di Claudio Giunta
[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 13 settembre 2011].
Dividerò queste brevi considerazioni sui problemi dell’università in tre parti. In ordine d’importanza e di gravità: (1) strutture, (2) docenti, (3) studenti. Premetto che saranno considerazioni molto concrete, niente affatto tecniche, nate dall’osservazione di come l’università funziona e non dallo studio di ciò che l’università come istituzione è stata, è e potrebbe essere; e che saranno le considerazioni di un docente della facoltà di Lettere e Filosofia: talvolta generalizzabili, talvolta no.
Strutture
Una delle cose più sconcertanti, nel dibattito sulla scuola e sull’università, è la quasi totale mancanza di materialismo nel preciso senso di: attenzione alla materia, alle cose. Bisogna dunque ricordare che la scuola e l’università sono, innanzitutto, gli edifici che ospitano la scuola e l’università.
Quando i miei colleghi tornano sospirando dagli Stati Uniti o dall’Australia o dalla Germania o dal Giappone non sospirano perché in quei paesi hanno trovato colleghi migliori di quelli che hanno lasciato in Italia, o perché gli studenti sono più intelligenti, colti, motivati, o perché li hanno pagati di più. Può succedere, ma di solito non sospirano per questo. Sospirano perché in questi paesi hanno trovato condizioni di lavoro concretamente, fisicamente migliori. Questo significa tra l’altro: aule decorose, uffici ospitali, bagni decenti, laboratori, biblioteche a scaffale aperto, ristoranti interni, alloggi per gli studenti e per i docenti in visita. Nella gran parte delle università italiane non si trova niente del genere. È normale fare lezione a folle oceaniche in aule striminzite; è normale condividere lo studio con tre-quattro colleghi, il che significa dover ‘fare ricevimento’, spesso, davanti alla macchina del caffè. I bagni sono, mediamente, delle latrine. Le biblioteche a scaffale aperto sono una chimera: l’Italia è il paese in cui per ‘bibliotecario’ s’intende non qualcuno che aiuta gli studiosi nelle loro ricerche (come dovrebbe essere ed è nei paesi civili) ma qualcuno che trasporta e che dà i libri, una specie di facchino con gli occhiali, perché studenti e studiosi i libri è meglio che non li prendano da soli (e il danno che questa sola stortura procura alla formazione degli studenti è incalcolabile). Le mense sono rare e, mediamente, pessime, e questo è male, tra l’altro, perché mense e ristoranti interni sono i luoghi in cui studenti di anni diversi e di facoltà diverse possono incontrarsi e discutere di cose che non siano l’esame del giorno dopo. Il numero degli alloggi per studenti e visiting professors è ridicolo: il che, oltre a favorire il fiorentissimo indotto di affitti al nero che qualsiasi studente fuori sede impara a conoscere appena sbarcato nella Grande Città, vanifica tutta la retorica sulla ‘internazionalizzazione’ che riempie le circolari ministeriali e d’ateneo – cosa vogliamo internazionalizzare se non sappiamo dove far dormire e far mangiare la gente? Perché tutto questo non resti un elenco astratto: molte delle Facoltà di Lettere che conosco, per esempio a Roma, Torino, Pisa, Firenze sono così, sono posti in cui – al di là di tutti i problemi contingenti – è spiacevole lavorare perché gli edifici che le ospitano sono brutti o cadenti o non abbastanza attrezzati. La ragione principale per cui, invece, ‘si sta bene’ a Trento, l’università in cui insegno, è che gli edifici sono funzionali, ho uno studio decente, bagni decorosi, buone biblioteche, eccetera. Tutto piuttosto semplice.
Il fatto è che negli anni passati non sono mancati i fondi per la costruzione di nuovi atenei. Sono invece mancati i fondi per la manutenzione, la ristrutturazione e l’ampliamento degli atenei vecchi. O per dire meglio: i fondi degli atenei non sono stati usati per questo scopo ma per scopi diversi, primo fra tutti il pagamento degli stipendi dei (pochi) docenti neo-assunti e dei (molti) docenti promossi anche grazie all’ope legis e ai concorsi-farsa. Si è fatto cioè l’interesse del personale impiegato nell’università e non l’interesse dell’istituzione, l’interesse privato e non l’interesse pubblico: un costume che del resto impronta di sé, e snatura, la vita universitaria italiana (o la vita italiana tout court) nel suo complesso.
Rimedi. Difficile trovarli adesso, in tempi di ristrettezze che non sembrano destinati a passare tanto presto. Ma è chiaro che su questo punto non è possibile affidarsi alla buona volontà di presidi e rettori, perché la loro volontà può non essere buona, o può essere vanificata dalla pressione dei docenti che li eleggono. Bisogna che i fondi destinati alla manutenzione degli edifici, ai laboratori e alle biblioteche non possano essere stornati ad altri capitoli di spesa, e che il ministero premi con risorse aggiuntive – risorse che andrebbero tolte agli atenei renitenti – quegli atenei che dimostrano di voler investire in questo settore, nell’istituzione insomma, e non solo negli stipendi per i docenti e il personale tecnico-amministrativo. Per fare un esempio: il GIM (Gruppo Interuniversitario per il monitoraggio dei sistemi bibliotecari d’ateneo) raccoglie da alcuni anni dati sulla qualità delle biblioteche universitarie (spazi, attrezzature informatiche, percentuale di scaffale aperto, orari di apertura, eccetera). Se di dati come questi si tenesse conto per calibrare l’erogazione dei fondi ministeriali, gli atenei – toccati nel portafoglio – sarebbero invogliati, probabilmente, a condotte più responsabili, o meno irresponsabili.
D’altra parte, è chiaro ormai che i pochi soldi dello Stato dovrebbero essere integrati dai soldi dei privati attraverso una politica sensata di fund-raising e di sgravi fiscali. È ben vero che i milionari italiani preferiscono legare il loro nome alle squadre di calcio piuttosto che alle biblioteche, ai musei e alle scuole. Ma questa non è una legge iscritta nei geni della popolazione (gli italiani cattolici vs. gli americani protestanti): è una lacuna culturale che può essere colmata. Per farlo, gli atenei dovranno comportarsi un po’ come le università americane, che hanno uffici destinati allo scopo dove si seguono le carriere degli ex-allievi, li si tiene aggiornati con la newsletter, si prospettano donazioni legate a precisi, verificabili obiettivi scientifici, oppure a migliorie nelle strutture dell’università, eccetera.
Docenti
La prima cosa da osservare a proposito dei docenti universitari italiani (ma lo stesso vale per chi insegna nelle scuole elementari, medie e superiori) è che parecchi sono indegni del loro ruolo. C’è un’indegnità scientifica. Non hanno scritto niente, non scrivono niente, scrivono sciocchezze, non studiano, fanno sempre le stesse quattro lezioni ripetendo quello che dice il manuale, si occupano di cose irrilevanti, ignorano tutto ciò che sta al di fuori del ‘tema di ricerca’ che qualcuno ha scelto per loro quando avevano vent’anni, e via dicendo. E c’è un’indegnità morale. L’indegnità morale si manifesta soprattutto nell’usare l’università come se l’università fosse, per qualche bizzarra ragione, una cosa che appartiene ai docenti. Nelle facoltà professionalizzanti questa idea è, credo, tanto ovvia da non dover essere nemmeno discussa: l’università non serve alla comunità che la paga ma all’avvocato o al medico o all’ingegnere che la usano come status-symbol (secondo l’equazione ‘titolo di professore sul biglietto da visita = raddoppio delle parcelle’) o come fucina di collaboratori a buon mercato. Nelle facoltà umanistiche gioca invece un ruolo preponderante l’idea narcisistica che molti docenti hanno di se stessi: quella di non essere degli insegnanti con un lavoro da fare, delle norme da seguire, una serie di mansioni da adempiere, bensì dei Liberi Intellettuali incaricati di controllare che la Storia corra sui binari giusti e che il Bene trionfi. Se uno pensa a se stesso in questi termini disincarnati – se uno non è un funzionario ma un Chiamato – ogni appello alle regole, o anche solo al buon senso, è uno schiaffo alla sua dignità: lo lascino stare, non gli chiedano conto delle sue azioni, di certe piccole porcherie, perché sa bene lui che cosa va fatto nell’interesse di tutti.
La seconda cosa da osservare a proposito dei docenti universitari italiani (ma lo stesso vale per chi insegna nelle scuole elementari, medie e superiori) è che sono spesso eccellenti. Io ho studiato a Pisa e ho avuto dei professori eccellenti. Insegno a Trento e ho dei colleghi eccellenti, in tutte le facoltà. Alcuni appartengono alla generazione complessivamente nefasta dei baby boomers. Altri sono miei coetanei, o più giovani: sono pochi, e purtroppo nessuno di loro è ordinario. Tra questi ce ne sono di davvero eccezionali, e quando penso che invece di passare la mia vita parlando con loro oggi potrei sprecarla nella redazione di un giornale, o in qualche altra triste occupazione para-intellettuale, benedico il mio destino.
La terza cosa da osservare a proposito dei docenti universitari italiani (ma lo stesso vale…) è che un docente pessimo non verrà punito e un docente ottimo non verrà premiato. Tutti e due non sono licenziabili, tutti e due hanno diritto agli stessi (miseri) benefit e agli stessi fondi di ricerca; il loro stipendio dipende dalla loro anzianità, non dal modo in cui fanno il loro lavoro. L’unico incentivo a far bene il proprio lavoro è l’amor proprio: un incentivo che invecchiando – i figli crescono, le ex-mogli esigono – diventa sempre più debole.
Così a un certo punto succede che, messi davanti a questa situazione confortevolmente bloccata (stipendi bassi rispetto ai colleghi stranieri, ma sicuri e, soprattutto, indipendenti dal proprio impegno e dalle proprie capacità; considerazione sociale né bassa né alta; pochi obblighi reali, e quei pochi quasi tutti aggirabili; molto tempo libero), molti docenti universitari, anche bravi, fanno altro. I medici visitano, gli economisti amministrano, gli ingegneri costruiscono, gli avvocati patrocinano. Lo stipendio di docente diventa argent de poche. Ma, inevitabilmente, anche l’impegno di docente diventa un travail de poche, che si può delegare tranquillamente agli ‘assistenti’ (una categoria abolita più di trent’anni fa che tuttora prospera nelle università sotto lo pseudonimo gentile di ‘dottorandi’ o, dio rimeriti con la sua destra il genio ministeriale che ha coniato questa formula, ‘cultori della materia’). Gli scienziati cercano di mettere un piede nelle aziende o nelle banche come consulenti. Gli umanisti sono i più commoventi di tutti, perché sono i più inutili e, insieme, i più vanitosi, e, dato che si occupano di cose in fondo facilmente comunicabili (poesia, archeologia, storia, arte), vorrebbero un almeno un pezzetto della fama e del denaro che inondano, immeritatamente, le starlet della società dello spettacolo. Perciò parecchi di loro perdono il controllo e si mettono a fare di tutto, a scrivere di tutto, anche gratis, per chiunque glielo chieda. Se il quotidiano locale ha bisogno di un articolo sulla pizza margherita, l’antropologo culturale (qualsiasi cosa sia un antropologo culturale) scrive un articolo sulla pizza margherita. Se «La Repubblica» («La Repubblica»!!) ha bisogno di dieci righe sulla roulette dei calci di rigore ai mondiali, la docente di filosofia morale scrive dieci righe sulla roulette dei calci di rigore ai mondiali inzeppandola di citazioni scriteriate da Bourdieu. L’idea che tra i loro compiti ci sia anche quello di mantenere il discorso pubblico a un livello decente, l’idea di dire ogni tanto ‘no, grazie’, non li sfiora. E così anche per loro, alla fine, fare lezione e parlare con gli studenti diventa un secondo lavoro.
Rimedi. Tanti, e nessuno applicabile, temo, se non accettando il fatto che questo popolo di razionalissimi diavoli agisce seguendo il suo interesse materiale. Se un giovane brillante, con una vera vocazione di studioso, ha davanti a sé la scelta tra diventare dirigente d’azienda a trent’anni e fare il ‘cultore della materia’ fino a quaranta e poi, forse, diventare ricercatore, abbandonerà l’università – dopo averla usata per cinque o più anni in cambio di una tassa poco più che simbolica – e farà bene. Le cose all’università cominceranno a migliorare quando diventeranno professori ordinari dei trentenni che hanno scritto tre articoli eccezionali e quando smetteranno di diventarlo dei sessantacinquenni che hanno scritto dieci libri irrilevanti ma – secondo la soave espressione usata (senza ironia) da un mio collega – meritano una medaglia prima della pensione. Finché l’anzianità verrà considerata più importante della capacità, l’università attirerà i mediocri e respingerà i migliori.
Per la stessa ragione (l’interesse materiale), è necessario che i risultati scientifici e didattici vengano premiati, il che significa diversificare gli stipendi, o i benefits (meno ore di lezione, congedi più frequenti), per esempio, tra full professors che non fanno niente da decenni e full professors che continuano a studiare, scrivere, formare studenti. Altrimenti i migliori se ne andranno all’estero: Germania, Svizzera, Stati Uniti, Asia. E i più abili continueranno a usare l’università come trampolino per le professioni, la pubblicistica, la politica. Bisogna chiedere di più ai docenti: più ore d’impegno nelle lezioni, nei colloqui, nella ricerca – ma, prima, bisogna dare di più a quelli che se lo meritano.
Studenti
Sugli studenti, che provengono da scuole diverse, che frequentano facoltà diverse, è inutile generalizzare. Forse l’unica osservazione generale che si può fare è che – dato che la vita si allunga, le cose da imparare si accumulano e si complicano, la società cambia rapidamente, i media prendono il posto della scuola – a tutti farebbe bene un biennio o un triennio di ‘formazione culturale di base’, qualcosa di simile al college americano, eventualmente con l’opzione per una o più discipline caratterizzanti (major e minor). Il 3+2 della riforma Berlinguer mirava, probabilmente, a qualcosa del genere. Ma, per come è stato impostato e per come è stato applicato, ha evidentemente fallito l’obiettivo. Quella che occorreva e occorre è una rifondazione, non una riforma, per di più a costo zero: e la rifondazione non c’è stata, né ci sarà.
A differenza della scuola dell’obbligo, l’università è, tra l’altro, il luogo della selezione. Un’università in cui tutti vengono promossi per il semplice fatto di pagare le tasse universitarie non è un’università che possa attirare gli studenti migliori. Si può discutere sui modi in cui attuare questa selezione. Per quanto riguarda le facoltà umanistiche mi sembra opportuno che una prima selezione avvenga all’ingresso. Una facoltà di Lettere non dovrebbe organizzare dei corsi di italiano scritto perché le matricole non sanno coniugare i verbi o non conoscono l’ortografia: dovrebbe dissuadere dall’iscriversi quegli studenti che a diciotto anni non sanno coniugare i verbi e non conoscono l’ortografia, perché quando ne avranno ventitré non sapranno che fare della loro vita. L’acculturazione di massa è un giusto proposito ma – per quanto sia tentante sentirsi investiti di un ruolo così nobile – non può essere il proposito dell’università, o può esserlo soltanto in circostanze e contesti particolari come i programmi di lifelong learning, un settore nel quale il sistema scolastico e universitario italiano è, manco a dirlo, alla preistoria.
Lo scopo di una facoltà umanistica – benché si tenda spesso a pensare il contrario – non è neppure quello di migliorare l’anima degli studenti o di assecondare le loro passioni. È giusto fare quello che piace se quello che piace è anche quello per cui si è portati. Non è difficile, da adolescenti, appassionarsi a Kafka o a Klee o ai Pink Floyd (più difficile che ci si appassioni, mettiamo, a Tasso o a Poussin o a Bartók). Ma, dopo l’adolescenza, ‘seguire le proprie passioni’ (un tipico consiglio da società dello spettacolo, sul registro demenziale di ‘esprimere se stessi’) senza avere né vocazione né cultura è una ricetta per il fallimento e per la disperazione. Questo tendono a dimenticarlo non solo i diciottenni che s’iscrivono in massa al DAMS o a Lettere o a Scienze della Comunicazione ma, cosa molto più grave, i docenti di quelle facoltà, che si compiacciono nel vedere le loro aule piene di futuri disoccupati incapaci di seguire un discorso minimamente articolato, e che li promuovono agli esami non per la loro attitudine e preparazione ma per la passione che li agita (mi auguro proprio che lo stesso metro non valga a Medicina: preferisco essere operato da un bravo medico un po’ svogliato piuttosto che da un entusiasta che però sviene quando vede il sangue).
Lo scopo di una facoltà umanistica, oggi, è simile (anche se non identico) a quello di tutte le altre facoltà. Formare persone che possano trovare un lavoro dopo la laurea. Queste persone non saranno dei professionisti (dunque è ora di finirla con la frottola delle facoltà umanistiche ‘professionalizzanti’: non lo sono e non devono esserlo) ma degli intellettuali, un nome che può essere riempito di molti contenuti ma non di tutti i contenuti. Possiamo discutere a lungo su quali siano i contenuti giusti. Ma forse potremmo trovare un accordo di massima su quelli sbagliati. Forse è sbagliato perseguire le proprie passioni fino all’estenuazione, e fare prima un esame, poi una tesina, poi la tesi triennale, poi la tesi del biennio su Kafka o Klee o i Pink Floyd. Forse è sbagliato schiacciare le preparazione sulla contemporaneità, dato che di contemporaneità è piena la vita: il che non vuol dire mettere l’esame di greco obbligatorio per tutti ma almeno pretendere che tutti quanti sappiano che i greci ci sono stati. Forse è sbagliato chiedere di esprimere le proprie opinioni su questioni complicate a ventenni che non conoscono neppure i rudimenti della ricerca (e dunque, per esempio: vogliamo abolire quel tour de force di dilettantismo e finzione che è, di norma, la tesi triennale?). E forse è il caso di evitare quel simpatico salto dall’Ignoranza al Postmoderno che molti studenti fanno, incoraggiati da docenti insicuri e vanesi, all’insegna del ‘tutto c’entra’ o ‘tutto è testo’ o ‘tutto è interpretazione’ (tesi rispettabilissime, anche se prese da tutti un po’ troppo sul serio, ma che andrebbero fatte valere in un ambito diverso da quello in cui si svolge la formazione di base degli studenti).
Così definita, o ridefinita, la funzione delle facoltà umanistiche, e considerando che viviamo nel 2011 e non, ahimè, nell’Atene del quarto secolo avanti Cristo, è anche chiaro che la società (quella che, tendiamo a dimenticarlo, finanzia l’università pubblica e privata) non ha nessun bisogno che le facoltà umanistiche laureino ogni anno mille o diecimila filosofi, letterati, storici, scienziati della comunicazione. Ne servono molti di meno, e di livello molto superiore: e numero e qualità sono qui, com’è intuitivo, grandezze inversamente proporzionali. Dunque occorrono meno facoltà umanistiche, più piccole, più selettive. Gli iscritti a Lettere non dovrebbero essere più numerosi degli iscritti a Scienze. E potremmo fare serenamente a meno di tutti gli iscritti a non-facoltà come Beni Culturali (esiste la storia dell’arte, l’archeologia, la biologia: non esistono i Beni Culturali) o Scienze della Comunicazione. Credo che chi obietta che l’università è di tutti e tutti hanno diritto di frequentarla, indipendentemente dalle attitudini e dal merito, e pagando poco, non valuti bene le conseguenze della sua obiezione, anche se alcune di queste conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. E credo che chi obietta che le facoltà umanistiche non sono soltanto degli indirizzi di studio ma anche tante altre cose meravigliose – un avamposto della Civiltà nel quale i giovani possono coltivare disinteressatamente le loro passioni, un baluardo contro l’invadenza dei media, un luogo del conflitto permanente, un ascensore sociale – fraintenda il ruolo che può e deve avere oggi l’università, e l’università pubblica in ispecie: un fraintendimento dettato, direi, piuttosto dal narcisismo che dalla generosità.
[Questo articolo è uscito su Italianieuropei online]
[Immagine: Gerard Richter, Stadt (gm)].
La cosa divertente è che sono gli autori a MANCARE DI MATERIALISMO.
E anche di umiltà: come fai dire che facoltà assolutamente inutili (lettere, filosofia ecc) non servono a nulla!? Servono a MANTENERE i baroni, gli amici degli amici, i figli di papà che in ambito lavorativo verrebbero presi a calci; se hai un minimo di CONCRETEZZA queste cose le capisci ;)
altrimenti fai solo della filosofia inutile
Ringrazio Giunta per l’analisi, che è bella, lucida e senza fronzoli. Alcune delle sue frasi andrebbero appese nelle bacheche dei dipartimenti, anche a Scienze politiche dove insegno io. Copio e incollo a caso, ma ce ne sono tante:
“i fondi degli atenei non sono stati usati per questo scopo ma per scopi diversi, primo fra tutti il pagamento degli stipendi dei (pochi) docenti neo-assunti e dei (molti) docenti promossi anche grazie all’ope legis e ai concorsi-farsa”
“la prima cosa da osservare a proposito dei docenti universitari italiani (ma lo stesso vale per chi insegna nelle scuole elementari, medie e superiori) è che parecchi sono indegni del loro ruolo”
“la generazione complessivamente nefasta dei baby boomers”
“un docente pessimo non verrà punito e un docente ottimo non verrà premiato”
“A differenza della scuola dell’obbligo, l’università è, tra l’altro, il luogo della selezione. Un’università in cui tutti vengono promossi per il semplice fatto di pagare le tasse universitarie non è un’università che possa attirare gli studenti migliori”.
L’aspetto dell’articolo su cui non sono d’accordo sono i rimedi. Non concordo sul rimedio ‘americano’ proposto alla fine del primo paragrafo, in primo luogo perché non funzionerebbe nel paese che fa dell’evasione e dell’elusione fiscale un modus vivendi, in secondo luogo perché io credo (e qui semplifico un’idea che merita ben altro spazio) che il dovere dello Stato sia quello di garantire diritti fondamentali attraverso la spesa pubblica. E il diritto a un’istruzione decente è un diritto fondamentale.
Grazie per questo articolo.
Essendo una studentessa universitaria in Lettere che ha vissuto frustranti situazioni di studio prima del passaggio, dopo il triennio, ad una Facoltà diversa in una città diversa, ho trovato estremamente interessante l’articolo, soprattutto perché la verve e la pungente ironia vengono da un docente stesso.
Condivido il discorso sui insegnanti, strutture, didattica, condivido (soprattutto!) l’appunto su biblioteche e bibliotecari (ho potuto constatare quanto incrementi la qualità dello studio di un ragazzo motivato ad approfondire se questi ha a sua disposizione una biblioteca molto fornita, di facile accesso, e con personale preparato e pronto a dare utili consigli).
Mi suscita qualche perplessità l’accenno, fin troppo breve, ai finanziamenti privati all’università, e con un po’ di realismo temo l’applicazione tutta italiana di un sistema americano, sistema che per altro non è privo di luci e ombre. Non concordo affatto con la stoccata finale contro chi “crede che l’università debba essere di tutti, al di là di attitudini e meriti, e debba costare poco” perché l’università DEVE essere di tutti, al di là delle possibilità economiche e quindi costare non dico poco ma nemmeno molto: le attitudini e i meriti riguardano la selezione all’interno dell’Università e fuori (prima di iscriversi). Chi ha i soldi per pagare un’università costosa del resto può anche permettersi di stazionarvi a vita, il costo non è certo criterio di selezione dei meriti.
Quello che mi preme però sottolineare riguardo le facoltà umanistiche (ma il discorso potrebbe essere esteso a tutte le facoltà) è la qualità dei programmi e dei piani di studio al di là dei singoli docenti.
Molto spesso durante il triennio di Lettere lo studente si trova ad affrontare una media di 8 esami l’anno, seguendo micro corsi della durata di 24-36 ore nelle quali si pretende di riassumergli le tematiche base dell’insegnamento scelto. Molto spesso si finisce per ristudiare per un unico esame di 6 crediti gli stessi manuali che si erano adottati al liceo per tre anni, aggiungendoci una spruzzata di letture antologiche in più. Una miseria, che concentrata in un unico esame di 6 crediti costringe comunque lo studente a uno studio massacrante, frustrante e mnemonico.
Inutile ribadire che dopo una sequela di esami di questa tipologia preparati in un solo anno lo studente facilmente rimuoverà tutte le nozioni assimilate senza contesto (le trame e la struttura delle opere sintetizzate in una pagina di manuale, senza la lettura delle opere) e si adagerà alla mediocrità del livello di studio richiesto, soprattutto se il docente non lo stimolerà a fare diversamente, cioè se il docente, a fronte di centinaia di alunni, si limiterà a lezioni frontali senza discussione e a sbrigativi esami di cinque-dieci minuti, spesso svolti al posto suo dai “cultori della materia”; e mi permetto di aggiungere che vi sono università in cui gli assistenti svolgono esami senza essere né dottorandi né cultori della materia.
Se poi uno studente volenteroso è costretto a 8-10 esami l’anno, avrà ben poco tempo per approfondire minimamente una materia al di là dei semplici testi in programma, a meno di non volersi laureare con anni di ritardo; del resto, se l’esame dura 10 minuti e per il professore si è solo un numero, “perché ” farlo?
Alla specialistica di solito si pensa di recuperare, inserendo corsi monografici, approfondimenti degli stessi insegnamenti che lo studente ha seguito due o tre anni prima e spesso rimosso. È ovvio che se le conoscienze studiate non vengono tenute in esercizio (se, per esempio, il latino viene usato una sola volta in tre anni per un esame e poi messo da parte) si dimenticano, e all’università si finisce per studiare peggio che alle scuole superiori.
Certo modificare i piani di studio in modo adeguato è difficile, anche a fronte delle necessità ministeriali: i crediti necessari per l’insegnamento seguono logiche burocratiche spesso vuote di significato, e raramente sono interamente conseguiti nei 5 anni. Moltissimi miei colleghi si trovano a dover dare, prima della laurea finale, i “crediti in esubero”. Potrebbe comunque essere utile, a fronte di una ristrutturazione dei piani di studio, anche l’accordo tra i vari docenti affinché, all’interno degli insegnamenti di base si arrivi a studiare e a leggere una quota minima di testi “cardine” (è possibile uscire dall’Università avendo letto nella vita intera solo cinque canti della Divina Commedia? Si, purtroppo).
Non c’è da stupirsi insomma, che molti escano da 5 anni di Università senza avere le conoscenze necessarie per insegnare, cosa che sposta la selezione in un altro momento (i concorsi per i TFA) o non l’attua affatto. Quello che al momento, in questo sfacelo e senza una versa riforma, può minimamente salvare uno studente motivato dalla mediocrità circostante (quantomeno dal punto di vista umano, non dico lavorativo) è molto spesso un fattore non “burocratizzabile”: il contatto con professori brillanti e disponibili, i quali di solito sono anche professori giovani (anche se non è un dato scontato) e consapevoli di essere brillanti, non interessati quindi a mantenere alto il loro morale vanesio con vecchie pratiche di autoritarismo baronale; e soprattutto porsi costantentemente, al di là degli automatismi dei crediti, un vecchio quesito “sessantottino”: perché studio questo? Per chi? A cosa mi serve? A cosa ci serve?
Ho letto questo articolo con attenta curiosità, come meritano lo stile diretto e il ruolo dell’autore, fonte primaria del mondo universitario (ex aequo con l’altra fonte altrettanto primaria: gli studenti). Tutto il discorso scorre liscio, finché si focalizza sulle soluzioni, e – segnatamente – sulla natura delle facoltà umanistiche. Riguardo queste ultime, invece di invocare una specie di numero chiuso (se ne può parlare, ma non mi sembra il problema più cogente), credo si debba lamentare la completa mancanza di “professionalizzazione” e di raccordo concreto, non dico con il mondo del lavoro ma – almeno – con l’idea stessa del lavoro. Mi spiego: fino a qualche tempo fa, chi si iscriveva a Lettere e Filosofia o si avviava all’insegnamento, o alla carriera/ricerca universitaria (questa, con molta difficoltà e bisognevole di qualche santo in paradiso), o tentava il giornalismo, o – infine – la libera scrittura. L’insegnamento, fra le possibilità citate, era – ridiamo amaramente insieme, pensando poi al fenomeno abnorme del precariato, a un concorso bandito a distanza di quasi dieci anni dal precedente – l’opzione più concreta; tutte le altre, molto fumose e totalmente affidate all’iniziativa personale. Nessun tirocinio – che so – in una casa editrice o nella redazione di un quotidiano, nessuna borsa di studio o master, ecc.
Da pochissimo, l’insegnamento richiede un percorso disciplinare e specializzante più specifico; togliamo, quindi, dal novero delle possibilità di un laureato in generiche Lettere anche lo sbocco scolastico: cosa ESATTAMENTE gli resta, in campo lavorativo, dopo la laurea, esclusi l’arrabattarsi a vita e il premio Nobel per la Letteratura?
Ben vengano quindi facoltà come Beni culturali (prendo spunto dall’articolo per questo esempio: quando mi sono laureata io non esisteva), che sembra concretizzare gli studi teorici di Storia dell’Arte e Archeologia per uno sbocco lavorativo specifico: chi vorrà far ricerca e teoria (degnissime attività) sceglierà altro, ma almeno la possibilità che un largo gruppo di “tecnici” possa lavorare per e nel patrimonio artistico sterminato dell’Italia, c’è.
Questi, credo, sono i nodi di impostazione didattica da sciogliere nell’Università italiana.
Grazie a LPLC per aver reso possibile questo scambio.
le consiglio di fare una passeggiata a Genova.
facoltà di giurisprudenza è un esempio eccellente di raccomandati di
tutti i tipi….tra figli di…amanti di….non trovi uno per merito…..
e nessuno ne parla….ssssss…tutti zitti!
Grazie per la lettura e le osservazioni.
A LUIINO. No, non direi che nelle facoltà umanistiche ci siano molti figli di papà o amici degli amici da sistemare. Il nepotismo è molto più diffuso in facoltà come medicina o giurisprudenza, perché lì girano i soldi. O nelle aziende, per la stessa ragione. Io e quasi tutti quelli che conosco non siamo figli dei figli né amici degli amici. Che poi il fenomeno esista, nessun dubbio, come segnala Paola D’Amico. Ma credo che la percentuale, nelle facoltà umanistiche, sia molto bassa.
A DOCENTE TQ. Sono in dubbio anch’io sulla questione dei finanziamenti da parte dei privati. Ma se non vogliamo la newsletter e i cappellini col sigillo dell’ateneo (che disgustano anche me), io credo che ci sia da lavorare legittimamente su due fronti: quello degli sgravi fiscali per chi finanzia, per esempio, investimenti sulle strutture delle università (o delle scuole); e quello ‘culturale’ del mecenatismo. Terreno difficile, questo: ma non vedo perché Intesa San Paolo usi i suoi miliardi per realizzare ‘un polo museale nel centro di Milano’ e non per esempio per dare una sede dignitosa ad alcune facoltà dell’ateneo torinese, o per finanziare delle cattedre.
A CLAIREIMP. Poco da commentare perché è tutto giusto. Salvo che l’università è sì di tutti ma, proprio perché la pagano tutti (anche chi non ci va: su questo non si riflette abbastanza!), dev’essere di tutti indipendentemente dal REDDITO ma non indipendentemente dai MERITI. E purtroppo è interesse delle facoltà, specie di quelle umanistiche, non bocciare per non vedersi decurtato l’FFO. Sulla questione della ‘gabbia d’acciaio’ che ci siamo costruiti con le nostre mani, e sulla idiozia dei moduli, deve solo leggere lo splendido libro di Lucio RUSSO “La cultura componibile”, ed. Liguori – che dice quello che anche lei sostiene.
A FIORELLA D’ERRICO. Io sono d’accordo col numero chiuso per il percorso che porta all’insegnamento (altro è il problema dell’esaurimento delle vecchie graduatorie: delicato ma distinto da questo). Al quale numero chiuso non potrà non corrispondere, direi, una forma di selezione all’ingresso: se abbiamo bisogno di 40 insegnanti l’anno, arruolare 4000 matricole è follia, o crudeltà. Ciò detto, un iscritto a Lettere ha, credo, gli stessi sbocchi di un tempo, e forse di più. L’insegnamento è il primo, ovviamente: e il fatto che ci sia il numero chiuso non chiude lo sbocco: permette una gestione razionale del problema; e poi gli sbocchi che anche lei indica, tutti col contagocce: università, giornali, editoria, interpretariato, soprintendenze ecc. (diciamo che negli ‘Sbocchi formativi’ dei siti di facoltà ci vorrebbe un po’ di onestà, e si potrebbe chiarire subito che solo uno su un miliardo avrà il Nobel; ma non è che a Legge diventano tutti Perry Mason…). Ma, e credo siamo d’accordo su questo, col contagocce devono essere dosati anche gli iscritti a Lettere, proprio perché il mondo non ha bisogno di legioni di filosofi (dico di laureati in filosofia – di filosofi in senso lato, più ce n’è meglio è). Non sono d’accordo sulla questione dei Beni Culturali o di altre facoltà o corsi di laurea ‘professionalizzanti’ e umanistici insieme come Scienze delle Comunicazione. Quanti concorsi RAI aperti a ‘scienziati della comunicazione’ ci sono stati? A mia notizia, nessuno. E davvero la valanga di studenti che si iscrive a Beni Culturali trova un lavoro poi nell’ambito turistico/culturale? A mia notizia (dati Almalaurea) no. La questione è complessa: ma l’esperimento di Beni Culturali (niente latino, poca storia dell’arte, una spruzzata di legislazione, un po’ di folcloristica botanica ecc.) a me pare fallito. Su questo, sono molto importanti gli interventi di Tomaso Montanari (da ultimo “A cosa serve Michelangelo?”, Einaudi, e in altre sedi). Servono, anche lì, pochi ottimi storici dell’arte o archeologi, e poi un po’ d’esperienza da farsi in musei biblioteche soprintendenze. O così mi pare.
Ancora grazie
Da studente di Lettere moderne a Pisa, trovo in molte delle considerazioni che vengono fuori nell’articolo e nei commenti delle vive corrispondenze con la mia esperienza quotidiana. L’articolo è interessante e ricco di spunti, ma a mio avviso monco.
Strutture: tutto giusto e, in particolare, mi sembra importante la faccenda delle biblioteche a scaffale aperto; aggiungerei la necessità di agglutinare il più possibile le aule in un’unica zona della città, problema meno scottante per i docenti, ma realmente decisivo per gli studenti che si trovano ad avere pochi secondi tra una lezione e l’altra per attraversare da cima a fondo la città, soprattutto quando questa è molto grande.
Docenti: qui mi trovo abbastanza d’accordo sull’analisi e in totale disaccordo sugli obiettivi da raggiungere e sul modo per conseguirli. Non so che farmene dello studente “brillante” che sceglie di fare il dirigente d’azienda a trent’anni. Non accetto affatto e non accetterò mai e non accetto che si accetti che “questo popolo di razionalissimi diavoli agisce seguendo il suo interesse materiale”. Se dobbiamo permettere che esistano professori che “insegnano letteratura” seguendo il proprio interesse materiale, se dobbiamo continuare a mettere sempre da parte la morale (perché di morale soprattutto oggi si tratta, e molto meno di ideologia) e lasciarci convincere e convincere gli altri che va bene così, che ormai è tutto così ed è giusto accettare questa cosa anche attorno a noi, dentro di noi, allora no, mi spiace, allora, in nome di Dio, che si chiudano una volta per tutte le facoltà umanistiche, e forse ci sarà qualche speranza di ripartire. La letteratura è un valore, ed è un valore di tipo antitetico rispetto all’interesse materiale. Se un docente universitario non è capace di insegnare questo, bisogna togliergli immediatamente la possibilità di parlare – dalla posizione di autorità della cattedra – di una cosa che non può o non vuole capire.
Poi, il docente deve il più possibile scrivere su Repubblica, deve assolutamente fare divulgazione, molto ma molto di più – e soprattutto molto meglio, e qui siamo d’accordo – di quanto non si faccia attualmente. I grandi scrittori del passato non avrebbero certo desiderato semplicemente di essere studiati dall’ultimo studente brillante dentro l’ultima stanzetta ovattata dell’ultima biblioteca dell’ultima università italiana. I grandi scrittori parlavano a un pubblico più o meno ampio, anche molto ampio, e non capisco come si possa pretendere di capirli senza misurarsi continuamente con questa dimensione comunicativa profonda e totale anche prima e dentro il lavoro critico.
Studenti: sono d’accordo sullo sbarramento, ma non sui fondi privati come soluzione principale (e qui quoto perfettamente Docente TQ). Lo scopo di una facoltà umanistica è formare un numero spendibile di professionisti dotati di passione, che abbiano le competenze adatte a trasmettere questa passione, fermo restando che le lezioni sono pubbliche e devono essere aperte a tutti – diversamente dagli esami – e che questo va ricordato e meditato più spesso. Se invece cerchiamo solo una comunità scientifica che ricostruisca fedelmente il nostro passato storico e culturale, allora, ripeto, chiudiamo le facoltà e apriamo tanti circoli culturali per veri interessati. Ma non spacciamo questo giochino storicistico per qualcosa di “umanistico”, in questi tempi in cui ogni uomo che abbia qualcosa di veramente umano dentro di sé è costretto a gridarlo a squarciagola – con passione – per farsi appena sentire oppure rassegnarsi del tutto, tacere e morire.
Mi limito ad aggiungere, in riferimento alla gentile risposta del Prof. Giunta, che l’idea del numero chiuso e dei “pochi ma buoni” mi inquieta, sa del solito, trito adagio “la cultura non è per tutti”. E questo, dal punto di vista sociale – e anche, prosaicamente, ricordando che sono le tasse pagate dai tanti a permettere la vita delle Università – non credo potrebbe essere un passo avanti.
Grazie.
A ROBERTO GERACE. Credo che il suo punto di vista sui “razionalissimi diavoli” cambierà coll’età: non nel senso che rinnegherà le sue idee, che condivido, ma nel senso che vedrà che non si tratta di pensare alla Letteratura come a un interesse antitetico rispetto agli interessi materiali bensì, molto pragmaticamente, di garantire il benessere di persone che insegnano Letteratura e altre belle cose non immediatamente utili: benessere al quale queste persone (me compreso), passati i vent’anni, non sapranno, non vorranno e non potranno rinunciare. Non bisogna essere cinici, ma non bisogna nemmeno essere idealisti a ogni costo: e credo che il peccato più grave sia il secondo.
Sono ben lontano (come vede) dal ritenere che gli intellettuali dovrebbero pubblicare soltanto note erudite su riviste esoteriche. Ma quando si scrive sui giornali si diventa dei dipendenti dei giornali: e sono loro a decidere su cosa uno scrive (di solito è una telefonata alle sei di sera: “E’ morta Agotha Kristof, ci fai tre cartelle?”; ma più spesso ancora è: “E’ morto Gianfranco Funari, ci fai tre cartelle sulla TV trash degli anni Ottanta?”; o peggio). E’ difficile dire di no, perché i giornali pagano, e perché a tutti piace che il proprio nome venga letto dal vicino di casa in prima pagina. Perciò io non chiedo l’astensione, chiedo il decoro.
A FIORELLA D’ERRICO. Ma la cultura non è per tutti. La cultura è per tutte le persone interessate alla cultura. Il che significa che io sono ben lieto di pagare le tasse per la musica classica e per le facoltà di ingegneria, senza per questo partecipare ai concerti (né come concertista né come ascoltatore) o alle lezioni di scienza dei materiali. L’idea che – non la cultura – ma l’istruzione universitaria in campo umanistica sia una cosa diversa dalle altre deriva dal pregiudizio umanistico che ci fa ritenere che senza la “Vita nova” di Dante Alighieri la vita non sia vita. Ma la vita è vita lo stesso, anzi molto spesso è una vita migliore.
Lei non ha alcun potere di previsione sull’evoluzione dei miei punti di vista.
Io non ho detto che garantire il benessere suo e dei suoi colleghi non sia importante ai fini di un complessivo miglioramento della didattica nelle università italiane. Dico che se i suoi colleghi hanno bisogno che questo benessere cresca (perché, mi creda, sul fatto che ci sia già non ci piove) per esercitare al meglio la loro professione, io rispondo a lei e a loro che non hanno capito niente di ciò che insegnano. Mi sa spiegare lei per le virtù di quale mago, nonostante i disastri che lei lamenta discorrendo delle strutture delle facoltà italiane, possano ancora esistere professori che non solo fanno benissimo il proprio lavoro, ma lo riempiono di un’umanità e profondità che l’istituzione di per sé non garantisce né favorisce? Se il problema delle strutture è veramente il primo “in ordine d’importanza e di gravità”, vorrà dire che chiederò alla Prof.ssa Benedetti il numero della sua fattucchiera – ammesso e non concesso che ne abbia una.
So che è un “peccato grave” impostare qualsiasi discussione con accuse preventive che finiscono con “-ista”, e che queste sono, di solito, più un modo per ripararsi sotto la coltre di una presunta equità, che la via più onesta per entrare nel merito delle questioni. Ma non sono capace di stabilire quale sia “il peccato più grave” tra idealismo e cinismo.
In quest’italietta così meschinamente cinica, però, devo dire che so bene da che parte stare. Del resto, immagino lei sappia che Dante, quel povero “idealista” mai cresciuto, mi avrebbe dato ragione.
Ringrazio Claudio Giunta per avere dato voce alla mia rabbia.
Sono un’insegnante di Liceo che non ha mai avuto la fortuna di essere “osservata” sul campo da un “controllore”. Un tempo esistevano gli Ispettori Ministeriali che, nel bene o nel male, verificavano se il dipendente a cui lo Stato aveva dato fiducia era affidabile; oggi chiunque abbia, o non abbia, superato un concorso, può fregiarsi del titolo di “docente”, senza che nessuno si preoccupi di andare a vedere se ne sia degno o se, invece, sia a scuola solo per scaldare la poltrona, se va bene (se va male, a danneggiare irreparabilmente le menti degli allievi).
Anch’io ho tanti bravi colleghi, ma vi assicuro che ce ne sono altrettanti a cui un sano ritorno alla terra farebbe solo bene.
La scuola, così come l’università, è stata finora un bel “parco-macchine” cui attingere per ricevere voti in cambio di richieste minime di impegno e della certezza del posto di lavoro. Oggi non possiamo lamentarci se la nostra scuola è ridotta così: finché nessuno si prenderà la responsabilità di mandare a casa chi non fa il proprio dovere non potremo iniziare a cambiare le cose.
Mi inserisco in un dibattito forse già concluso. I punti discutibili sarebbero molti e molti sono già stati discussi, ma vorrei che l’autore dell’articolo riflettesse e mi spiegasse meglio un tema forse marginale, sgusciato dentro al discorso nell’ultima parte del post e preceduto, a dire il vero, da una serie di «forse» che lo mitigano: l’idea che «forse è sbagliato chiedere di esprimere le proprie opinioni su questioni complicate a ventenni che non conoscono neppure i rudimenti della ricerca» e che è meglio «evitare quel simpatico salto dall’Ignoranza al Postmoderno che molti studenti fanno».
Come giovane (e aggiungerei, anche se questo non è il caso, come giovane donna, binomio infelice oggi in Italia) mi ferisce constatare che, ogni volta e ovunque, da me, da noi, non ci si aspetta che balbettii e lallazioni.
È vero: noi studenti non ancora in possesso di una laurea diciamo spesso banalità, ci esprimiamo male e ignoriamo intere bibliografie. Eppure credo che darci la possibilità di sbagliare sulle questioni importanti, di essere magari superficiali simpatici dilettanti, ma forse ogni tanto anche interessanti e preparati, ci sarebbe di grande aiuto da un punto di vista “professionale” (ci eserciteremmo ad esempio a parlare in pubblico, ad articolare un discorso logico e convincente, a prepararci, a presentarci e a presentare le nostre idee, tutte cose utili non solo se si fa l’“intellettuale”, ma anche se più semplicemente si va a un colloquio di lavoro) e soprattutto ci sarebbe d’aiuto su un piano diciamo “psicologico”, per farci sentire un po’ meno cancellati, non così inutili inerti muti che tanto vale andarsene, dall’Italia.
Credo che proprio in questo momento così difficile molti studenti vorrebbero chiedere a voi − che siete giovani insegnanti nelle nostre università e fratelli o sorelle maggiori nella vita − di poter essere presi sul serio e messi alla prova, di poter essere, a venti-venticinque anni in questo paese, non soltanto ragazzi ma anche un po’ adulti, cioè imperfetti, incompiuti, a tentoni tra le cose − come voi, e come voi in diritto-dovere di essere interrogati su tutto.
A MADDALENA. No, direi che la discussione non è affatto conclusa (quanto a me, passo ogni tanto e se ho qualcosa da dire in aggiunta al già detto la dico, altrimenti taccio). Lei ha molte buone ragioni. In quello che scrivo, non solo qui, traspare un’idea un po’ castratoria della formazione culturale, che ha delle buone ragioni anche lei, ma forse (sempre forse!) anche qualche torto.
Ma distinguerei: tra il ‘prendere la parola nel discorso pubblico’ e la formazione universitaria. Quanto alla prima, sono perfettamente d’accordo con lei. E’ innaturale e dannoso per tutti che le trasformazioni in atto – per esempio la rivoluzione informatica – ci vengano descritte da sessantenni (o anche da quarantenni) che quelle trasformazioni le vivono di striscio: il loro parere non mi interessa, mi interesserebbe il vostro, un parere che nei media non riesce ad affiorare. Quanto alla seconda, io ho, come ho detto, una visione piuttosto conservatrice, scolastica anche nel peggiore dei significati. Ma consideri se il diffuso infantilismo di molti studenti (di tutti quanti, oggi, ma anche degli studenti), il loro essere incapaci di organizzare, spesso, un discorso elementare, la loro iper-emotività, il dilettantismo sentito non come un limite ma come un diritto – consideri se tutto questo non sia la conseguenza non di un orientamento repressivo (“Per favore NON esprimete le vostre opinioni”) bensì, al contrario, della retorica della creatività che, dai media, è tracimata nella scuola, o viceversa (“Per favore, esprimete le vostre opinioni liberamente, senza curarvi della sintassi o del significato delle cose che dite”).
Ho detto ‘vostro’, e devo aggiungere che ho qualche remora a parlare di ‘giovani’ in generale. Ho molti dubbi sui ragionamenti impostati sul vago concetto della generazione o della coorte. Credo proprio che quello dell’età sia, tra tutti i possibili vincoli, uno dei più fasulli, e dovremo, direi, disfarcene (conosce la battuta di Larkin? “Quando ero bambino credevo di odiare tutti quanti. Poi sono cresciuto e ho capito che odiavo soltanto i bambini”). Ma è facile dirlo quando, come me, si è vecchi abbastanza da avere altri vincoli (trans-generazionali, lavorativi, affettivi).
Grazie.
Maddalena ha ragione. Lei sa di avere il diritto di parola ma non è sicura di sapere bene come esercitarlo. E’ qui, secondo me, l’inizio di tutto: ci è stato dato (per fortuna) un sistema di diritti intoccabili a cui tutti attingono, senza che, magari, ne siano del tutto degni. Voglio dire che è giusto dare a ogni cittadino la possibilità di partecipare alla “gara” della vita, ma non è detto che poi tutti debbano arrivare primi. Si è creato nel tempo un grosso equivoco: il fatto di sapere leggere e scrivere ha suscitato nella gran parte delle persone la consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità. Ben venga tutto ciò se contribuisce a formare dei cittadini migliori (e quanto sta avvenendo in questi tempi strani ci induce a pensare che questa sia stata solo una bella illusione), ma purtroppo non ha niente a che vedere con la Cultura, che è sicuramente non per tutti, giacché non si può comprare, ma è frutto di sacrifici enormi, rinunce e scelte spesse sofferte. Non voglio ripetermi, ma continuo a chiedermi: come possiamo lasciare a docenti che non sono mai controllati la responsabilità di trasmettere alle giovani generazioni l’amore per la cultura ?
Tanto l’articolo quanto la discussione sono estremamente interessanti. Vorrei contribuire con alcune riflessioni.
1.
è vero, nell’articolo non sono presenti soluzioni definitive, difficile sintetizzarle in un articolo dato lo stratificarsi dei problemi nel tempo. Sicuramente occorre una riedificazione dell’università, ma attraverso un percorso di lunghissimo periodo che a mio giudizio non va assolutamente affidato alla politica. Fantasticando ipotizzerei un ministero della pubblica istruzione svincolato dai governi e al quale si dia l’incarico di riorganizzare tutto l’apparato scuola e università da qui a trent’anni. Fantascienza, lo so.
2.
capitolo test d’ingresso. Tasto dolente, molto dolente per il modo di vedere le cose italiano, la garanzia, il diritto etc. etc. . Tutte cose sacrosante; personalmente anche io sono contrario ai test d’ingresso, ma per una semplicissima ragione. Come si a a stabilire attraverso un test preliminare chi è atto ad un percorso rispetto ad un altro? Se così fosse si potrebbe direttamente assegnare le lauree all’esito stesso del test. Sappiamo invece come chi passa il test d’ingresso non è detto che poi porti a termine gli studi. Ragione per cui, non essendo il test una sistema divinatorio, lascerei la questione ai fatti diminuendo gli appelli di esame nel corso dell’A.A., valutando seriamente gli studenti, essere meno larghi di voti solo per avere maggiori sovvenzionamenti statali e consentire l’iscrizione all’anno successivo solo a chi ha finito tutti gli esami dell’anno precedente. Chi non dovesse essere portato al corso di studi inizialmente scelto lo saprebbe al termine del primo anno quando potrà iscriversi al secondo oppure no. In questo caso la possibilità rimane data e si eviterebbero fuoricorso trentennali. Ovviamente andrebbero calibrati di conseguenza i piani di studio e la mole di esami in base a questo criterio. E non adotterei tale strategia solo per le materia umanistiche ma per tutti le facoltà.
3.
Valutazione degli insegnanti. Altro tasto dolente, non è facile, ma questo non significa che sia impossibile. Consapevoli di come ogni valutazione possa incorrere in errore, resta necessario sottoporre anche il corpo docente tutto (dalla scuola dell’infanzia siano alle scuole di dottorato) a forme di verifica nel tempo. Non so dire precisamente come ma a mio giudizio è un punto molto importante della questione.
Caro Claudio, grazie per questo contributo che ho letto e discusso con alcuni colleghi, con tutta la passione che proposte forti e non ipocrite suscitano.
Mi permetto di segnalarle, al proposito della questione biblioteche, un mio modestissimo contributo: http://www.ultimasigaretta.com/blog/un-muffin-in-biblioteca/.
Ottimo articolo, anche se, come altri hanno già detto, non sono d’accordo con alcune delle soluzioni proposte. Vorrei anche sfatare un po’ il mito che all’estero i professori siano facilmente licenziabili. Conosco bene solo il sistema britannico (che di fatto, avendo fatto tutto il percorso universitario li, conosco meglio di quello italiano) e un poco quello tedesco, e non e’ vero che se non produci qui ti licenziano: in generale la sicurezza del proprio posto di lavoro e’ uguale che in Italia. Credo che anche nel sistema americano , una volta raggiunta la tenure, bisogna fare cose parecchio gravi per essere licenziati. La differenza tende a vertere sulla velocità in cui si fa carriera e sul fatto che, essendo i docenti molto piú mobili, piú si è bravi e più si hanno possibilità di essere assunti da un altro dipartimento in un altra università.
Sono un po’ confusa sulla discussione con Maddalena, e vorrei capire cosa volete dire esattamente quando parlate di esprimere opinioni. Io penso che il compito primario dell’università e’ proprio quello di fornire agli studenti la capacità di formare opinioni e di saperle difendere in modo logico e rigoroso. Di fatto, credo che uno dei problemi dell’università italiana sia proprio l’insistenza sul modello napoleonico di erudizione, e la poca insistenza sull’autonomia intellettuale degli studenti. Questo si vede palesemente nella differenza in cui si valutano gli studenti in Italia e in altri paesi, soprattutto quelli anglosassoni. Qui in Gran Bretagna, ma anche negli Stati Uniti e in Germania, gli studenti seguono un corso e poi viene chiesto loro di scrivere un saggio su un argomento deciso dal professore, o, nel terzo e quarto anno, su un argomento scelto da loro. Questo significa che vengono giudicati non su quanti fatti abbiano imparato, o quanti riescano a ricordare (anche se ci sono anche esami di questo tipo), ma su quanto siano capaci di andare in biblioteca, leggere criticamente, formare idee, presentarle in modo chiaro, formare ‘arguments’ e difenderli. Mi sembra abbastanza strano che un docente (se la ho interpretata bene, mi corregga se ho capito male) pensi che tutte queste cose non siano importanti.
E da questo punto passo ad una lamentela su queste frasi di Claudio Giunta:
“Ma consideri se il diffuso infantilismo di molti studenti (di tutti quanti, oggi, ma anche degli studenti), il loro essere incapaci di organizzare, spesso, un discorso elementare, la loro iper-emotività, il dilettantismo sentito non come un limite ma come un diritto – consideri se tutto questo non sia la conseguenza non di un orientamento repressivo.”
Non crede che stia generalizzando e si stia lasciando guidare da un malinconia non basata sui fatti? Che dati ha che provano che gli studenti di oggi (perche’ mi pare che a loro si sta riferendo) siano più infantili e emotivi, meno capaci, etc.? E non crede che la soluzione sia precisamente di chiedere la loro opinione *di più*, e fin dall’inizio, in modo che imparino cosa vuol dire formarsi un opinione e esprimerla coerentemente?
Conosco vari colleghi, italiani e non, che trovano che gli studenti italiani (ma anche spagnoli e francesi) erasmus qui in Gran Bretagna sono molto eruditi (spesso molto di più degli studenti indigeni), ma nei loro saggi mostrano difficoltà a formare idee propre e a difenderle, e invece tendono a rigurgitare informazioni interessanti ma non rilevanti alla domanda che gli è stata data, o a rifarsi a principi di autorità (“X è vero perché l’ha detto uno studioso importante).
Concludo con una domanda: qualcuno ha mai calcolato quanto costa all”università italiana il fatto che gli studenti possano fare e rifare gli esami tutte le volte che vogliono? Certo, rispetto ad altre spese sarebbe probabilmente una cifra esigua, ma e’ una delle prime cose che cambierei (oltre ad abolire gli completamente gli esami orali)
abolire completamente gli esami orali? e quando diventi professore, come si fa lezione? e quando bisogna esprimere in una qualsiasi altra circostanza un’opinione articolata?
Salve, sono una studentessa di Lettere, il mio percorso universitario è stato difficile (e incredibile), sono stata a Scienze Politiche, poi a Lingue, e infine ora, mi ritrovo a Lettere, iscritta al secondo anno in corso.
Ho letto anche io come gli altri che hanno commentato con molto interesse l’articolo. Mi trovo completamente d’accordo sul discorso sugli spazi universitari e sui docenti, in parte in disaccordo sul discorso sugli studenti.
Trovo che il suo articolo in quel senso sia un po’ “freddo” e che tenda ad avallare un ragionamento elitario che non condivido, e inoltre non tenga conto della realtà extrauniversitaria degli studenti. Penso che lei non prende in considerazione ciò che accadrebbe a tutte quelle persone che non si potrebbero iscrivere a Lettere nel caso in cui venisse applicato il test d’ingresso. Nonostante abbia una media di voti molto alta, e nonostante mi ritengo e so di essere una studentessa meritevole che merita molto di più di quello che l’Università italiana le dà, preferisco che la mia non sia una Facoltà esclusiva, perché ho visto professori che hanno non dico salvato, ma comunque dato una possibilità, almeno una, nella Roma dove vivo io, che è una Roma di periferia, dove l’università è sì un post-liceo, diciamo così, ma comunque nel suo esserlo ha dato speranza, dicevo, alle persone, persone per cui l’unico futuro che vedevano era darsi allo spaccio di droghe pesanti o farei i disoccupati. Superare un esame per chi era destinato a lavorare al baretto di quartiere, o a finire a bighellonare senza meta nel proprio quartiere, direi che è un bel traguardo. Queste cose forse non riguardano l’Università, troppo occupata a piangersi addosso e a non voler comprendere cosa gli sta accadendo?
Forse il problema allora è che il concetto di meritocrazia è completamente sballato. E forse il problema è che, a mio avviso, si vogliono le Facoltà esclusive e funzionanti e americanizzate, ma poi si creano degli scarti di emarginazione sociale da far arrossire chiunque, e che se si creassero (e già ci sono) non sapremmo assolutamente come gestire.
Perché non ragionare invece sui Piani di Studio (mi sa che già qualcun’altro ne ha parlato), che vengono studiati esclusivamente solo in vista di una professione? Mi ritrovo attualmente con un piano che non mi permetterebbe di esercitare nessuna professione, nonostante sono certa di saperne molto di più di Storia di quello che mi insegnavano al Liceo.
Non è che forse aprendo e non vincolando i piani all’esercizio dei mestieri, si avrebbero studenti più motivati e quindi anche meno “pecoroni”?
Perché non ragionare, ancora, sul fatto che uno studente di Lettere deve dare tra gli otto e i nove esami all’anno, e in quell’anno non impara quasi niente, perché tutto, alla fine, si impara a memoria, e gran parte degli esami (anche per i curricula individuali) sono obbligatori, e vengono fatti da professori che o ti insegnano l’ovvio, o partono con corsi che vai alla prima lezione e ti rendi conto che in realtà ti mancano i prerequisiti?
Perché i docenti non vogliono conoscere quella realtà di cui parlavo prima, in cui vivono gli studenti, e sembrano vivere in un loro mondo fatto di letterature ed etimologie, che sì sono belle, ma solo se partono dal fatto che viviamo qui, in questo quartiere di questa città di questo Paese in questo anno?
Forse queste sono le urgenze, le cose su cui bisognerebbe riflettere, perché ho la sensazione che i docenti non sono presenti, e nel loro non essere presenti, si lasciano andare e perdono molti studenti, e come Università, tutti ci perdono.
@Serena
Sante parole!
Potrebbe cortesemente spiegarmi per quale motivo la generazione dei baby boomers risulterebbe “complessivamente nefasta”?
Comunque: se si trasforma lo studente in cliente va da sé che il suo percorso verrà, per così dire, tutelato ben oltre le effettive capacità intellettuali del soggetto. Il cliente ha sempre ragione.
Lorenzo Marchese
“e quando diventi professore, come si fa lezione?”
Non sequitur. Che c’entrano le lezioni con gli esami? Perché, quando gli esami sono scritti le lezioni non si fanno?
“e quando bisogna esprimere in una qualsiasi altra circostanza un’opinione articolata?”
In esami e, soprattutto, in saggi scritti in cui uno l’opinione se la forma, come va fatto, con calma, leggendo, e pensando, non reagendo in un attimo ad una domanda orale.
all’università si impara a fare una serie di cose, fra cui a parlare e scrivere di vari temi.
questo forma lo studente per il futuro, per quando (ottimisticamente) andrà a insegnare o farà qualsiasi altro lavoro in cui sia importante parlare, o anche rispondere in un attimo a una domanda orale, visto che anche ciò ha la sua importanza, oltre al “formarsi un’opinione con calma”.
tanto più è importante preservare una comunicazione orale di qualità in un contesto culturale in cui, mi sembra, c’è il predominio schiacciante della forma scritta, con la mega-diffusione dei computer e di internet.
più chiaro così? ero stato un po’ ellittico=)
A me l’analisi sembra molto puntuale e condivisibile. Aggiungo soltanto un paio di noterelle.
1) Il 3+2 non credo sia stato capito. Allo stato attuale mi sembra piuttosto un 5+0. Un fatto invece assolutamente normale nel mondo anglossasone (e non solo) e’ che ad un 3 svolto in una facolta’ possa seguire un 2 in una facolta’ del tutto diversa (o quasi). In questo modo lo studente ha il tempo e la motivazione per fare delle scelte (anche “sentimentali”), ma poi ha la possibilita’ di definirle meglio o modificarle in corso d’opera.
Quanto avviene questo in Italia? A naso, mi sembra pochissimo, visto che i professori hanno l’elasticita’ di un bicchiere di cristallo.
2) Sono d’accordo sulla necessita’ di abbandonare l’idea che l’uni sia un diritto inalienabile ed universale. Ricordiamoci pero’ che in Italia i laureati sono ancora pochi (e molti pure in materie “sbagliate”, come emerge bene dal post).
3) Qua e la’ vengono fuori delle critiche di ordine generale sulla cultura degli studenti che chiamano in causa diretta la scuola. Sono per la maggior parte critiche fondate. La nostra scuola e’ basata ancora sul modello napoleonico (come giustamente dice Manuela) con una coloratura gentiliana, che fa da colpo di grazia. E non schiodiamo di la’. E’ un discorso lungo che non voglio cominciare qui, pero’ se riuscissimo ad iniettare un po’ di liberta’ e di senso della ricerca nella scuola italiana (curiosare, scoprire, interrogarsi e rispondersi in maniera articolata al di la’ dei polverosi percorsi ministeriali da imparare a memoria), SICURAMENTE se ne gioverebbe anche l’universita’. E magari qualcuno potra’ capire a 18 e non a 30 anni che i Pink Floyd non saranno mai la fonte del suo pane quotidiano.
Lorenzo Marchese
La capacità a parlare si può esercitare a traverso presentazioni orali (esercizio molto simile a quello di fare lezione) e seminari in cui agli studenti si chiede di leggere un articolo e lo si discute insieme. Entrambi metodi sono di rutina all’estero.
L’esame orale, oltre ad essere inutile come metodo formativo, e’ pessimo anche dal punto di vista della trasparenza e dell’imparzialità. Non solo è facile essere corrotti negli esami orali, è anche molto facile, pur essendo perfettamente onesti, favoreggiare alcuni studenti su altri senza volerlo. Inoltre, in generale nell’esame orale e’ praticamente impossibile garantire che tutti gli studenti siano sottoposti esattamente alle stesse domande.
@Francesco Rocchi, mi sconcerta il punto 2, quando lei dice: “Sono d’accordo sulla necessita’ di abbandonare l’idea che l’uni sia un diritto inalienabile ed universale. Ricordiamoci pero’ che in Italia i laureati sono ancora pochi (e molti pure in materie “sbagliate”, come emerge bene dal post).”
Mi sconcerta il suo cinismo, innanzi tutto (solo quando gli universitari saranno abbastanza da far rialzare l’economia del nostro Paese,allora si potrà scaricare finalmente questo peso che sono gli studenti universitari, se ho capito bene dove vuole andare a parare). Secondo, mi lascia senza parole constatare che ancora non si è capito che il problema non è chi frequenta l’università, ma come è stata concepita da altri, e che o ti sta bene quel modo o arrivederci e grazie.
Altri passi che non condivido invece sempre nell’analisi del post: il cinismo dei due incisi “– i figli crescono, le ex-mogli esigono – ” (le ricordo che le donne tengono in piedi uno stato sociale inesistente in Italia, e non si meritano cattiverie gratuite da nessuno) e “– dopo averla usata per cinque o più anni in cambio di una tassa poco più che simbolica – “. Tassa poco più che simbolica? In che mondo vive l’autore del post? Io in un anno pago 878 euro di tasse, e mia madre è una donna sola che guadagna 1200 euro al mese.
Chiariamo una cosa: il materialismo è una cosa, il cinismo un’altra.
@Manuela:
Molte delle cose che dice nel suo primo commento mi sembrano importanti, e in particolare sull’attenzione eccessiva che viene tributata alla preparazione erudita rispetto alla formazione di una capacità critica. La necessità improrogabile di introdurre in TUTTI gli esami una prova scritta di tipo discorsivo, poi, è innegabile (e a pensarci [@Giunta] questo accorgimento, se applicato seriamente, fungerebbe di per sé da filtro e ci risparmierebbe la necessità del test a sbarramento).
Solo che: a) la capacità di formarsi opinioni critiche e argomentarle non è tutto. Esiste una cosa che nei Paesi anglosassoni (e in particolare negli States), mi rendo conto, andrebbe tradotta con un neologismo, ma che in italiano possiede due parole ben precise che la designano: coscienza storica. Questa cosa qui, secondo noi napoleonici, è un prodotto dell’erudizione. Mi scusi, che cos’è la “capacità di formare opinioni” di cui lei parla? Io penso che il confronto con discipline diverse dalla nostra, o anche con periodi storici su cui siamo poco ferrati, ci possa fornire 1) nuove chiavi di lettura di ciò che studiamo, per così dire, dall’esterno, 2) una capacità di sintesi sistematica (mi deve scusare, l’italiano è pieno di queste espressioni intraducibili e ottocentesche) delle nostre conoscenze, cioè *quella cosa che ci permette, unica e sola, di avere una posizione critica nei confronti del mondo in cui viviamo e un’idea della direzione in cui vogliamo che esso si muova nel futuro*. E’ troppo napoleonico?
b) la prova scritta non può e non deve essere l’esame finale, perché grazie a Dio non stiamo parlando della dimostrazione di un teorema, ma della discussione di un tema che può essere interpretato o quanto meno affrontato in modi diversi. Mi scusi l’onestà, ma io una capacità critica che produce un elaborato scritto e poi non sente il bisogno di discuterlo con qualcun altro, e col professore in particolare, la chiamo onanismo. Sarò un’eccezione, ma io molte delle pochissime cose che so le ho imparate discutendo e facendomi smontare dagli altri le mie convinzioni, oppure in seguito ad approfondimenti stimolati da discussioni.
sottoscrivo gerace, che dice molte cose intelligenti.
@manuela, la sua posizione non mi convince. la possibilità di essere corrotti sussiste in ogni circostanza. e poi, di preciso, perché tutti dovrebbero essere sottoposti alle stesse domande?
le esposizioni seminariali, le presentazioni orali, le discussioni a partire da fonti; sono tutti sulla stessa materia, sullo stesso preciso argomento? o lo sarebbero, nella sua idea?
@Serena
Io ci penserei un attimo prima di dare del cinico a qualcuno. Anche perché mi sembra che lei legga un po’ affrettatamente.
“Inalienabile ed universale” vorrebbe dire che il 100% della popolazione dovrebbe avere il diritto di andare all’università. Ma le università, anche negli Stati dove sono trattate decentemente, hanno una quantità di risorse finite: tot soldi permettono di laureare tot studenti.
Se in un’aula, invece, capace di contenere 10 persone ce ne metto 30, otterro 30 laureati scarsi, poco preparati.
A quel punto deve chiedersi: se non posso far laurerare tutti, chi devo far laureare? La mia risposta è: quelli bravi, di qualsiasi provenienza sociale.
Se la sua preoccupazione sono i figli delle borgate, io le dico brava, ha cominciato bene. Ma in una università in cui vanno tutti, sia pure con servizi minimi e scadenti, chi si laureerà bene ed in tempo? Quelli che hanno i soldi per i libri, per i viaggi, per non dover lavorare: i figli dei benestanti.
In UK, che pure è un paese classista, ci credono tanto che le tasse universitarie le paghi solo dopo che ti sei trovato un mestiere abbastanza remunerativo da permetterti di pagarle.
Ai figli delle borgate vanno date buone scuole (quelle sì inalienabili ed universali!), in modo che poi all’università se la giochino e poi, una volta dentro, possano essere sostenuti fino alla fine.
E per le tasse universitarie: 900 euro sono esattamente 75 euro al mese: un abbonamento in palestra. Si può pensare di pagarci una università di qualità, con una cifra del genere?
Sia pure fremente e furente nelle sue idee, cara Serena, ma non perda di lucidità: non l’aiuta.
@Roberto Grace
Mi sembra che lei, come Lorenzo Marchese sopra, confonda i contenuti dei corsi con i metodi di valutazione, e che, soprattutto, non conosca bene cosa consistano le valutazioni a cui mi riferisco. Colpa mia, dovrei essermi spiegata meglio. Ma andiamo per passi:
a) Innanzitutto, il fatto che in una lingua non esista una parola o un’espressione non significa che i parlanti di quella lingua non abbiano quel concetto, quindi la necessità o meno di inventare un neologismo non vuol dire assolutamente nulla. Mi sembra che con questa retorica sui ‘neologismi’ e l’abbondanza di parole “napoleoniche” nell’italiano stia semplicemente tradendo un certo snobismo verso la cultura anglosassone, che mi sembra innecesario dato che da nessuna parte mi sembra di aver suggerito una gara a chi è mejo. Personalmente credo che il sistema migliore sia il metodo anglosassone con una maggiore attenzione all’erudizione, sulla quale ha sicuramente da imparare dai modelli napoleonici. E comunque le espressioni che lei crede siano uniche dell’italiano, e che richiedano neologismi, esistono eccome: historical consciousness and synthesis (sostantivo che può essere modificato con qualsiasi aggettivo, tra cui systematic).
Secondo, non ho capito che cosa c’entra tutta il confrontarsi con epoche e discipline diverse, che è una questione di contenuti del corso o della laurea (e con cui concordo) con il modo in cui si esaminano gli studenti. Le assicuro che se va a guardare un qualsiasi corso di laurea britannico e, soprattutto americano, dove agli studenti è richiesto di frequentare un ventaglio di materie nel primo anno, troverà contenuti molto simili a quelli italiani. Mi domando sinceramente cosa crede che si studi nelle università anglosassoni!
b) Le sue affermazioni su questo punto dimostrano che non sa in cosa consistano i saggi delle università anglosassoni. Sono precisamente della “discussione di un tema che può essere interpretato o quanto meno affrontato in modi diversi”. Allo studente viene posta una (o più) domande su un aspetto di quanto studiato durante il corso, e lo studente deve 1) capire cosa chiede esattamente la domanda. 2) andare in biblioteca e leggere quanto sia strato scritto sugli argomenti a cui la domanda fa riferimento 3) decidere, in maniera autonoma e in base a quanto letto (ossia non rivomitando quanto spiegato dal professore del corso o dai nomi famosi della disciplina) una risposta alla domanda 4) decidere come meglio presentare i fatti che appoggiano questa risposta 5) presentare possibili risposte alternative e spiegare perché queste risposte non siano altrettanto valide. Non crede che questo non significhi “avere una posizione critica nei confronti del mondo etc.”? Lo studente spesso discute con il professore le proprie idee prima di consegnare il saggio, e può discuterle di nuovo quando il saggio gli/le viene restituito con commenti e una valutazione. Io non vedo nessun onanismo. Tra l’atro, scusi, ma come crede che si trasmettano le idee nel mondo accademico? E’ vero, ci sono i congressi, ma la maggior parte delle discussioni avvengono per iscritto su libri e riviste, dove gli studiosi, con “calma” come dicevo prima, leggono le opinioni degli altri, controllano la bibliografia e le fonti, valutano la rilevanza delle informazioni presentate, e poi, se non sono d’accordo, pubblicano un altro articolo.
Inoltre, come ho risposto a Lorenzo Marchese prima, la possibilità di discussione orale con il professore e con gli altri studenti avviene durante tutta la durata del corso, nel quale gli studenti preparano presentazioni e discutono articoli (ritorno su questo punto nella riposta a Marchese)
@Lorenzo Marchese
Be’, la corruzione e’ meno facile se gli esami e i saggi sono corretti anonimamente, le valutazioni confermate da un secondo professore del dipartimento, e poi valutate di nuovo da un professore esterno alla fine dell’anno, che è quello cha accade in Gran Bretagna (in altri paesi non so). Se fai passare uno con un esame pessimo perché è il figlio di un tuo amico, la gente se ne accorge.
Perché dovrebbero essere fatte le stesse domande a tutti? Per garantire che tutti siano valutati allo stesso modo, e per garantire che, quando ti bocciano non puoi andare in giro a lamentarti che ti hanno fatto domande più difficili, o che ti hanno deliberatamente messo in difficoltà. Si tratta anche di una garanzia per i professori, e toglie la possibilità ai mediocri di non nascondersi dietro il “qui sono tutti raccomandati”.
Sulla sua domanda sulle presentazioni. Cosí è come si svolge un corso in una laurea equivalente ai 3 anni italiani. Mettiamo che il corso è sulla guerra civile spagnola. Il corso è di 2 o 3 ore settimanali, delle quali una e’ una “lecture”, ossia una lezione frontale in cui parla solo il professore, e l’altra o altre sono seminari. In questi seminari o si discute un articolo (o 2) sull’argomento affrontato a lezione, o gli studenti preparano presentazioni, da soli o in gruppo. Una presentazione può essere del tipo “I combattimenti a Barcellona tra i membri del Frente Popular”. Lo studente la prepara in biblioteca, la presenta e poi si discute insieme.
Nel primo anno tendono ad esserci meno presentazioni, e i seminari tendono ad essere con studenti dottorandi, e in generale il titolare del corso da domande da discutere o esercizi da fare, a seconda della disciplina. Diversi dipartimenti decidono se valutare ufficialmente le presentazioni o meno. Durante o alla fine del corso gli studenti scrivono un saggio e, spesso, sempre alla fine del corso, fanno anche un esame scritto a busta chiusa. Un esempio di un titolo di un saggio può essere “Qual’e’ stato il peso delle divisioni all’interno del frente popular sull’esito della guerra?”. Dal secondo anno in poi, agli studenti viene spesso chiesto di decidere loro su che cosa vogliono scrivere il saggio (all’interno del soggetto del corso e con approvazione del professore).
Un dato interessante: nel mio campo, la linguistica, non e’ per nulla inusuale che i professori, nei loro articoli, citino il lavoro fatto dai loro studenti in questi saggi, il che dimostra il livello di originalità e di qualità a cui possono arrivare degli studenti a cui si insegni, come dicevo, a “formarsi la propria opinione”.
@Francesco
Purtroppo di questi tempi ho come l’impressione che il cinismo sia veramente tanto diffuso. E se non è cinismo è qualcosa che gli si avvicina, una sorta di freddezza emotiva che mi dà veramente fastidio. Questo non è perdere la lucidità, è provare a non perdere una parte della nostra umanità, il che è molto differente. Mi chiedo: finchè ai “figli di borgata” non verrà data un’istruzione di base decente, quali scenari futuri prevedere per loro? Io, con le prove che vedo se metto il naso fuori casa, quelli che ho già descritto. E allora nel frattempo cosa fanno, le persone che non hanno avuto la possibilità di viaggiare eccetera eccetera, perchè non sono figli di benestanti? Una vita senza senso (perché sì, secondo me una vita senza studio è alienante)? Immagino che poi questi figli di benestanti diventeranno i nuovi potenti, e allora ovviamente ci sarà un piccolo problemino, ossia che loro avranno in mano il Potere, e gli altri no. E non crede che andando avanti di questo passo e con questa logica, le cose non cambieranno mai? Quelli bravi non possono essere di qualsiasi provenienza sociale, perchè se non hai le possibilità non diventi bravo, e le possibilità te le può dare solo uno Stato che capisce che uno che diventa bravo nel quartiere di Tor Bella Monaca di Roma, per esempio, è diverso da uno bravo del quartiere Prati, sempre a Roma. Ma il sistema non funziona così, per cui io mi fermo qui, a questo, al concetto di meritocrazia completamente sballato. Per me, il resto sono tutte conseguenze di questo.
Comunque sì, penso che 900 euro siano abbastanza soldi per mandare avanti l’università, visto che siamo in così tanti, a Lettere. E visto che poi alla fine questi soldi non vengono utilizzati se non, nella mia università, per esempio, per pulire la fontana al centro del piazzale, tanto per dire.
Allora Serena
La sua risposta mi permette di ragionare con alcuni luoghi comuni su cui sarebbe meglio riflettere un attimo.
Cominciamo da qui: “*una vita senza studio è alienante*”. Sono d’accordo, che diamine. Ma lo studio non è detto debba essere quello istituzionalizzato delle università. Se una persona vuole leggere, incuriosirsi, farsi domande e trovare risposte, può farlo con le biblioteche (ahimé neglette), con internet, con le università della terza età, ecc. ecc.
L’Università non esiste per l’elevazione dello spirito (non ci sono ministeri per quella), ma per fornire competenze specifiche, insegnare mestieri di alto livello, produrre classe dirigente (tutto questo implica anche lo spirito, siamo d’accordo). Non serve invece, ed è questo il fraintendimento, a far sì che io e lei apprezziamo di più Ariosto o Manzoni. Per questo ci deve essere la scuola, che ci dovrebbe obbligatoriamente accompagnare fino ai 18 anni (e non è così, e non sembra importare a nessuno).
“*Cosa fanno, le persone che non hanno avuto la possibilità di viaggiare […]?*”. Ecco: bisogna leggere piano. Ho forse detto io “se ciai i soldi bene, sennò cavoli tuoi”? Non direi. Anzi, ho detto tutto il contrario: se ci sono risorse da destinare, esse vanno ai meritevoli. Preciso: ai meritevoli che non possono farcela da sé, perché il geniale figlio di un industriale, tutto sommato, può comunque pagarsela l’istruzione. Quindi, semplificando: io sarei per far pagare allo Stato i viaggi dei meritevoli bisognosi. Quindi perde di senso l’osservazione successiva “*Immagino che poi questi figli di benestanti diventeranno i nuovi potenti*”.
“*uno che diventa bravo nel quartiere di Tor Bella Monaca di Roma, per esempio, è diverso da uno bravo del quartiere Prati*”. Qua è bene riflettere bene: è una colpa nascere nel quartiere Prati? A me interessa invece che tanto mr. Prati quanto mr. Tor Bella Monaca diventino classe dirigente.
“*il sistema non funziona così*”. Essì: però il sistema attuale è proprio quello per cui si paga poco o niente e si riceve anche meno, ma si ammette tutto e tutti (oddio, almeno adesso il numero chiuso è passato). Le sembra che i figli di borgata se ne stiano avvantaggiando.
Se non lo sa, glielo dico io: no, l’Italia allo stato è classista e la promozione sociale inesistente.
Se lei pensa che prendendosela con me e quelli che la pensano come me le cose andranno meglio, buona fortuna.
@manuela
dunque, di preciso, lei proporrebbe un’università a carattere seminariale, senza domande sulle nozioni, senza controllo su una preparazione globale o di base? perché questi lavori a carattere seminariale che lei descrive, e che reputo utilissimi per la formazione dello studente, mi paiono avere un difetto nel manico: permettono allo studente di formarsi un’opinione, ma al contempo di limitare le sue conoscenze strettamente ai suoi interessi, o a un campo limitato. quanto meno, questo mi pare il rischio…
inoltre:
Se fai passare uno con un esame pessimo perché è il figlio di un tuo amico, la gente se ne accorge.
la stessa cosa non può avvenire con un esame orale, portandosi un testimone o un registratore?
sulla questione del porre le stesse domande a tutti, la vediamo in maniera opposta, temo. dobbiamo gestire la didattica e il meccanismo di valutazione in base a quello che pensano mediocri e piagnucolosi? da come ha posto lei i termini della faccenda, a uno sguardo superficiale potrebbe parere così=)
@Francesco
Mi dispiace che lei pensa che ce l’ho con lei. Non è così, è che non condivido quello che dice.
Lei pone delle questioni esistenziali, a mio avviso, quando dice: “L’Università non esiste per l’elevazione dello spirito (non ci sono ministeri per quella), ma per fornire competenze specifiche, insegnare mestieri di alto livello, produrre classe dirigente (tutto questo implica anche lo spirito, siamo d’accordo). Non serve invece, ed è questo il fraintendimento, a far sì che io e lei apprezziamo di più Ariosto o Manzoni. Per questo ci deve essere la scuola, che ci dovrebbe obbligatoriamente accompagnare fino ai 18 anni (e non è così, e non sembra importare a nessuno).”
Io, se devo combattere, lo faccio perché l’Università e il Sapere non siano più asserviti alle varie logiche aziendali e capitalistiche, su questo non mi smuove niente. Volendo, l’Università, dovrebbe anche servire a nutrire lo spirito e basta. Anzi, io lo auspicherei. Sono un po’ idealista, non lo nego.
“è una colpa nascere nel quartiere Prati? A me interessa invece che tanto mr. Prati quanto mr. Tor Bella Monaca diventino classe dirigente.” quindi lei vuole mantenere uno stato con delle discriminazioni tra chi comanda e chi lavora? io no, non ho il minimo interesse a mantenere una classe dirigente. Comunque, lei non considera l’ambiente circostante e una marea di altri fattori. E’ più facile diventare bravi a Prati, che a Tor bella monaca, è questo che volevo dire, è innegabile. E anche perchè i dati lo dicono. Ma faccio un esempio per far capire il non-sense della cosa, così mi spiego meglio: a mr Prati do l’aiuto se ha la media del nove. A mr Tor Bella Monaca, glielo do se ha l’otto perchè oggettivamente la situazione in cui ha studiato ed ha vissuto è più difficile. Però effettivamente è un po’ poco democratico, a occhio, come ragionamento. E non se ne esce, da questo discorso paradossale, questo perché la meritocrazia si basa su un principio troppo vago, che alla fine inevitabilmente fallisce, e quindi l’unica regola a dominare è quella che chi ha gli aiuti dalla famiglia etc etc allora va avanti, chi non li ha, arrivederci e grazie. Non è un problema di mancata meritocrazia, il problema _è_ la meritocrazia, e il crederci ancora, e spero di averlo dimostrato adeguatamente.
“il sistema attuale è proprio quello per cui si paga poco o niente e si riceve anche meno, ma si ammette tutto e tutti (oddio, almeno adesso il numero chiuso è passato). Le sembra che i figli di borgata se ne stiano avvantaggiando.”, le ripeto l’università costa tanto. Se si facesse come dice lei, cioè di aumentare le tasse, io non so chi potrebbe più studiare. Per ora, i pochi ricchi. No, non penso che i “figli di borgata” ne stiano avvantaggiando, perchè si impecoroniscono ancora di più, ma penso anche che per ora non hanno molta altra scelta, è meglio rispetto a tante altre scelte.
Io penso che uno dei grandi problemi non considerati in generale è che i professori non vivono il presente, e già l’ho scritto. Insegnano le loro bellissime tragedie greche come se fossimo nel 1952, senza guardare negli occhi chi hanno davanti. Fanno leggere le loro bellissime considerazioni e pubblicazioni senza chiedere l’opinione di nessuno, lezione finita, modulo concluso, ci vediamo all’esame, promosso, laureato, ciao. Se invece si fermassero a guardare chi sono i loro studenti, nella maggioranza dei casi dei gran poveracci, allora forse le cose cambierebbero nella pratica. Le lezioni sarebbero diverse, più coinvolgenti, forse si metterebbero in discussione i piani di studio, ora praticamente obbligati, che formano dei greggi di studenti non pensanti. Mi viene quasi da dire che gli va bene così, ai professori, al rettore, a tutti. Anzi, che le cose devono restare così. Ma infondo poi ci rifletto e penso: visto che l’università è luogo di privilegi e poteri, allora che restino così le cose, che le tasse aumentino, che la gente non riesca più a mangiare per mandare i figli all’università, se serve a scatenare una vera rivoluzione, e non del riformismo basato su un concetto di meritocrazia che non funziona, ahimè – ahimè veramente.
@Lorenzo Marchese
Mi scusi se divento un po’ scurrile, ma mi sembra veramente di parlare con i muri. Mi chiede:
“dunque, di preciso, lei proporrebbe un’università a carattere seminariale, senza domande sulle nozioni, senza controllo su una preparazione globale o di base?”
Mi puo’ spiegare dove ho detto che non voglio domande sulle nozioni? O dove dico che non voglio controllo su una preparazione globale o di base?
Ho scritto che qui in Gran Bretagna per molti corsi si chiede, oltre al saggio, un esame scritto a busta chiusa che fa precisamente domande sulle nozioni. E comunque scusi, ma uno che ha passato 3 settimane in biblioteca a scrivere un saggio non impara nozioni? O secondo lei imparare nozioni è solo saperle ripetere a macchinetta davanti al professore?
Sui seminari: In che modo 1 o 2 ore settimanali di seminari (in aggiunta, come ho precisato, alla lezione frontale) fanno si che lo studente si concentri solo sui propri interessi? Lo studente prepara si una presentazione e un saggio su una domanda sola, ma nel corso delle 10 settimane di corso discute le domande sulle quali altri studenti hanno presentato, e/o sui temi affrontati dagli articoli. Questo significa che lo studente presenterà solo su un argomento X, ma avrà passato 10 settimane ad ascoltare le presentazioni degli altri studenti.
Ma poi scusate, mi pare di capire che in Italia e’ abbastanza normale fare un corso in cui all’esame la gente si prepara solo su uno o due libri, o addirittura solo sugli appunti della lezione. E questa sarebbe erudizione? Ma per favore.
Comunque ripeto, il sistema britannico non e’ perfetto. Personalmente credo che si potrebbero chiedere piu’ ore di lezione e piu’ corsi, e che il rischio di troppa specializzazione esiste. Ricordo inoltre che altri sistemi di impostazione napoleonica, come quello spagnolo, non usano gli esami orali.
Mi puo’ spiegare dove ho detto che non voglio domande sulle nozioni? O dove dico che non voglio controllo su una preparazione globale o di base?
non l’ha detto, infatti. non ha detto nulla a riguardo, per quello chiedevo quale, di preciso, fosse la sua idea. così come non aveva specificato (limitandosi a fornire un esempio di traccia) che l’esame “a busta chiusa” vertesse sulle nozioni.
anche perché, intendiamoci, ci sono vari tipi di nozioni. quelle di cui parlo io dovrebbero essere nozioni condivise, l’abc della disciplina di studi che si affronta, per intenderci, non “nozioni in generale”. ma se, come lei specifica, ai seminari andassero associati corsi frontali, sarei assolutamente d’accordo; non avevo capito che lei parlasse di questa formula che coniuga ambedue.
Ma poi scusate, mi pare di capire che in Italia e’ abbastanza normale fare un corso in cui all’esame la gente si prepara solo su uno o due libri, o addirittura solo sugli appunti della lezione. E questa sarebbe erudizione? Ma per favore.
la preparazione su uno o due libri, sinceramente, non l’ho mai sentita, tranne, paradossalmente, in due corsi di linguistica (università di pavia) che ho fatto nel corso del triennio. preparare un esame sugli appunti forniti da un prof può invece essere costruttivo, visto che gli appunti sono spesso e volentieri integrabili con testi citati dal docente a lezione. d’altronde, non riesco a figurarmi uno scenario in cui un professore bacchetta un esaminando perché oltre che sugli appunti si è preparato anche su altro.
e per la scurrilità, non si preoccupi. non è affatto scurrile=) mi fa anzi piacere che entrambi riflettiamo su un rischio di troppa specializzazione, che è concreto anche in italia.
@serena,
ha provato a fare un confronto, riguardo i costi dell’università, con gli altri paesi? perché, in assoluto, l’università italiana non costa molto. anzi.
@Manuela:
Rispondo nel merito delle cose che scrive a me e a Marchese.
Mi scusi ancora una volta: lo decide lei che cosa è necessario e che cosa non lo è?
Il mio non era certo snobismo, non mi sminuisca: era disprezzo! Non nei suoi confronti, sia chiaro, ma nei confronti della cosiddetta cultura di due popoli (britannico e americano) che si sono macchiati e si macchiano di alcuni fra i crimini più terribili della storia dell’umanità (roba da far arrossire di vergogna Hitler e Stalin), e che erigono il genocidio a sistema e da secoli lo esportano. Questo lo dico perché non passi per subdolo sarcasmo quello che è il mio più aperto disprezzo.
Sui neologismi: guardi che un po’ di linguistica e un po’ di inglese, anche se in un sistema scolastico napoleonico, li ho studiati pure io. Ripeto: non mi sminuisca!
Forse sbaglio totalmente, ma che ci vuole fare, sono italiano: non ho bisogno di aver ragione per aver ragione.
Entro nel particolare della questione. Quando parlavo del confrontarsi con discipline ed epoche diverse, rispondevo a questa sua affermazione: “Io penso che il compito primario dell’università e’ proprio quello di fornire agli studenti la capacità di formare opinioni e di saperle difendere in modo logico e rigoroso.” E volevo dire che compito primario dell’università è anche quello di dotare gli studenti di coscienza storica.
Per quanto mi riguarda, è francamente imbarazzante pretendere di tenere un corso sulla guerra civile spagnola, senza aver prima (o contemporaneamente) fornito solide basi di storia occidentale dai Sumeri al 1936. Tenuto conto che le vostre High school non lo fanno, non vedo cosa debba capire il povero studente di quel corso se nemmeno ha una vaga idea degli ultimi quattro secoli di storia spagnola. Quello che contesto a questo metodo è, a fronte di una buona capacità di fornire le basi di problem solving in una data disciplina, l’assoluta assenza di un confronto con la disciplina nella sua totalità: mi spiega come si fa ad avere anche solo un’idea meno che vaga dell’ideologia fascista se non si conoscono le nozioni di base del diritto e delle istituzioni romane? Come si studia Shakespeare senza conoscere Seneca? Come facciamo a capire se il metodo che usiamo è corretto, quando lo applichiamo soltanto a un argomento (pur nelle sue differenti sfaccettature)? Secondo me, addirittura, chi non ha mai studiato l’età di Pericle non solo non può essere un buono storico, ma forse neanche un buon cittadino. (Ha presente la differenza tra storia evenemenziale e fattori di lunga durata?)
Su scritto/orale il punto è questo: io credo che il fatto che il confronto di idee a livello accademico avvenga prevalentemente per via scritta non vada necessariamente considerato positivo solo perché è inevitabile. Penso che una domanda fattami prontamente tra un nesso e l’altro del mio ragionamento possa spesso darmi molto di più di un trattato di ottomila pagine sullo stesso argomento. Penso che l’esame orale debba essere l’ultimo e decisivo, e per questa ragione: che un serrato botta e risposta orale su un qualsiasi argomento è un confronto alla pari col professore, in cui è la discussione a decidere chi ha ragione, e anche il voto che ti meriti; che invece se col professore ci discuti soltanto dopo che ti ha dato il voto, non potrai più convincerlo che avresti meritato di più; che se ci discuti prima di avere scritto non è lo stesso, perché è solo nello scritto che riesci a farti un’idea chiara del tema che affronti (ma non, ed è questo il punto, ad esporla con la stessa chiarezza e verificabilità). (Ha presente le critiche di Platone alla forma scritta?)
E non per forza dovrà decidersi chi ha ragione tra il docente e lo studente: semplicemente in uno scambio orale il docente ha molte più possibilità di capire le esigenze che portano lo studente ad adottare un determinato punto di vista. Le domande DEVONO essere diverse, perché si devono adattare all’interlocutore e allo sviluppo della discussione.
Roberto Gerace for President! Lo vogliamo subito come ministro dell’educazione!
@Rudi Dutschke:
La ringrazio per la fiducia, ma non so se l’Europa sarebbe d’accordo. E se non è d’accordo l’Europa…
@Serena. Sono perfettamente d’accordo con l’intervento di Serena. La scuola a due velocità che si sta prefigurando, una fatta di test e di cultura solo mediale, l’altra formativa, completa, meritocratica. Non credo nella meritocrazia in una società di diseguali, in cui alcuni partono tra pannucci caldi e ambiente colto in casa, mentre altri fanno sforzi e studi disperati per divenire ‘precari’.Dopo aver messo tutti nelle stesse condizioni antropologiche e formative (senza clientelismi) ,allora si può accedere gratis all’Università, ai master etc.
Un giorno, un’insegnante delle scuole medie mi mandò a chiamare perchè mio figlio era distratto, assente,preso da una sua vaghezza visionaria. Mi disse:’Lho chiamata perchè lei è docente universitaria,scrive libri, e suo figlio dovrà continuare a studiare. Gli altri che non non seguono non li curo proprio’. Le risposi male e me ne andai disgustata. Poi scoprii che mio figlio era innamorato, che era appassionato di arte e musica. Già a 10 anni aveva imparato a suonare Mozart da solo. Non mi preoccupai più di tanto e gli feci un semplice discorsetto.
Lentamente, molto lentamente migliorò e divenne architetto.Non ho mai dimenticato quella signora middle class,che discriminava tra gli alunni,il cui destino ,forse,aveva già deciso.Così si forma la classe dirigente a scuola. In base allo status sociale. Vi ricordo Don Milani, la grande riforma della scuola media del 63, e la riforma Brocca, che non è mai stata approvata perchè era una specie di Gesamtschule. Lasciamo perdere. Una volta c’erano le 150 ore per i lavoratori. In alcune scuole si faceva teatro e musica,nellecosiddette scuole-pilota.
Le grandi riforme progressive ,anche la legge Basaglia, e quelle sull’aborto e divorzio sono state fatte tra gli anni 60-80. Bisognerebbe studiare un po’ meglio la storia Non c’entra l’età, è la storia che va conosciuta e diffusa con competenza.Quella che oggi ognuno scrive a modo proprio, secondo ideologie liberali, neoliberiste e pericolosi riflussi.