazione degli attori e le soluzioni di regia volentieri tenevano come modello.

Storie sicuramente appassionanti per gli spettatori del tempo, meno smaliziati e meno esigenti di oggi, che ritrovavano con piacere la serialità e le caratteristiche già conosciute dei feuilleton del secolo appena trascorso. Per poche lire, inoltre,  si potevano dimenticare gli affanni quotidiani e le meschinità della vita reale e – nel buio di una sala gremita, versione moderna del focolare attorno al quale raccontare, come in una sorta di rito ecumenico, favole – sognare di principi azzurri che esistevano per salvare altere popolane o di bellissime nobildonne trepidanti al pensiero del marito disperso in chissà quale guerra.

Storie, lo si capisce, che avranno ben poco a che fare col futuro cinema di Leone ma che, a osservare con maggiore attenzione, contenevano elementi sicuramente ispiratori, quando non proprio anticipatori: un assoluto, volontario distacco critico dalla realtà in cui i personaggi si trovano ad agire, realtà invece riprodotta dalla puntigliosa  rappresentazione  esteriore  di essa; una realtà, cioè, tautologica, utile più come  sfondo  decorativo  dell’azione tumultuosa e non tanto rete metaforica di simboli e valori aggiunti né espediente necessario per lanciare messaggi o creare paragoni e agganci con l’attualità. O, ancora, l’irreale manierismo delle vicende raccontate o la decisa solennità dello sguardo del regista e, di conseguenza, la caratterizzazione forte, gestuale di attori che evidentemente non devono dare vita a personaggi complessi e compiuti ma devono soltanto interpretare tipologie di personaggi già consolidati dalla tradizione e perciò già noti.

 Storie, dicevamo, di quel tale Roberto Roberti grande amico delle star dell’epoca, quello stesso Roberto Roberti che, involontariamente o meno, avrebbe fornito i contatti giusti affinché il figlio potesse intraprendere la sua stessa, sconsigliatissima carriera e che, a giochi ormai fatti, sarebbe stato affettuosamente ricordato da Leone con l’omaggio nominale che costituì la sua abilmente posticcia credenziale verso il successo (Bob Robertson, ovvero dall’inglese, come sarà noto, “figlio di Roberto Roberti”).

 Certo non si può dire che Sergio Leone si sia fatto le ossa sui set del padre (anche se nel 1941 era già presente su quello di La bocca sulla strada), vuoi perché era oggettivamente troppo piccolo vuoi perché forse il padre tendeva a tenerlo lontano da un mestiere sicuramente emozionante e gratificante ma, per quanto almeno ne sapeva lui, discontinuo dal punto di vista del rendimento finanziario e troppo soggetto all’alea dei produttori e del fattore pubblico.

È altrettanto certo, però, che fin da bambino Leone ha respirato quest’atmosfera fatta di magia onirica e di brutale realismo produttivo-commerciale, un’atmosfera che lo avrebbe segnato anche a livello primario quando si sarebbe trovato a dover disegnare personaggi e a studiare trame che, di fatto, rispecchiavano la sua posizione ideologica di uomo prima che di artista.

E, fondamentalmente, dalle sue opere traspare una filosofia di vita improntata sul disincanto di certe illusioni, gradualmente o meno andate perdute o ribaltate nella prospettiva, e su un fatalismo pessimista che non può non avere le sue basi nella precoce esperienza cinematografica del padre e magari nei resoconti sull’ambiente che costui forniva alla famiglia, oltreché nel periodo storico in cui la sorte – sì, forse la colpa, o il merito, erano da attribuire sempre a lei – l’aveva scaraventato a vivere.

 Com’è possibile notare, la propensione lirica di Leone e il suo gusto per le coreografie barocche hanno più di un punto di contatto con il cinema ‘operistico’ di Luchino Visconti: ma se la biografia e le ossessioni personali del regista milanese si traducevano in un’acribia registica tutta dedicata alla rappresentazione colta dello sfarzo di una classe aristocratica in avanzato stato di decadenza sociale e morale, la “popolanità” di Leone era invece tutta rivolta innanzitutto a un’altra classe sociale (e forse nemmeno una classe) e poi a una puntigliosa ricostruzione della realtà del tempo, dove l’imperativo della verosimiglianza rispondeva infine alla volontà di dare almeno una pennellata di realismo alle sue favole scanzonate e senza tempo.

Perché, dopotutto, lui aveva scelto di raccontare un aspetto di ciò che già il suo nume John Ford aveva sancito con la celeberrima conclusione dell’Uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, Usa 1962), non a caso uno dei film di Ford prediletti da Leone: “qui siamo nel West. Dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda” (in originale, molto più stringata, sbrigativa e moderna con quel suo riferimento alla stampa: “This is the West, Sir. When the legend becomes fact, print the legend”).

 Se Ford aveva pirandellianamente scelto di raccontare la realtà che si cela dietro la leggenda, il più pragmatico Leone avrebbe pareggiato i conti in favore del mito, narrando quella leggenda che via via si era tramandata ai posteri grazie all’oralità (fatto che indubbiamente lo faceva collegare al suo adorato Omero) e al travisamento, man mano sempre meno consapevole, dei fatti storici, in nome del bisogno umano di spettacolo ed epos. Ed è per questo poi che il paradosso di raccontare la leggenda volendo essere, allo stesso tempo, più realistico di chi aveva deciso a priori  di raccontare la realtà, produsse una manifestazione della violenza spesso pervertita sadicamente, spesso di indubbia compiacenza, sempre formale, che non ha nulla a che vedere con la durezza reale del periodo storico [nel quale essa] era radicata in un contesto preciso di rapporti sociali, [mentre] tutto si richiude su sé stesso, senza storia né ideologia, senza morale da frontiera né lotta tra civiltà e barbare, in una neutra, pericolosa retorica. Che era e ne rimane anche la ragione essenziale di seduzione[5].

Un paradosso che come è possibile confrontare costituisce una delle critiche più comuni mosse al cinema di Leone, spesso accusato infatti di voler essere romanticamente elegiaco ma di abbondare, per contro, in aridità e cinismo senza che sussista una rigorosa morale della visione.

 Intanto, Leone, completati gli studi e abbandonata la carriera universitaria giuridica che il padre desiderava completasse, si stava chiudendo sempre più in sé stesso e nel suo amore per il cinema: un amore così totale che lo rendeva benevolo e riverente verso il padre regista e molto meno invece con la madre,  alla quale sembra non riuscisse a perdonare (vuoi forse per un mai sopito senso di colpa) il fatto che avesse lasciato la sua carriera di attrice e lo pseudonimo di Bice Walerian – lei che in un misconosciuto western del 1909 aveva interpretato addirittura una squaw indiana – per dedicarsi interamente alla famiglia e, quindi, principalmente, a lui.

 Fu con questo background che a soli diciannove anni Leone scrisse la sua prima sceneggiatura (quell’autobiografico Viale Glorioso che non avrebbe mai realizzato), nello stesso anno in cui pressappoco compariva, nella brevissima parte di un seminarista che si ripara dalla pioggia assieme ad alcuni compagni e ai due protagonisti del film, in Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, per il quale si adoperò anche in collaborazioni più strettamente tecniche.

Da allora fino all’anno del suo definitivo esordio dietro la macchina da presa come singolo autore del proprio film, cioè ben tredici anni più avanti, il  suo  fu un  graduale  e sempre più attivo scivolare nei ritmi della macchina cinema e nei suoi ingranaggi produttivi, durante un’età dell’oro cinematografica in cui – fenomeno quasi esclusivamente italiano – le rischiose opere di ambizione dei cosiddetti “autori” potevano essere realizzate anche, e spesso soprattutto, grazie ai guadagni ottenuti dai film di genere dei “manovali o artigiani” del cinema, comprendenti fra gli altri saghe o cicli di eroi mitologici che spesso affondavano in un’iconografia povera sotto la direzione di personalità registiche di serie B.

Un sottobosco cinematografico in cui, allora, Leone era immerso (e la cui ideologia non rinnegò mai) e che avrebbe finito per attirare, per l’estrema facilità a lavorarci (nell’Italia dalle leggi non così ferree) e per la ricca reperibilità di set (nell’Italia dagli infiniti e strabilianti paesaggi), un numero sempre più cospicuo di troupe americane, anch’esse impegnate nella realizzazione di film storici di nessuna pretesa realistica e di impianto scopertamente spettacolare.

 Leone, nel frattempo, conquistava la fiducia dei dirigenti e dei veri registi e saliva di grado,   da  semplice  assistente  che  amava stare sui set desideroso di dare una mano dove serviva ad aiuto regista preparato e prodigo di idee e suggerimenti anche tecnici. Con l’ingresso sempre più massiccio di troupe cinematografiche americane in suolo italico, Leone aveva anche modo di confrontarsi direttamente con le proprie ossessioni, con i miti della sua infanzia e con i registi che più lo avevano segnato: ma se dal punto di vista professionale, l’esperienza di lavorare, tra gli altri, con il Robert Aldrich di Vera Cruz (id., 1954) o con il William Wyler di Ben-Hur (id., 1959) si dimostrò sicuramente valida e utile, da quello personale e umano fu una totale delusione, e costituì forse il primo moto di disincanto verso quella America che fino ad allora gli aveva mostrato soltanto la leggenda di sé stessa e che ora, improvvisamente, gli presentava la propria nuda e cruda essenza reale.

 Per il resto, la carriera registica di Leone dura poco più di un ventennio ma – dal peplum (Gli ultimi giorni di Pompei; Il colosso di Rodi) agli spaghetti-western (la cosiddetta “trilogia del dollaro” rappresentata da Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo; C’era una volta il West e l’atipico Giù la testa) per finire al canto del cigno con il film di gangster (C’era una volta in America) e ai progetti abortiti [su tutti, il remake del già sfarzoso e colossale Via col vento (Gone with the wind, Usa 1939) di Victor Fleming] – è in costante ascesa: anche la critica è sempre più pronta a riconoscere il suo valore, perlomeno quello di cineasta tout-court che ha legato il suo nome alle immagini e alla visione, e, come ricorda Gianni Di Claudio, il suo epitaffio cinematografico finisce addirittura (unico titolo italiano) nella lista dei dieci migliori film degli anni ottanta.

 L’ultimo progetto – una ricostruzione epica dell’estenuante assedio di Leningrado – è stato bloccato soltanto dalla morte (30 aprile 1989), l’eterno destino che regola la vita di ognuno di noi: e per un uomo/artista che ha dichiarato di essere quasi nato in un cinematografo e che ha fatto del cinema la sua vita (e viceversa), quale miglior sorte – sempre sotto il segno di una dolceamara ironia – se non quella di spegnersi cautamente durante la visione di un film, per l’appunto intitolato Non voglio morire[6] ?


[1] Goffredo Fofi, “Introduzione”, in Raymond Bellour (a cura di), Il Western – Fonti, forme, miti, registi,  attori, filmografia (edizione italiana a cura di Gianni Volpi), Feltrinelli Editore, Milano, 1973, p. 11

[2]  Goffredo Fofi, Ivi, pp. 11-13

[3] Mi pare corretto sottolineare una volta per tutte che, nel caso di Leone, con il termine geograficamente improprio di America sono da intendersi solo ed esclusivamente gli Stati Uniti d’America.

[4]  Vale sicuramente la pena citare, a proposito dell’America e delle affettuose nostalgie ad essa legate, una bella dichiarazione di Federico Fellini che si potrebbe benissimo immaginare essere stata detta da Leone in persona: “Su quei vecchi giornalini a fumetti la mia generazione ha trovato la possibilità di evadere e di contestare le processioni, le adunate, i campi Dux. I ragazzi italiani, immiseriti dalla Chiesa e dal fascismo, attraverso personaggi come Mio Mao, o Bibì e Bibò, o la Checca, potevano finalmente sognare una vita festosa. La vera letteratura americana non è stata solo quella dei Faulkner e degli Steinbeck ma anche quella degli inventori di Arcibaldo, di Petronilla, di Dick Fulmine, di Braccio di Ferro. All’America abbiamo potuto perdonare tutto, anche l’imperdonabile, grazie alle immagini liberatorie che ci ha regalato attraverso i suoi fumetti e il suo cinema.” da Donata Righetti, “Quasi un film, di carta”, in Il Giornale, martedì 17 luglio 1990, contenuto in  Milo Manara, Viaggio a Tulum – da un soggetto di Federico Fellini per un film da fare (a cura di Vincenzo Mollica), Edizioni Di, Perugia 2000, p. 135

[5] Manuel Dori, Scheda relativa a “Sergio Leone”, in Raymond Bellour (a cura di), Il Western – Fonti, forme, miti, registi,  attori, filmografia  (edizione italiana a cura di Gianni Volpi), Feltrinelli Editore, Milano, 1973, p. 305

[6]  Il titolo italiano dell’opera in questione (Usa 1958, di Robert Wise) è una curiosa litote del titolo originale I want to Live!

[Immagine: Sergio Leone, Per qualche dollaro in più (1965) (gm)].

2 thoughts on “Il sogno di un mangiatore di spaghetti. L’America cinematografica di Sergio Leone

  1. Leone nasce nel 1929.

    Durante gli anni Trenta (i.e., per quanto lo riguarda, da uno a dieci anni), “aveva già imparato a trascurare la realtà fenomenica, a favore di una visione ludica ancora più che artistica della vita”… (posso immaginare: a iniziare dai tre-quattro anni).

    Della serie: “genio chi legge” (il seguito).

    fm

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