di Daniela Brogi
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo articolo è uscito il 5 agosto 2012].
Tutti abbiamo visto centinaia di immagini di Marilyn Monroe, nata il primo giugno 1926 e morta cinquant’anni fa, il 5 agosto 1962. Eppure, dentro questa esperienza così familiare, c’e’ l’occasione di un nuovo sguardo, persino di uno straniamento. Bastano pochi minuti, per digitare su un motore di ricerca per immagini “Marilyn reading”, e subito appariranno decine di pagine, centinaia di foto che ritraggono l’attrice con un libro. Tranne poche eccezioni, come, a quanto parrebbe, la serie di Marylin che legge l’Ulysses realizzata da Eve Arnold, per lo piu’ si tratta di scatti costruiti, immagini in posa (tra le piu’ belle quelle di Elliott Erwitt), situazioni in cui ancora una volta Marilyn “guarda lei”, come lei stessa rispose una volta a Truman Capote mentre stava davanti a uno specchio. C’e’ Marilyn sul divano, appoggiata di spalle a una libreria, stesa languidamente su una panca: sempre trasognata, portata via dalla lettura; cosi’ immersa da procurare un effetto di iperrealismo. Nessun’altra diva ha così tante immagini che la ritraggono assorta nella pagina scritta, o per meglio dire di nessuna abbiamo piu’ di quattro, cinque foto. Invece quelle di Marilyn sono moltissime, quasi troppe. Perché così tante? E perché ci colpiscono, ci incantano, ci procurano a tratti una sensazione di vuoto, quasi che quei ritratti ci stessero stretti, compissero una sorta di deindividuazione, di sottrazione dell’oggetto alla sua iconografia più specifica?
Il primo vero sex-symbol, secondo Marlene Dietrich; icona pop immortalata dalle serie di Andy Warhol; bellissima bambina, secondo la definizione della sua maestra di recitazione riferitaci da Capote; “povera sorella minore”, per Pasolini. L’icona di Marilyn e’ la più forte e la più inimitabile di tutte, perché le sue immagini non dicono mai semplicemente se stesse, ma guardandole entriamo dentro una storia. L’energia simbolico-sensuale di Marilyn persiste con la carica costante di autorigenerazione che è propria dei miti: quelli che sedimentano grandi narrazioni collettive su cui si depositano esperienze simboliche, elaborazioni di traumi, modi dell’identità. Di Marylin Monroe ci cattura il potere della seduzione: di quel corpo che appartiene a tutti, non si nega – non e’ piu’ quello della donna vamp – ma al tempo stesso ha una risonanza malinconica – non e’ nemmeno quello di Brigitte Bardot – che lo rende anche distante, non del tutto afferrabile, perché appartiene anche ad altro. Appartiene alla morte eroica, come al mistero e di un mondo emotivo troppo spesso ridotto ma mai del tutto piegato alla biografia leggendaria di una psicolabilità.
Torniamo a guardare le foto di quel corpo in mezzo a tutti quei libri. Quegli scatti ci parlano di almeno tre, quattro cose. Anzitutto, di un bisogno continuo di riconoscimento rispetto al quale la vicenda dell’infanzia infelice certo conta ma non totalmente. Non è soltanto una psiche vulnerata quella che chiede lo sguardo, ma un talento scenico fuori dalla norma – un solo rapido esempio di riscontro: l’interpretazione di Marilyn nel film Il principe e la ballerina. In più, quei ritratti raccontano il gusto, spesso anche violento, di chi li ha eseguiti: l’attenzione a procurare un effetto di vita privata. Ma queste due ragioni, evidentemente, non bastano a spiegare il nostro sconcerto e quell’attimo di sospensione tra l’avvertimento comico e il sentimento umoristico.
Proviamo a spostarci, piuttosto, in un altro campo di idee. Quelle foto rappresentano anche una contraddizione in corpore, incarnano un’antitesi. L’immagine è costruita per sovrapposizioni: sintetizza, apparentemente, ciò che invece di solito è separato; raccontano un destino, non solo individuale, di sdoppiamento e di scissione tra ciò che appartiene al mondo della bellezza e la seduzione – il corpo – e ciò che appartiene al mondo della cultura -la mente. Molte delle foto di Marilyn che legge non rappresentano soltanto una scena curiosa o perfidamente ironica, ma bucano la membrana dell’archetipo rassicurante: alludono alla malinconia di un corpo intelligente.
[Immagine: Alfred Eisenstaedt, Marilyn Monroe Reading at Home].
“Trentacinque anni vissuti con un corpo estraneo
trentacinque anni
con i capelli tinti
trentacinque anni
con un fantoccio.
Ma io non sono Marylin
io sono Norma Jean Baker
perché la mia anima
vi fa orrore
come gli occhi delle rane
sull’orlo dei fossi?”
Bella la poesia di Ellida (anche se “orlo dei fossi” è locuzione un po’ abusata)…proprio nel “Principe e la ballerina” la grande attrice prende in giro tutto il rituale del seduttore da strapazzo ed è strepitosa quando fa il verso, alle spalle, al “granducale”; tutta quella bellezza, quell’intelligenza, ridotta anche nel film alla scena ripetuta del vecchio ingannatore che appunta la medaglia sul florido petto della ballerina…grande Marylin contro la supponenza di Miller che credeva di aver sposato un soprammobile, mentre a lui spettava il lato culturale….grande attrice anche comica, ironica e autoironica. L’America di quei tempi, l’America truce dei Kennedy (democratici all’esterno ma poi nella vita privata…) non era certo alla sua altezza!
La poesia che ho riportato è stata scritta dalla stessa Marilyn!
Ops, allora “l’orlo dei fossi” a cui mi riferivo (La canzone di Piero) è successivo o effetto dell’insondabile eco delle parole. Non lo sapevo, grazie Ellida, sono bei versi e del resto un’attrice così grande era grande anche nel pensiero.
Signore
accogli questa ragazza conosciuta ‘in tutto il mondo
con il nome di Marilyn Monroe
nonostante non fosse questo il suo vero nome
(ma Tu conosci il suo vero nome, quello dell’orfanella
violentata a 9 anni
e la piccola commessa che a 16 aveva voluto uccidersi)
e che ora si presenta dinanzi a Te senza il minimo maquillage
senza il suo Addetto Stampa
senza fotografi e senza firmare autografi
sola come un astronauta davanti alla notte spaziale.
Lei sognò da bambina che si trovava nuda in una chiesa
(secondo il racconto di Time)
davanti a una moltitudine prostrata, il capo sul pavimento
e doveva camminare in punta di piedi per non pestare le teste.
Tu conosci i nostri sogni meglio degli psichiatri.
Chiesa, casa, antro, sono la sicurezza del seno materno
ma anche qualcosa più di questo…
Le teste sono gli ammiratori, è chiaro
(la massa delle teste nel buio sotto il torrente di luce).
Ma il tempio non sono gli studi della 20th Century Fox.
Il tempio – in marmo e oro – è il tempio del suo corpo
nel quale c’è il Figlio dell’uomo con una frusta in mano
che scaccia i mercanti della 20th Century Fox
che han fatto della Tua casa di preghiera un antro di ladri.
Signore
in questo mondo contaminato dal peccato e dalla radioattività
Tu non incolperai soltanto una piccola commessa
che come tutte le piccole commesse ha sognato di essere
una stella cinematografica.
E il suo sogno divenne realtà (ma come la realtà del tecnicolor).
Non ha fatto che mettere in atto il copione che le avevamo dato
– Quello delle nostre stesse vite – Ed era un copione assurdo.
Perdonala Signore e perdonaci
per la nostra 20th Century
per questa colossale Super-Produzione a cui tutti abbiamo lavorato.
Lei aveva fame d’amore e le abbiamo offerto tranquillanti,
per la tristezza di non essere santi
le fu raccomandata la Psicoanalisi.
Ricorda Signore la sua paura crescente della macchina da presa
e l’odio per il maquillage – insistendo a truccarsi per ogni scena –
e in che modo l’orrore divenne sempre più grande
e più grande la mancanza di puntualità negli studi.
Come ogni piccola commessa
ha sognato di essere una stella cinematografica.
E la sua vita fu irreale come un sogno che uno psichiatra
interpreta e archivia.
I suoi amori furono un bacio ad occhi chiusi
che quando gli occhi si aprono
si scopre che è stato sotto i riflettori
e spengono i riflettori!
e smontano le pareti della stanza (era un set cinematografico)
mentre il Regista si allontana col suo taccuino
perché la scena è ormai stata girata.
O come un viaggio su uno yacht, un bacio a Singapore, un ballo a, Rio
l’esser ricevuta nella dimora del Duca e della Duchessa di Windsor
visti nel salottino dell’appartamento miserabile.
II film è finito senza il bacio finale.
La trovarono morta sul letto con una mano sul telefono.
E i due detectives non riuscirono a sapere chi voleva chiamare.
Fu
come uno che abbia composto il numero dell’unica voce amica
e sente soltanto la voce di un disco che dice: WRONG NUMBER
O come uno ferito dai gangsters
che allunga la mano verso un telefono staccato.
Signore
chiunque sia stato quello che voleva chiamare
e non chiamò (e forse non era nessuno
o era Qualcuno il cui numero non si trova sull’elenco di
Los Angeles)
rispondi Tu al telefono!
Ernesto Cardenal
Traduzione Marcelo Ravoni e Antonio Porta
(in Poeti ispanoamericani contemporanei, Feltrinelli 1970)
Temo di sì, parte della meraviglia sta nel trovarsi davanti a un evento (tradizionalmente) inaspettato: l’unione di corpo erotico e mente pensante.
Ad essere più clementi verso le nostre inclinazioni tipizzanti va detto che il bello di queste foto sta anche nel rievocare la sorpresa della scoperta della lettura, di quando eravamo tutti “bambine”, fragili e nuovi e aperti al mondo. Perché un, diciamo, Paul Newman che legge non effonderebbe lo stesso incanto? Perché la sorpresa ha bisogno della vulnerabilità, cui il femminile, ahimé, è esposto storicamente.
L’ultima frase di questa nota, però, va ben oltre le cose ovvie che sto dicendo:
“Molte delle foto di Marilyn che legge non rappresentano soltanto una scena curiosa o perfidamente ironica, ma bucano la membrana dell’archetipo rassicurante: alludono alla malinconia di un corpo intelligente.” Ringrazio Daniela Brogi per questa intuizione liberatoria. Spero di leggere altri post così.
Un caro saluto,
r
“Appartiene alla morte eroica” che un corpo incarna, più che mai. nella sua vulnerabilità, nella sua malinconia. La fragilità e l’eleganza, la postura raccolta e insieme incurante (all’apparenza) nel darsi. L’attrice è già il suo mito.
Grazie della riflessione.