di Walter Siti

Tra le molte cose che simbolicamente sono crollate con le Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, c’è senza dubbio il post-moderno. Il clima in cui il post-moderno era nato presupponeva una Storia immobile o ricorsiva (lo “sciopero degli eventi” di cui tanto si parlava), una cultura omologata e fusion a dominante occidentale, uno snobismo ironico ed estenuato per eccesso di vittoria, la sensazione che la realtà si fosse definitivamente suicidata a favore del virtuale. A questi elementi il crollo delle Torri contrapponeva l’Evento assoluto: “l’avvenimento puro” (come scrisse in quei mesi Baudrillard) “che concentra in sé tutti gli avvenimenti mai accaduti”. Il complicato e ludico equilibrio degli immaginari si era rotto perché qualcuno aveva fatto qualcosa (il gesto di Bin Laden che con la mano mimava il planare di un aereo, negli occhi ancora la meraviglia che l’azione avesse superato il progetto).

Per come veniva presentato, e per come noi stessi lo si percepiva, quell’evento che superava il post-moderno era però l’estrema propaggine del post-moderno stesso: per la sua immediata plasticità nel trasformarsi in icona, diventando la proiezione dei nostri sensi di colpa; con tutta la fascinazione di una scena originaria e apocalittica, la castrazione della nostra onnipotenza. L’America implodeva dentro Hollywood; la caduta dell’impero stava davvero cominciando da lì ma non per la forza dei terroristi, bensì per la paura che l’America aveva dei terroristi (di quei pazzi che in un mondo a zero-morte ributtavano sul piatto la possibilità di morire per un’idea), con conseguenti oniriche guerre che le avrebbero svuotato il portafoglio. L’immaginario mostrava tutta la sua forza proprio mentre il reale avanzava alla riscossa, perché anche il reale è un patto fittizio che nasconde altra realtà sempre sottostante.

Dall’11 settembre, e dalla prodigiosa accelerazione che ne è seguita, hanno ripreso vigore le estetiche letterarie del realismo: basta coi giochetti formali e le infinite riscritture citazioniste, se la Storia batte un colpo bisogna ascoltarla – compito dello scrittore è farsi cronista puntiglioso della verità dei fatti (che sono sempre più interessanti dei nostri piccoli orti privati), mettendosi al servizio del cambiamento. La primavera araba ha fatto invecchiare di colpo il terrorismo, le Torri hanno finalmente smesso di crollare in piazza Tahrir. All’immobilismo post-moderno sembra essersi sostituita la prospettiva di un Nuovo Orizzonte, che però rischia di essere altrettanto ingannevole. Proprio l’11 settembre dovrebbe insegnarci l’umiltà, essendosi dimostrato così ostico e impenetrabile alla rappresentazione; tra gli undici episodi del film di Alain Brigand, nessuno racconta che cosa è accaduto quel giorno dentro le Torri Gemelle, e gli episodi più belli sono quelli più laterali; perfino un maestro di tecnica come De Lillo ha scritto le sue pagine più deboli proprio cercando di raccontare il fatto, e l’immagine del suo libro che più si ricorda è quella di un performer che stilizza la caduta. Realtà e letteratura non possono avere lo stesso perimetro: dove la realtà è abbagliante la letteratura non vede niente, la letteratura ritrova voce dove la realtà è oscura e ambigua. Il realismo è un inganno per far credere vero ciò che non esiste; se può trovare spazio nel Nuovo Orizzonte è solo giocando a rimpiattino con gli specchietti dell’informazione, svelando a sorpresa risvolti della realtà che la realtà non sa di avere.

[Pubblicato su «La Stampa», 11.09.2011]

7 thoughts on “L’inganno del realismo

  1. Quando mai la realtà è abbagliante? Quando mai la letteratura ritrova voce dove la realtà è oscura e ambigua?
    Ho letto di recente un saggio di Raffaele Donnarumma dedicato al «terrorismo nella narrativa italiana».(1) Il saggio mi è parso ottimo, proprio perché, occupandosi rigorosamente soltanto d’immaginario letterario (e dichiaratamente soltanto di quello narrativo) e distinguendolo correttamente dalla verità storica (i due piani, dice, «sono sempre sfalsati»), ha esaminato diversi casi di scrittori di punta (2) e dimostrato quanto gli eventi ( la “realtà” del cosiddetto “terrorismo”) furono vissuti mitologicamente (3) e in preda ad una «angoscia di spossessamento di fronte agli avvenimenti».
    Se, per usare ora i termini di Siti, la realtà si presentava «oscura e ambigua», non pare, almeno dagli esempi fatti da Donnarumma, che la letteratura sapesse ritrovare la sua «voce». L’analisi di Donnarumma prova che «il terrorismo ha prodotto una serie di discorsi letterari che, mentre lo dicevano, insieme lo nascondevano (p. 443) e ricorda che «fare una storia dell’immaginario [degli anni Settanta] significa spesso fare la storia di come ci proteggiamo dalla storia e di come cerchiamo di allontanarla».
    Mi chiederei perciò: dato che di ideologia c’è n’è sempre sia nel postmoderno sia nel realismo, dove ce n’è di meno?
    Il «realismo è un inganno» ma forse meno del postmodernismo, proprio perché non rinuncia a rovistare nella “realtà”, non si appaga, disincantato, della sua cancellazione.
    Dietro la parola ‘realismo’ fa poi capolino la parola ‘scienza’. Siti – mi chiedo io – insinua forse che è inganno anche la scienza? C’è in essa la volontà di autosufficienza che forse c’è nel postmodernismo? La scienza può sbagliare, può essere solo approssimazione alla “realtà”, illudersi o pretendere in certi casi di averla afferrata definitivamente, ma ha in sé un principio correttivo: altre scoperte correggeranno o falsificheranno quella rappresentazione della realtà che è stata raggiunta. Non c’è ( almeno negli scienziati più avvertiti) la tronfiezza di chi ha dichiarato che la storia è finita, che tutto è letteratura, linguaggio e stop.

    (1) Raffaele Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana (1969- 2010) in Per Romano Luperini a cura di Pietro Cataldi, p. 437, Palumbo, Palermo 2010

    (2) Accenna a Il nome della rosa, che per Donnarumma «presuppone lo shock dell’omicidio di Moro senza poterlo nominare» (p. 447) e nel quale Eco esprime il turbamento nel riconoscere l’aria di famiglia tra terrorismo e tradizione marxista; a Petrolio di Pasolini, che non parla tanto «di un terrorismo rosso di cui incrocia, durante la stesura, le primissime manifestazioni, ma di terrorismo nero» e nel quale la violenza politica marxista è rimossa(p. 449), come pure viene rimosso lo scandalo di un proletariato partecipe o vicino alla lotta armata; a Calvino, che «non racconta di nessun terrorismo né rosso né nero; e quando si avvicinerà al tema, come nelle avventure della guerrigliera di Ludmilla in Se una notte d’inverno un viaggiatore, adotterà modi allusivi, parodici e derealizzanti» (p. 451); a «tutte le storie imbastite da Malerba sul Potere come crimine, dal Pataffio a Fuoco greco alle Maschere», che Donnarumma giudica «allegorie della strategia della tensione» (p. 452); a Il Contesto di Sciascia, dove lo scrittore «disconosce del tutto le origini sociali e politiche del terrorismo rosso, di cui nega conseguentemente il peso reale non l’esistenza (siamo, del resto, nel 1971)» (p. 454).

    (3) «quel decennio sta […] sotto un mito di distruzione», p.439.

  2. lascio qui alcune domande e considerazioni, stimolate dall’articolo di Siti e dall’intervento di Abate. Con stima e augurando il miglior cammino possibile a “Le parole e le cose”.

    *

    chi *fa* la realtà cui un sedicente realismo pretende farsi specchio e cronaca e rappresentazione? quanto la teoria e l’ideologia del sedicente realista influiscono sul modo suo di osservare e su ciò che sceglie o crede di essere tenuto ad osservare? ed un tale realismo è poi in grado – in un mondo in buona parte già adattato e conciato, e da mezzo secolo, alla sua propria “trasmissione” (quel meccanismo che fa sì che la riproduzione, a lungo andare, divenga modello dello stesso “reale”?) – di fornire opere che non siano soltanto pretesti ad uso immediato di lettori plasmati dallo stesso meccanismo, o ad uso delle scuole critiche più potenti del momento, nutrite (mettiamo) da una medesima ideologia e dei medesimi pregiudizi?

    *

    ma più a monte:

    “La poesia – ha scritto Giuliano Mesa, e credo il suo discorso sia perfettamente valido per qualunque scrittura letteraria responsabile – la poesia partecipa all’autocomprensione dell’uomo. L’autotelìa non è mai tale, nemmeno quando vuole programmaticamente esserlo. Nell’autotelìa, se il fine dell’arte è l’arte, la tecnica ne sarebbe il mezzo. Nell’eterotelìa, se il fine dell’arte è la conoscenza, il mezzo coincide con il fine, poiché la conoscenza dell’arte non è traducibile, parafrasabile; è interrogativa e non assertiva; origina dalla necessità di conoscenza e di espressione; se scindesse forma e contenuto, materia e sostanza, anziché conoscere-interrogare, estetizzerebbe un sapere preesistente, asserendolo; non può esservi separazione forma-contenuto se non venendo meno all’eterotelìa conoscitiva; tale separazione è invece coerente con l’autotelìa, se il fine è l’arte “in sé”, dunque la sua “bellezza” separata dalla sua “verità”. ”
    [G. Mesa, “Biografie perdute (note vaganti per Marzio Pieri)”, Roma, La camera verde 2011]

    tra scissione di forma e contenuto ed estetizzazione assertiva di saperi – e “realtà” – precedenti, affogano gran parte (non tutti) i testi riconducibili ai vari realismi così come quelli (non tutti) rubricabili come postmoderni. non saranno, come credo non sono state nemmeno in passato, le sole due vie possibili.

    un caro saluto,

    f.t.

  3. @ Fabio Teti

    Umilmente ( malgrado la mia età, sono del 1941) e senza voler provocare le chiedo di tradurmi in parole più semplici (e possibilmente con qualche esempio) sia il senso della citazione di Mesa sia il suo pensiero sul realismo.

  4. caro Abate,

    neppure le mie erano provocazioni; domande, non retoriche, sul realismo, più che un *pensiero* vero e proprio. se dovessi tradurle positivamente, assertivamente (facendo con questo un torto al loro esplicito “non so”, e per un attimo tralasciando il fatto che ciò varrebbe comunque per un tempo preciso e per uno spazio geografico individuato), direi allora che, di fronte a un’ontologia (ormai) economica, una – scriveva Günther Anders – dottrina dell’essere quale appare dal punto di vista della produzione e dello smercio, e il cui assioma potrebbe così sintetizzarsi: la realtà viene prodotta dalla sua riproduzione, che diventa per l’appunto tutta la realtà; davanti a ciò, io credo, qualsiasi istanza semplicemente rappresentativa, qualsiasi intenzione di “realismo” viene a cadere nella trappola del pretesto, nella scissione estetizzante dell’autotelìa, e nell’assenza (dunque) di conseguenze.
    la letteratura (ma parlo avendo in mente innanzitutto la poesia) ha allora forse più a che fare con l’approssimazione alla “verità”, che con la messa in forma del già-dato. con la conoscenza e l’interrogazione, l’espressione esplorativa, e dunque l’etica: mezzo e fine congiunti in un solo movimento, consequenziale ma non pedissequo rispetto al mondo che tale movimento contiene.

    se ho citato il passaggio di Mesa, è perché considero la sua opera, in Italia, tra i più validi esempi di una scrittura siffatta. dovessi fare esempi più celebri, potrei dire Beckett, Rosselli, Celan, il primo Antonio Porta.

    non credo di essere stato assai più chiaro che nel mio primo commento; per ora il livello di approssimazione mia è questa. un saluto, di nuovo,

    f.t.

  5. @ Fabio Teti

    Sperando di non annoiare e di non deviare la ricerca del blog…

    Resto ancorato alla idea fortiniana che il filosofo e «il tonto» (o falso tonto) debbano incontrarsi e passeggiare insieme ( oggi magari sul Web invece che in un parco, che pur sarebbe preferibile) cercando d’intendersi (traducendo i linguaggi di partenza). Ecco perché ho insistito a chiedere una “traduzione”.
    Sforzandomi di mio e attestandomi sulla domanda che avevo posto («dato che di ideologia c’è n’è sempre sia nel postmoderno sia nel realismo, dove ce n’è di meno?»), mi pare d’intendere che lei polemizzi con «un sedicente realismo» che mi sa tanto di reperto archeologico. ( A meno che non sia questo che sia tornato di moda oggi fra i nuovi scrittori, sui quali sono molto ignorante, e la sua polemica sarebbe allora azzeccata).
    A me pare che un realismo, che pretenderebbe ancora oggi di «farsi specchio» (il vecchio Lukács fa capolino) della “realtà” “così com’è” e ignorasse quanta ideologia (realista) appanni il suo sguardo, sarebbe davvero patetico.
    Non si accorgerebbe – il poveretto e ingenuo – che «da mezzo secolo» (o forse più a voler essere precisi) il “mondo” non se n’è rimasto lì ad aspettare lui che lo “rispecchi”, ma gli è stato sottratto e subdolamente sostituito da un “altro mondo”, apparentemente simile a quello precedente (esplorato dai suoi antenati). E che, perciò, egli rischia di rispecchiare, rappresentare fischi per fiaschi, E che uno scrittore o artista o poeta “realista”, comunicherebbe ai suoi lettori non l’”originale” ma la “copia” o la “copia della copia”. E senza protesta da parte loro, perché pure essi assuefatti a questo mondo alla «Truman Show», questo vogliono, solo questo approvano e nessuno ha voglia di andare a vedere “dietro il paesaggio”.
    Ma è q davvero uesto il “nuovo nuovo realismo” di cui si sente chiacchierare? A questo approdano le spinte “realiste”, che pare riaffiorino in contrasto con il postmoderno? Non sono informato e chiedo lumi.

    La citazione del brano di Mesa, invece, riletta depurandola dal gergo (per me) troppo “filosofale” (magari giustificato nel contesto da cui è tratta) contiene alcune affermazioni discutibili o da vagliare più attentamente. Perché «la conoscenza dell’arte non è traducibile, parafrasabile»? Mai? Perché sarebbe (sempre?) «interrogativa e non assertiva» (sempre?). Perché quella che si disponesse per conto suo ( per progetto, per scelta) alla “traducibilità”, in ogni caso «estetizzerebbe un sapere preesistente, asserendolo» (cioè – mi pare di capire – non aggiungerebbe nulla di più di quanto si sa già per altra via)?
    Insomma la “verità” ( termine che non coincide con la “realtà” di cui stavamo – pare – trattando) non avrebbe mai niente a che fare con il «già-dato», ma sempre e soltanto con «l’interrogazione, l’espressione esplorativa, e dunque l’etica». (L’etica – mi permetto di chiedere – che c’entra? Perché anch’essa, come il termine “verità”, mi pare introdotto quasi di soppiatto).

  6. Caro Abate,

    sono d’accordo con lei, bisogna “cercare d’intendersi”; ogni residuo di oscurità nelle mie parole e citazioni, e conseguenti fraintendimenti, va imputato alla – effettiva – non raggiunta chiarezza circa la questione di cui stiamo parlando (per tanto mi ero espresso in termini interrogativi, all’inizio).

    non so dire con certezza quanto i vari “nuovi realismi”, i vari “ritorni alla realtà” – (ma: chi ritorna alla realtà? e da dove? e perché costui parla generalizzando e dando per scontato che anche io abbia bisogno di tornarci, come se ne fossi mai uscito? è un po’ come accade, per converso, nelle varie uscite di uno Scurati, recentemente tornate in auge: “siamo una generazione senza trauma”, e simili. ah sì?) – non so, dicevo, quanto e in che termini abbiano a che fare con un “realismo” o “neorealismo” da reperto archeologico, come giustamente scrivi, ossia con il filone artistico storicizzato che conosciamo. Ma le parole, credo, non sono equivalenti, né vuote di storia; se dunque è “realismo” il termine che di tanto in tanto fa capolino, magari in reazione all’anche più sdefinito “postmoderno”, è molto difficile che la prassi che gli corrisponde sia troppo diversa da quella – lo dico, figuriamoci, senza polemica – fallimentare del secolo scorso.

    Il saggio di Mesa, assai più interessante di queste mie sciocche considerazioni, è leggibile anche nei numeri 3 e 4 di “Per una critica futura”, che trova on line sul sito di Biagio Cepollaro. Rimando lì per rispetto all’integrità del suo discorso, che non sarei in grado ora di riassumere. Discorso che sicuramente si può discutere, né implica un “sempre” e un “in ogni caso” come corollario delle proprie affermazioni. Semmai, io credo, tenta di difendere una posizione che vuole appunto fare a meno sia di realismi massmediatici, sia di livellamenti postmoderni, sia di un utilizzo pretestuale (penso a certe avanguardie) della lingua e della scrittura. Il mondo – ma sto sovrapponendo mie idee, anche – contiene svariati livelli, di falsificazione come di verità, di fantasmi come di realtà. Lo scrittore e le sue parole sono di fatto già dentro questo mondo, e cercano di conoscerlo meglio, di capirlo meglio, anche con risentimento, con conflitto (spesso sono anzi condizioni necessitanti). Cercando di conoscere e di capire si produce senso, e si produce ulteriore realtà partecipabile, in un modo che è peculiare alla letteratura, e doppiamente peculiare nella poesia: un senso non parafrasabile (semmai *interpretabile*) perché, quando l’opera è riuscita, ed è eticamente condotta, non c’è separazione di forma e contenuto, ossia: l’opera non è la messa in forma di un contenuto e un sapere e una acquisizione conoscitiva precedente (in caso contrario, oltre a non “aggiungere nulla di più di quanto si sa già per altra via”, verrebbe proprio a cadere ogni possibilità di accordare alla letteratura uno statuto gnoseologico proprio, una propria capacità di produrre spazi di conoscenza che abbiano una qualche attinenza e approssimazione con le “verità”, appunto; riducendo essa letteratura, al dunque, a quella sterminata fiera del passatempo e della vanità qual è stata perlopiù in questi anni). (e, se di soppiatto ho introdotto “etica”, è perché non vedo proprio come si possa, senza di questa, produrre alcunché di responsabile, di necessario).

    Riassumendo con altre citazioni, che forse forniscono con più precisione il quadro cui grossolanamente ho cercato di riferirmi:

    “Sappiamo che niente accade per caso (ma questo uso smodato del verbo *sapere* per esprimere un’acquisizione anticipata rispetto al discorso, non è un alibi, uno scarto dell’intelligenza pigra, neghittosa? Sì, è un alibi: mi accorgo, scrivendo, di quanto poco sapevo prima di scrivere, prima di esercitarlo questo sapere presunto)”

    [A. Porta, Il re del magazzino]

    “L’espressione generica consente all’ascoltatore d’intendere a un dipresso quel che preferisce e che pensa già per conto suo. L’espressione rigorosa strappa un’accezione univoca, impone lo sforzo del concetto, a cui gli uomini vengono espressamente disabituati, e richiede da loro, prima di ogni contenuto, una sospensione dei giudizi correnti, e quindi il coraggio di isolarsi, a cui resistono accanitamente. Solo ciò che non ha bisogno di essere compreso passa per comprensibile; solo ciò che, in realtà, è estraniato, la parola segnata dal commercio, li colpisce come familiare. Nulla contribuisce altrettanto alla demoralizzazione degli intellettuali. Chi vuol sottrarsi a questa demoralizzazione, deve respingere ogni consiglio a tener conto della comunicazione, come un tradimento all’oggetto della comunicazione.”

    [ Th. W. Adorno, “Morale e stile”, in Minima moralia ]

    “Si è parlato della necessità di una spinta che per ora non saprei definire se non come spinta morale che precorre ogni morale, forza d’urto per un pensiero che agli inizi non si preoccupa della direzione, un pensiero che tende alla conoscenza e che vuole raggiungere qualcosa con e attraverso il linguaggio. Questo qualcosa potremmo provvisoriamente chiamarlo realtà.”

    [ I. Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte ]

    mi scuso per la lungaggine e per le continue imprecisioni-oscillazioni. Tornerò a discutere di tutto questo quando avrò idee più ferme e chiarificate. Grazie intanto per il dialogo, e per le obiezioni sollevate.

    f.t.

  7. I primi due paragrafi del pezzo di Siti mi sembrano perfetti, il terzo meno.
    Anche secondo me il postmoderno – questa debolissima chiave d’interpretazione – è spirato definitivamente con l’11 settembre; la realtà ha schiacciato, con tutta la terribile forza della propria evidenza, quel che Siti chiama a ragione i “giochetti” e le “riscritture”, s’è materializzata spazzando via perfino le briciole. Gli aerei che entrano nel corpo dei grattacieli sbriciolano per sempre ogni illusione d’ironia, sarcasmo, estenuazione o cinismo. Comincia una fase nuova e drammaticamente urgente, o urgentemente drammatica che dir si voglia.
    Non concordo invece sulla frase, ancorché suggestiva: “dove la realtà è abbagliante la letteratura non vede niente, la letteratura ritrova voce dove la realtà è oscura e ambigua.” Qui occorre intendersi. Diceva Holderlin che il meglio degli artisti vien fuori all’inizio o alla fine delle epoche: noi siamo dentro un inizio che però è anche (ancora) una fine, una fine agonizzante e al tempo stesso precipite; quest’era letteralmente apocalittica (ovvero rivelativa) si presta come nessun altra alla creazione ardita, e non abbisogna di (cito Siti) “scrittori cronisti puntigliosi della verità dei fatti”. Cos’è infatti la verità? Una datità assoluta o un’interpretazione? Cent’anni abbondanti dopo Nietzsche non sono forse trascorsi invano. La realtà non esiste, o meglio esiste in quanto da noi forgiata e tradotta; non possiamo permettere che sia essa a forgiarci più di quanto possiamo pretendere di vivere senza respirare. Se lo scrittore s’accuccia a ruota della realtà la realtà prima o dopo lo travolgerà. Il pensiero serio è en avant perché pende sull’abisso, non lo scava; pende cioè sull’abisso che ha ancora da essere scavato.
    Don DeLillo è un magnifico stilista ma cognitivamente fragile, superficiale: giustappunto con L’uomo che cade fallisce. E’ notevole però il fatto che nessuno fra gli americani, che vantano la migliore generazione vivente di romanzieri, abbia prodotto un lavoro degno sull’11 settembre. L’Evento risulta tuttora troppo vicino ma il problema non è, come afferma Siti, quello d’inseguire la realtà o di cavalcarla, quanto piuttosto di precederla: i grandi scrittori hanno spesso un dono profetico. La cronaca oggi più che mai è terreno esclusivo dei media, e i media divorano ciò di cui si può parlare al presente (che diviene subito passato e quindi plastificato, mummificato), perciò il cortocircuito fra letteratura (scrittura, anzi) e ciò che Siti chiama “informazione” è pericoloso. E’ un cappio che non smetterà di stringere, ma lo scrittore lasci che a impiccarcisi siano i cronisti.

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