[Dal 22 luglio al 2 settembre 2012 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione normale riprenderà il 3 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo alcuni video di trasmissioni televisive dedicate ad argomenti culturali (il lunedì e il giovedì), una selezione di poesie italiane del Novecento (il martedì e il venerdì) e una playlist di canzoni estive (il mercoledì e il sabato). In certi giorni pubblicheremo degli interventi a sorpresa. L’immagine di copertina non verrà cambiata].
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
…………………………..Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
……………Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
……………Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
(da Pianissimo, 1914).
Ogni volta che leggo Sbarbaro penso alle pagine che Agamben dedica alla crisi del testo poetico quando esso volge al termine con il suo ultimo verso, o con il suo unico “non-verso”. “Sbarbaro non sa come finire le poese” mi dicevo un tempo, e solo adesso mi accorgo di quanta grazia ci sia nella fine che si finge ignara della fine. Eppure, la fine di ogni strofa è alimentata da una tensione fortissima che spinge chi legge a pensare emotivamente – ecco, questa è la fine -, per poi riprendere in mano il ritmo visrtuosisticamente e condurlo oltre se stesso. Credo che leggere Sbarbaro meditando sui suoi finali sia un’ottima lezione per chi scrive poesia e intende riflettere sulle forme del ritmo, sul legame tra i versi e sul senso della conclusione del testo in un’epoca dove non c’è alcun canone capace di sorreggere il vuoto tra il dentro- e il fuori-testo. Cosa impone alla scrittura il punto finale? E di quali risonanze può essere capace il silenzio che segue, a misura dell’orizzonte ritmico che lo precede?
Io penso che il punto finale s’imponga da solo, quando il momento del pensiero poetico raggiunge una compiutezza, un punto di non ritorno. Questo nel solco della poesia novecentesca come quella di Sbarbaro, ma credo che oggi sia applicabile al 90% della poesia prodotta (escludo sperimentalismi vari).
Questa di Sbarbaro è una delle poesie più belle e memorabili del nostro primo novecento, secondo me. E i suoi anni non si sentono quasi.
Sono d’accordo con Davide Castiglione. Questa è una delle poesie più belle e memorabili del Novecento italiano, e il finale è incredibile per la sua naturalezza.
Io sto conoscendo Sbarbaro a poco a poco e mi entusiasma sempre di più…a tal punto che ora vi ho dedicato anche la mia tesi di laurea!!! :-) …ma voi riuscireste a dirmi da dove è tratta questa bellissima frase a lui attribuita???
“poche cose sono amabili come il ricordo di un padre, poche cose meritano fama come il non dimenticarlo per non scordare mai chi si è”
GRAZIE MILLE!!!
Laura