di Rino Genovese
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 3 settembre 2012].
La famiglia in Italia non è un semplice sottosistema all’interno del più ampio sistema della società, secondo una definizione tipica della teoria sociologica. E neppure un istituto da studiare nei termini della celebre triade hegeliana famiglia-società civile-Stato. È molto di più: è il cuore stesso di quella che può essere detta l’ideologia italiana.
Che cosa s’intende per ideologia? Ci sono significati del termine differenti tra loro, e qui sarebbe impossibile prenderli in esame. L’uso che ne propongo è comunque circoscritto. Ideologia sono le abitudini e i costumi più o meno tradizionali in quanto vissuti emotivamente dall’interno, così da permeare la vita sociale degli individui. Se il concetto di cultura, nel suo senso antropologico, descrive le usanze e i costumi mediante uno sguardo dall’esterno, nelle loro differenze o analogie rispetto a quelli di altre culture, l’ideologia considera queste usanze e questi costumi come un orizzonte intrascendibile, avvertito in quanto tale dagli individui stessi: un insieme di credenze per lo più tacite, scontate, mai messe in questione, che fanno da sfondo alla loro identità.
In Italia l’orizzonte intrascendibile è dato dalla famiglia. Negli altri paesi europei ci si trova di fronte a una molteplicità di elementi riconducibili, in fin dei conti, all’individualismo occidentale moderno, spesso di matrice protestante, capace di staccare il singolo dai vincoli della parentela per proiettarlo nella società. Inoltre l’istituzione statale, configurando le relazioni sociali in modo giuridico astratto, raffredda le forme di vita permeate affettivamente, come in genere quelle comunitarie. Invece in Italia – risultato di una storia di lunga durata sedimentata in una peculiare antropologia culturale (si pensi, ed è fin troppo ovvio, al modo in cui si è costituito lo Stato unitario, senza un’autentica partecipazione popolare, con un’immediata e ormai irrimediabile frattura tra il Nord e il Sud del paese) – l’individualismo occidentale moderno ha sempre contato poco, nonostante nei manuali di storia si legga che il Rinascimento fu la prima affermazione dell’individuo; laddove, più precisamente, si dovrebbe dire del particolarismo inteso come sentimento forte dell’ambiente familiare e del proprio patrimonio. Il familismo italiano, infatti, così come ancora oggi lo conosciamo, proviene dal Rinascimento.
Per conseguenza quasi meccanica, la vita sociale italiana è stata presa in esame di solito nei termini di una storica arretratezza nei confronti dei paesi europei più sviluppati e moderni. Oggi sappiamo che non è così. Anzitutto c’è un’origine quattro-cinquecentesca, ai suoi tempi protomoderna, del particolarismo italiano che dovrebbe far riflettere: non di una semplice arretratezza si tratta ma di una modernità bloccata, di un carattere a suo tempo dinamico ma fermato lì, sospeso nell’aria. La città Stato riattivava e insieme depotenziava alcuni aspetti dell’antica polis greca, istituendo un modus vivendi con l’autorità imperiale e papale che di fatto impediva allo “spirito civico” di guardare politicamente al di là del proprio campanile. E ciò nell’interesse patrimoniale di poche famiglie dominanti.
Se poi, con un salto di alcuni secoli, ci volgiamo ai decenni appena trascorsi, vediamo che esiste – o almeno è esistito, prima dell’attuale crisi – un modello italiano di sviluppo basato sulla famiglia. Il sistema mezzadrile – imperniato sul ruolo del pater familias, sul lavoro dei figli, della moglie, spesso dei parenti acquisiti – con il tempo si è convertito nella piccola e media impresa diffusa nel Centro del paese, zona in cui quella forma di rapporto agrario era massicciamente presente, e per estensione nell’ormai famoso Nordest. La famiglia contadina si è trasformata, senza soluzione di continuità, in una famiglia di tipo imprenditoriale: in controtendenza rispetto a tutto ciò che di solito s’intende come industrializzazione e modernizzazione. Con la rivoluzione industriale, infatti, la famiglia avrebbe dovuto perdere il suo carattere di unità produttiva; la produzione si sarebbe svolta essenzialmente altrove, nella fabbrica. E così è stato per un breve periodo anche in Italia, almeno per quanto riguarda le grandi città del Nord, soprattutto tra gli anni cinquanta e sessanta del Novecento, all’epoca della grande emigrazione interna dal Mezzogiorno. Successivamente, con una specie di passo del gambero, il modello della piccola e media azienda ha riproposto la famiglia come unità produttiva, tutt’al più allargata a un esiguo numero di dipendenti. La cosa è in sé paradossale: perché, con il declino dell’industria pesante e la fine della centralità della fabbrica, quella che sembrava una sopravvivenza del passato tipica di una fase precedente della storia del capitalismo, si è rivelata, nel clima postfordista dell’impresa diffusa sul territorio, un modo di organizzazione della produzione apportatore di sviluppo – almeno fino all’impasse attuale del modello. Se a ciò si aggiunge che persino il grande capitalismo, in Italia, è stato un capitalismo familiare più che manageriale, il quadro allora è completo. Il familismo non è “amorale”, secondo la celebre espressione di Banfield, ma in se stesso fin troppo morale: a posteriori si palesa qui il sottile razzismo che, negli anni cinquanta, aveva indotto il sociologo americano a limitarne il fenomeno all’Italia meridionale (in particolare mediante lo studio di un paesino della Basilicata). Ma con il familismo ubiquitario italiano, a Nord come a Sud, sia pure in modo ineguale, ci si sviluppa economicamente, non si progredisce in senso morale e civile (volendo tener fermo, quasi provocatoriamente, al vecchio binomio démodé di marca illuministica).
Se la donna italiana è oggi la più oppressa tra le donne europee, economicamente e moralmente, ciò non può che essere messo sul conto del familismo. Sviluppo in certi momenti anche accelerato, ma progressi lenti e scarsa emancipazione. In un bel libro degli anni settanta, neanche troppo datato a rileggerlo oggi, Laura Balbo (Stato di famiglia, Etas Libri, Milano 1976) individuava nel nesso tra le risorse e i bisogni – produrre e organizzare risorse per il soddisfacimento dei bisogni – il centro nevralgico del ruolo svolto dalla famiglia in un tardocapitalismo basato sui consumi. L’autrice sottolineava come la società dell’abbondanza avesse comunque sempre nel privato, cioè nel nucleo familiare, il momento della gestione delle risorse; e come – in modo particolare in Italia, a causa della debolezza strutturale dei servizi pubblici – quella gestione pesasse soprattutto sulle donne come dispensatrici di servizi in famiglia: dal “classico” lavare, stirare e preparare i cibi, fino al coordinamento di attività come pagare le bollette o portare e andare a riprendere i figli a scuola. E ciò svolgendo talvolta anche un’attività lavorativa fuori casa – sebbene le tabelle riportate nel volume mostrino, già nel fatidico 1968, una netta flessione e un’espulsione della forza lavoro femminile dalle fabbriche.
Da un punto di vista teorico, diversamente da quanto potesse pensarne a suo tempo Balbo, il familismo segna uno scarto rispetto alla distinzione concettuale marxista tra la struttura e la sovrastruttura. Esso può essere pensato, infatti, come un’ideologia strutturale: una formazione di tipo totalizzante, un insieme di affetti, di credenze, di desideri, di fantasmi che sono immediatamente economia capitalistica perché tutt’uno con il modo di produrre e di consumare, con il soddisfacimento privato dei bisogni.
L’ideologia della famiglia opera a trecentosessanta gradi, ricoprendo quindi, al di là della sfera produttiva, quella dei servizi e dei consumi in generale. Mentre nell’idea europea dello Stato sociale s’intravede una rottura, sia pure parziale, della dimensione privata che, aprendo al servizio pubblico, apre in una certa misura al consumo collettivo, è consustanziale al welfare italiano un che di casereccio, fondato non tanto sulla razionalizzazione (e burocratizzazione) statale quanto sul ruolo di supplenza affidato alla famiglia. La chiave per comprendere l’enorme corruzione italiana è naturalmente qui: nell’intreccio tra servizio pubblico e interesse privato. È la famiglia stessa che si fa welfare proiettando fuori di sé il suo carattere immediatamente comunitario, non il rapporto tra lo Stato e i singoli cittadini ad assumere una valenza sociale. Per conseguenza le mafie prosperano in quanto famiglie allargate e reti di famiglie, che solo nella scelta criminale differiscono dalle altre, di tipo nucleare, che si limitano a far parte di sistemi clientelari e di lobbying. È provato che in Italia, più che negli altri paesi europei, per trovare un lavoro, soprattutto in una situazione di scarsità come quella odierna, bisogna rivolgersi ad amici e parenti. Ciò contribuisce fortemente a mantenere il controllo sociale su strati della popolazione, soprattutto giovanile, che altrimenti potrebbero rivoltarsi o comunque prendere la strada della protesta politica. Famiglie e mafie garantiscono insieme l’ordine sul territorio.
Le ricadute sulle principali ideologie politiche occidentali, come il liberalismo e il socialismo, e più in generale sulla democrazia, sono notevoli. La mancanza di un vero individualismo moderno in Italia ha due aspetti solo apparentemente antitetici: il primo riguarda il deficit di competitività e concorrenza in tutti i settori della vita sociale, quasi per nulla toccati dalla cosiddetta meritocrazia; il secondo la scarsa possibilità di trascendere questi tratti capitalistico-mercantili verso un individualismo sociale basato sulla cooperazione e la solidarietà. La debolezza dell’uno è la debolezza dell’altro. Se al centro della vita sociale e delle sue cure non è posto il principio dell’individuo alla ricerca di una realizzazione delle proprie potenzialità, senza distinzioni di nascita o di genere, non sono possibili né una politica liberale né una politica socialista. Gli esiti sono o familistico-cattolici o familistico-populistici. È quanto si è visto in Italia negli scorsi decenni, a parte rapidi scorci: o la famiglia come perno centrale indirizzata dal cattolicesimo politico in una chiave liberaldemocratica molto sui generis, o la famiglia come perno centrale orientata in maniera più chiusa sul territorio, secondo la versione populistica. Il Veneto con la sua storia è la regione esemplare di ambedue le formule politiche, anche nelle loro combinazioni e contaminazioni reciproche.
In questo senso, insistendo sulla cosiddetta società civile, sulle virtù del volontariato e dell’impegno civico, non si coglie la funzione di supplenza (a dir poco) esercitata nei confronti dello Stato sociale da una famiglia totalizzante. Che la cura degli anziani e degli ammalati sia affidata ai nuclei familiari, spesso con l’aiuto di lavoratrici immigrate mal remunerate, è tipico di un welfare “fai da te”. Il familismo si prende la sua vendetta contrapponendosi ogni volta che può allo Stato (per esempio con l’evasione fiscale), e tendendo a inglobare anche l’autorganizzazione e l’autogestione, che pure sarebbero forme della socialità solidale, nel parassitismo ai danni della cosa pubblica. Ciò rende particolarmente difficile la soluzione del rebus italiano. C’è uno sbilanciamento continuo, sia pure magari solo retorico, verso la ricerca di una maggiore competizione e concorrenza; in reazione, però, l’effetto è il riaggiustarsi dei gruppi familistico-lobbystici pronti a resistere al cambiamento. Rassegnandosi alle tradizionali chiusure corporative (tenaci, per esempio, nel settore degli ordini professionali), si lascia allora a una società civile cieca, al “regno animale dello spirito” familistico, quel mutamento che, comunque distorto, in un modo o nell’altro sopravviene. Soltanto un conflitto sociale aperto e plurale potrebbe risolvere il rebus, ridistribuendo le carte a giocatori essi stessi trasformati nel corso del gioco. Ma ciò – lo si vede – sconfina nell’utopia.
Un tempo si riteneva che l’utopia fosse la pacificazione di tutti i conflitti: ma in Italia, qui e ora, utopia è piuttosto il conflitto sociale dispiegato su larga scala. Con uno Stato di diritto debole (si pensi alla violenza poliziesca così tipica del “carattere italiano”, essenza – si potrebbe dire – del suo fascismo sempiterno), con uno Stato sociale da sempre inefficiente che oggi non sta migliorando ma riducendo le prestazioni, soltanto un impetuoso vento di rivolta sociale potrebbe spingere al cambiamento. Il fatto che la falsa rivoluzione di Tangentopoli, vent’anni or sono, sia stata prodotta dal sistema giudiziario, cioè dall’esterno del sistema politico, con gli esiti berlusconiano-qualunquistici che si sono visti, dovrebbe far riflettere. L’ideologia italiana ha lavorato in profondo così da rodere le radici stesse della politica, che solo da zero potrebbe ripartire riprendendo il filo di un’idea di politica come mediazione e compromesso, in senso alto, tra le componenti plurali di movimenti sociali autorganizzati; e ritrovando, da qui, perfino la funzione e il senso di un partito politico di sinistra.
Senza questa palingenesi (l’ironia del termine va sottolineata, perché sarebbe sufficiente molto meno di una palingenesi) l’Italia resterà l’Italia: quel paese che sembra illustrare in modo perfetto la tesi di Luhmann che vuole il fondamento della società non nei valori comuni, non nelle norme o regole condivise, ma nel farsi autopoietico della stessa comunicazione sociale. Nel caso italiano si tratterebbe di una comunicazione di ordine familistico (a cui paradigma si potrebbe assumere la canonica, ripetitiva, telefonata tra un figlio o una figlia e la mamma o il babbo) capace d’improntare di sé l’intera vita sociale. L’Italia, specialmente negli ultimi vent’anni, ha dimostrato che si può vivere con un Stato sociale debole, quasi in assenza della politica, con un’economia ridotta ad arricchimento privato e rapina. Ma una vita felice è un’altra cosa.
[Da “Outlet. Per una critica della ideologia italiana”, n. 1, 2012]
[Immagine: Famiglia].
Concordo in pieno; paradossalmente io, che non ho voluto formarmi una famiglia, avendo anche un lavoro totalizzante come quello di giornalista in un quotidiano, mi ritrovo a sopravvivere proprio in virtù e grazie alla (diemzzata, ormai) famiglia d’origine, da quando ho perso il lavoro perché mi sono opposta a un trasferimento. Ebbene, da allora, sono ormai 8 anni, io non ho avuto l’appoggio né di ordine né di sindacato, eppure, dopo oltre 20 anni di lavoro, pensavo di aver maturato una qualche forma di potere contrattuale, di poter convincere l’editore (nel mio caso un’editrice romana) a convertire il mio articolo uno in colaborazione…niente da fare. Approdo nella città del Sud da dove sono partita per girare un po’ tutta la Puglia e, pensando che essendo questa città il capoluogo di regione, potesse offrirmi occasioni di lavoro, non ho trovato che due risibili mesi di sostituzione estiva e nient’altro, a fronte di collaborazioni offerte a giovani dal cognome risaputo…quindi ho ripiegato sul lavoro casalingo, ovviamente non retribuito, e dunque io socialmente non esisto; ma se non avessi avuto la casa dei miei, mi domando e chiedo, cosa sarebbe stato di me? Un poveretto si è dato fuoco davanti al Parlamento, d’estate, nell’indifferenza generale; un minatore si è ferito per uno sporco lavoro a 400 metri sottoterra..ma ci rendiamo conto? Come posso lamentarmi io, io poi donna, adattatta facilmente al lavoro casalingo che al posto mio avrebbe dovuto svolgere un’altra pagata con il mio intero salario…davvero, non vedo via d’uscita a questa situazione terribile. A che mi vale aver lavorato e lavorare tanto? le famiglie sono piene di fantasmi…
dimezzata ormai
Concetto sistematizzato e espresso molto bene dall’autore, e purtuttavia sotto gli occhi di tutti da decenni, voluto da molti, sostenuto/santificato dalla Chiesa (che stranamente non viene citata come corresponsabile). Chi non ha famiglia, in Italia, è fottuto: basta considerare le graduatorie della PA, dove chi ha coniuge e figli e guadagna parecchi punti.
Complimenti a Rino Genovese, lui sì che sa individuare il nemico principale! Ullallà, la famiglia italiana, questa cattivona, questa superpotenza egemonica!
Il maschio italiano, questo spudorato patriarca che piluccando grappoli d’uva, stravaccato sul triclinio e sventolato dai flabelli opprime moralmente ed economicamente la donna italiana ben più dei suoi complici del Resto del Mondo!
Ringrazio anche la signora D’Errico per il suo iluminante commento, nel quale si rileva che “chi non ha famiglia, in Italia, è fottuto.”
D’altronde, come diceva il Presidente Mao, sempre “bastonare il cane che affoga”…
Caro Genovese,
lei espone molto bene i difetti del familismo, ma il tutto appare come un ragionamento tronco perchè lei manca di esprimere giudizi sul sistema alternativo, almeno nella sua personale opzione, il dispiegamento dei principi liberali con l’assioma dell’individuo preesistente alla società (una falsità evidente).
In altre parole, siamo certi che gli altri paesi, il sistema liberale occidentale, oltre ad essere vincente, sia anche desiderabile? Francamente, dirlo nel 2012, proprio in una fase di crisi economica acuta, appare quasi come una barzelletta.
Io mi sottraggo a questo spirito un po’ provincialistico che vede negli altri una situazione migliore “a prescindere”. Magari, mi potrei fare convincere, ma bisognerebbe che chi sostiene una tale tesi la argomentasse, tentando magari di paragonare tra loro situazioni differenti.
E’ evidente che se il liberalismo è un’ideologia che non viene messa minimamente in discussione, allora tutto ritorna in ordine perchè giudicato proprio in riferimento a quanto sia in grado di uniformarsi a un modello assunto a priori come ideale. In questo caso, tolgo il disturbo, capisco di essere fuori posto.
Grazie a Lei, Signor Buffagni, per aver condiviso con me una situazione che è sotto gli occhi di tutti, di quelli degli uomini e ancor più di quelli delle donne che per varii casi della vita non hano famiglie numerose o non le hanno del tutto. E Genovese non parla di patriarcato, bensì di familismo, categoria nella quale si accoccolano anche molte donne sostenendola controo ogni evidenza di disgregazione.
Si figuri. Comunque lei e Genovese non devono preoccuparsi, anche in Italia famiglia e derivati si stanno allineando ai paesi più avanzati, cioè con la sua formula stanno per “essere fottuti”.
Del resto ogni linea di prodotto, anche il più venduto, dai e dai stufa ed esce di produzione. La famiglia poi, compreso il suo indotto (esseri umani), ha costi di manutenzione elevatissimi, causa agli addetti incresciosi incidenti sul lavoro, inquina, ha margini di resa ridicoli…insomma, l’investitore intelligente punta altrove.
Caro Genovese,
riscrivo questo commento misteriosamente sparito senza lasciare traccia alcuna.
Lei ha bene illustrato tutti i difetti del sistema familista, ma mi pare che la sua analisi per non essere monca, dovrebbe considerare quella che lei pone come obiettivo da perseguire.
L’assurda pretesa del liberalismo che l’individuo preesista alla società a cui appartiene, non mi pare abbia dato frutti positivi, nè mi posso aggregare allo spirito provincialista per cui tutto ciò che è straniero, è preferibile “a prescindere”.
Poi, guardi, oggi, in piena crisi economica, porre l’ideologia liberale come un modello ideale assunto assiomaticamente, rischia di apparire perfino come una barzelletta, anche se di dubbio gusto.
Il giudizio non può che essere comparativo, in caso contrario non mi pare abbia granchè senso.
Caro Cucinotta,
ma mi dice dove io sosterrei che “l’individuo preesista alla società cui appartiene”? Sostengo piuttosto che il familismo italiano toglie spazio all’individualismo moderno, che non è solo liberale ma è anche il presupposto del socialismo europeo (a cui, come lei sa, mi sento vicino). L’individualismo moderno è una complessa esperienza culturale; il liberalismo, con la sua filosofia politica contrattualistica, o in altre versioni, è solo un momento, molto riduttivo, di quella esperienza.
Lei si riferisce a un “individualismo metodologico”, come lo si chiama nelle scienze sociali, che è lontanissimo dal mio modo di vedere.
Concordo con quanto scritto da V. Cucinotta, dà sollievo ogni tanto una boccata di buon senso. Aggiungo una o due cose sulla stessa linea.
1. Se tu smonti il “welfare State” o Stato sociale e fai milioni di disoccupati con una politica economica tipo Attila, mi sembra logico che nella lotta universale per una sopravvivenza sempre più difficile vincano i più forti, i più furbi e i più ammanicati, ergo che il posto dell ragazzo meritevole se lo frega il ragazzo meno meritevole ma con le spalle più coperte, il quale se lo aggiudicherà non perchè la famiglia è cattiva in sè, ma perchè la sua famiglia ha più soldi, più relazioni, magari più armi (si vedano i risultati dei test universitari o le nomine dei primari nelle regioni a governo mafioso).
2. Dice, ma nei famosi paesi più avanzati ci sono meno pastette e il meritevole va avanti anche senza spinta. Tralascio i distinguo tipo che l’endorsement degli anglosassoni è tale e quale la raccomandazione, etc. In effetti è vero che, nel sistema scolastico e universitario in particolare, la nostra cara Italia è saldamente ancorata in una Fossa delle Marianne di abietta e tragicomica corruzione che sbalordisce il mondo intero: di scuola il caso del Rettore della Sapienza che ha messo in cattedra anche il suo gatto.
Segnalo però un fatto elementare: i dominanti di una nazione favoriscono l’integrazione dei meritevoli provenienti dai ceti dominati solo nel caso che ne abbiano veramente bisogno, sennò perchè mollare l’osso? La promozione sociale dei meritevoli provenienti dai ceti dominati serve ai dominanti quando essi devono competere con i dominanti di altre nazioni: per i dominanti, solo in quel caso il gioco di acquistare dei giocatori provenienti dall’altra squadra vale la candela. In Italia, almeno a partire da Mani Pulite 1, con l’espropriazione via via più completa della sovranità nazionale, i dominanti non hanno più intenzione, voglia, possibilità di competere con nessun altro ceto dominante, e si sono accomodati nella condizione di “borghesia coloniale”: e quindi chi glielo fa fare di aprire le porte ai meritevoli dominati? I dominanti italiani non hanno nessun bisogno di essere dei geni, hanno bisogno di riuscire a vendere ai dominati le decisioni prese altrove, e di tenersi stretta la poltrona per altri dieci o vent’anni, orizzonte temporale che per loro equivale all’eternità.
Quindi sparare sulla famiglia italiana povera o mediopovera, sui suoi tinelli, sui suoi forni a microonde, sulle sue auto con il pino deodorante che penzola dallo specchietto, è peggio che sparare sulla Croce Rossa, è fare domanda per iscriversi nel plotone di esecuzione che si sta schierando per giustiziarla senza neanche chiederle le ultime parole o offrirle l’ultima sigaretta (perchè il fumo fa male).
I powers that be disoccupano metà di una generazione di ragazzi, disindustrializzano l’Italia, smontano lo Stato sociale, preparano per i prossimi trent’anni l’immiserimento di massa sul modello del Paese Più Avanzato (si profilano all’orizzonte i trailer parks, con relativo trailer trash di miserandi che a fine mese mangiano il cibo per gatti e come vacanze intelligenti sniffano la colla) e tu te la prendi con il ragù della signora Pina? Ma ci sei o ci fai? E’ questa qua la sinistra italiana? (Sì, è questa qua).
Lo scrittore molto attento alla sociologia, il francese Houellebecq, in uno dei suoi due capolavori, credo ne Le particelle elementari, dice (vo a memoria) che la famiglia tanto strapazzata dai partiti di sinistra ha rappresentato l’ultimo frangiflutti “comunista”, le ultime enclavi di piccola comunità, all’interno del dilagare della solitudine individualista dell’uomo moderno davanti al mercato.
Forse Houellebecq, al di là della polemica sui partiti di sinistra sempre bona per veder libri, voleva dire che preso atto della modernità, è meglio la solidarietà familistica di soggetti che vivono nella consapevolezza di stare in una comunità seppure piccola, piuttosto dello spauracchio individualista che il capitalismo avanzato e il neo-liberismo stanno costruendo, che crede di essere oltre ogni collettività o gruppo umano – e che come minimo, come ben dice Cucinotta, non ha dato frutti positivi, anzi. La famiglia vista come estrema difesa rispetto alcune derive finanziario-culturali e storiche, un pedalare almeno in tandem, per buttarla sul ridere. In questo senso viene utile riflettere sulla famiglia pure in relazione alle difficoltà economiche che i (poco) salariati o i disoccupati si trovano a fronteggiare in questi tempi. Insomma, il carattere contrattuale finanziario, di unione umana e di risorse, che un matrimonio tira a sé.
Che poi la struttura famigliare comporti questo e quello, che il familismo faccia rima con clientelismo, che spesso oscilli dal pater-familias al padre-padrone, fino alle diverse declinazioni borghesi o di conservatorismo “rurale”… che la famiglia italiana sappia trasformarsi in un ribollente contenitore di idee conformiste e reazionarie, di controllo e normalizzante… questo è fuori discussione.
Io non sono un difensore della famiglia, intendiamoci, proprio no, ma mi pare che l’analisi di Genovese, per quanto condivisibile in tanti punti, sia chiaramente sbilanciata tutta da una parte, questo da un lato lo capisco perché non è un mistero che la questione della famiglia, della famiglia italiana, sia da sempre un cavallo di battaglia delle destre parlamentari ed extraparlamentari (vedere casa pound) quindi da sinistra si è più vicini a tesi anti-famiglia o meglio oltre-famiglia (lo sono allo stesso modo pure io), ma d’altro canto credo pure che una visione unilaterale di questo enorme e stratificato sistema umano e culturale sia riduttiva e comporti diverse semplificazioni.
ps: da centroitalico, è vero che molte imprese da noi sono a conduzione famigliare (moltissime non lo sono per esempio; nella piccola impresa si aprono cooperative allargate o i soci sono altri artigiani/lavoratori del ramo, non imparentati), ma mi pare frettolosa la filiazione famiglia mezzadra->famiglia medio-piccola imprenditoriale espressa qui nell’articolo. La vera filiazione, in verità, per numeri, è stata familia mezzadra->famiglia operaia.
Signor Buffagni, Lei non ha compreso il significato del mio primo commento. Poco male.
Resta il fatto che la famiglia sia l’ultima spiaggia assistenziale (almeno finché entra un reddito purchessia) e che tutti gli altri enti se ne freghino bellamente dell’individuo, specie se donna, disoccupata, sola!!!
per Fiorella D’Errico
macchè poco male, La prego di scusarmi d’averla fraintesa. Ci si scrive per capirsi, no? Se mi spiegherà meglio le sarò grato.
a D. Seligneri
Mi sembra che lei dica cose più che sensate, ma, scusi: perchè poi se la destra dice viva la famiglia uno di sinistra dovrebbe dire abbasso? Non è mica curva sud contro curva nord, le pare? E se uno dicesse che ne pensa lui del prodotto togliendo l’etichetta?
per Mariateresa
Eh sì! Per stare terra terra (posizione consigliata per evitare rovinose cadute), l’individualismo liberista va bene finchè hai i soldi.
Caro Genovese,
sembrerebbe che lei convenga con me che la società non presesiste all’individuo, e quindi si collochi anche lei in una posizione critica rispetto al liberalismo.
Sarebbe allora interessante capire a cosa esattamente lei si riferisca quando parla di ideologia socialista.
Il socialismo nel novecento ha fatto parte della più ampia famiglia del marxismo, e non mi pare che abbia sviluppato una sua propria ideologia, si è essenzialmente manifestato come pratica politica, soprattuto nel secondo dopoguerra in Europa come socialdemocrazia.
A me pare, ma sono naturalmente pronto a cambiare opinione, che la socialdemocrazia sia nei fatti succube del pensiero liberale, e poco importa se non lo ammetterebbe mai, le cose così stanno. Hollande ha un sistema di valori differente dalla Merkel, tanto per fare un esempio, senza coinvolgere le passioni della politica italiana? Qualunque persona di buon senso dovrà ammettere che no, che la socialdemocrazia è stato un episodio storico ben delimitato nel tempo, e il cui successo è strettamente legato all’esistenza dell’unione sovietica da una parte, ed ad una fase economica straordinariamente espansiva e di lunga durata che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale dall’altra. Finite quelle condizioni oggettive, è finita la socialdemocrazia, anche se l’ìeuropa è tuttora piena di zombie socialdemocratici (e pazienza se per Bersani io sia un fascista).
Lei crede che la società preceda l’individuo, ma allo stesso tempo non ha dubbi nel rivendicare lo sviluppo individuale come priorità da rispettare. Non mi pare ci sia coerenza in tutto questo, ma la cosa più importante è che sarà difficile distinguerla da un liberale, le premesse potranno essere differenti ma la pratica politica sempre nella stessa direzione va a parare.
In ogni caso, lei ammette di ritenere i modelli statali di quella stessa europa che sta andando a picco oggi come desiderabili, perchè non contesta questa parte del mio commento, senza però spendere una parola che giustifichi un giudizio così entusiasta, il che costituisce appunto il centro del mio dissenso.
@Roberto Buffagni
Quello che volevo dire è che il presente saggio di Genovese ha delle interessanti riflessioni, ma forse, e dico forse, buona parte della sua analisi muove e prende forma da una matrice ideologica di sinistra, e dicotomica se vogliamo, che non permette spesso di tenere in debita considerazione i lati positivi della famiglia, anche quella italiana.
Ci sono dei motivi per cui la destra reazionaria e localista per non dire populista premia la forma-famiglia a dispetto di un progetto più ampio di collettività allargata proposto dalle forze progressite. Non dimentichiamo che alla staticità del modello di nucleo famigliare struttuale prefissato dai partiti cattolici tradizionali e dalle istanze clericali ortodosse oggi l’unico luogo dove il dibattito sulle coppie di fatto (etero o no) o sui matrimoni omosessuali (quindi sulla ridefinizione del campo famigliare) sia possibile risiede a sinistra, almeno in Italia, e non è una cosa di cui andar fieri, vuol dire che la destra italiana è ferma a lustri e lustri fa.
Tutto questo ha un peso, ed ha generato riflessioni a sinistra che non sono di certo favorevoli alla famiglia o peggio al familismo…. si scava sempre di più il fosso tra difensori e oppositori della famiglia, perché la famiglia stessa, come modello culturale ed economico, è strumentalizzato continuamente dal dibattito pubblico. In questo senso dicevo per una persona di sinistra non è sempre facile districarsi ed essere flessibile nell’analizzare la famiglia. Ma sarebbe molto utile, concordo, che lo facesse.
Grazie a D. Seligneri per le precisazioni. Provo a precisare un po’ anch’io.
Secondo me, la destra promuove l’hardware del capitalismo (liberismo economico integrale, mercatismo a idrogeno liquido, profittismo mistico, vaporizzazione dei lavoratori, etc.) e la sinistra promuove il software del capitalismo (liberismo antropologico integrale, dirittoumanismo shock & awe, immigrazionismo militante, scolorina a fiumi su frontiere e identità nazionali sessuali linguistiche sessuali religiose, matrimoni omosessuali transessuali asessuali, etc.).
Poi, certo, la destra difende i valori in nome della tradizione e la sinistra critica il capitalismo in nome del progresso, confermando il detto che la mamma dei cretini (e degli ipocriti) è sempre incinta: perché “il liberalismo economico integrale (ufficialmente difeso dalla destra) reca in sé la rivoluzione permanente dei costumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), proprio come quest’ultima esige, a sua volta, la liberazione totale del mercato” (Jean Claude Michéa, Le complexe d’Orphée : La gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès, Climats, Paris 2011, è bello e costa anche poco: € 18,73, disponibile in confezione regalo).
Diretto sinistro, montante destro: questa la classica combinazione che ha messo al tappeto la famiglia. La quale, lo ammetto, sta perdendo ai punti questo emozionante incontro per il titolo mondiale dei supermassimi; ma nonostante i pronostici sfavorevoli della maggioranza dei commentatori, resta (per fortuna, aggiungo io che col cuore in gola tifo per lei da bordo ring) un pugile anziano, lento di gambe e corto di fiato, ma dotato di enorme esperienza, eccezionali doti di incassatore, e con una castagna folgorante che in qualunque momento può rovesciare le sorti dell’incontro.
E’ un pezzo bellissimo, pieno di verità incontrovertibili… e infatti i commenti avversi avevano ben poche argomentazioni.
Anche i timidi commenti di Fiorella D’Errico, purtroppo subito placati da facezie, sono giustissimi: “Chi non ha famiglia, in Italia, è fottuto”.
Si potrebbe fare un elenco sterminato di eventi in cui se non hai una famiglia o ne esci da una, e non hai una posizione economica “personale” solida, tendi a rifarti una famiglia o, avendone la possibilità, torni a quella di origine(da mamma e papà) perché altrimenti ti rendi immediatamente conto che sei fuori dai giri e da ogni diritto minimamente ragionevole: sei vessato da leggi che erodono il tuo reddito, in favore esclusivo della famiglia. La D’Errico cita le graduatorie della PA, ma in realtà il diritto italiano è pieno di leggi e leggiucole che favoriscono la “famiglia” comunemente intesa, a discapito della collettività “tutta”. Senza parlare poi di tutto un dedalo di regolamenti privati tra aziende e lavoratori ad esempio, che prediligono i nuclei familiari “classici” a discapito delle famiglie di nuova formazione: basta leggersi i regolamenti delle casse mutua aziendali, che per tuo figlio prevedono il rimborso di una visita mendica, e in vece per il figlio della tua compagna non hai diritto ad alcun rimborso. Senza parlare di certe palestre che ti riducono la quota di iscrizione se iscrivi tuo figlio a un corso per bambini e se, guarda caso, il figlio che vuoi iscrivere non ha il tuo stesso cognome ti guardano con l’espressione sorgnona di chi sa che li stai fregando. Siamo pieni di leggi nazionali e regolamenti privati, e pregiudizi, che favoriscono la famiglia classica, non ci si stupisca poi se le famiglie di “nuova formazione” chiedono pari diritti e lottano per entrare nel diritto di famiglia. Come al solito si può obbiettare: “ma se togliamo i privilegi alla famiglia, togliamo all’Italia un welfare state a costo zero” …a costo zero? In che senso? E per chi ?…
Le conseguenze di questo atteggiamento protezionista della famiglia sono ben chiarite da questo bellissimo pezzo di Rino Genovese, che ringrazio.
Premesso che convivo felicemente da molti anni con la mia compagna e ho una figlia di ventitré anni, quindi non sono un avversario della famiglia ‘ut talis’, così come non sono un apologeta della famiglia ‘ut talis’, ritengo opportuno, soprattutto nei tempi cupi e ottusi di falsa emancipazione, pesante regressione culturale e preoccupante recrudescenza di pulsioni ataviche, in cui ci è toccato vivere, richiamare quell’aureo volume che si intitola “Psicologia di massa del fascismo”, testo tanto famoso quanto poco letto di Wilhelm Reich. Meritevoli di una specifica attenzione, in rapporto a questo dibattito, sono, a mio sommesso avviso, il primo capitolo, che tratta della “Ideologia come forza materiale” e, in particolare, il paragrafo 4) su “La funzione sociale della repressione sessuale”, nonché il capitolo secondo, dedicato all'”Ideologia autoritaria della famiglia nella psicologia di massa del fascismo”, con i paragrafi 3) su “La psicologia di massa della piccola borghesia” e 4) su “Legame familiare e sentimenti nazionalistici”.
Nella congiuntura presente, mi preme sottolineare tre punti: a) la difesa della famiglia, della sua funzione etica, sociale, economica e politica, non può essere assunta in maniera miticamente indiscriminata, nessun organismo sociale essendo, come dovrebbe essere noto, più psichicamente patogeno della famiglia (che poi le coppie omosessuali rivendichino la legittimità dell’adozione di figli è semplicemente paradossale e rientra nella fenomenologia spuria, dianzi richiamata, dei tempi cupi e ottusi in cui ci è toccato vivere); 2) la causa determinante della disgregazione della famiglia va ricercata nel capitalismo, nel suo sviluppo e nella sua crisi, con le molteplici e devastanti conseguenze che si chiamano consumismo, disoccupazione, istinto proprietario, desolidarizzazione sociale, qualunquismo anti-politico ecc. ecc.; 3) che “nella famiglia tradizionale odierna prevalgono la costrizione, il peso dell’interesse materiale, la ipocrisia e anche la corruzione” (questo è un omaggio a Palmiro Togliatti, le cui considerazioni sui temi oggi definiti “eticamente sensibili” sono molto più attuali di quanto non si immagini). Infine, come ciliegina sulla torta, pensando anche alla rinnovata alleanza dell’Occidente con i nazisti, sancita dalla guerra in Ucraina, perché non consigliare a tutti di rileggere, nel libro di Reich testé menzionato, quanto fu lietamente affermato per la Festa della Mamma nazista del 1933?
1) Dove sta il paradosso se le coppie omosessuali rivendicano la legittimità dell’adozione DEI FIGLI DEL PROPRIO COMPAGNO O COMPAGNA ? se questo ne conseguirebbe lo stesso diritto, e privilegio economico, che è riservato oggi solo a una famiglia di tipo tradizionale?.
Paradossale e contraddittorio è semmai affermare di non essere avversario della famiglia ‘ut talis’ per poi uscirsene col paradosso dell’adozione per gli omosessuali: ad oggi le famiglie arcobaleno sono considerate famiglie ‘ut talis’ che tirano la carretta economica familiare con le stesse difficoltà di una famiglia tradizionale, ma lo fa senza gli stessi privilegi diretti, e indiretti, dianzi richiamati.
Se questo infastidisse forse è bene eliminare definitivamente il privilegio, perché di questo si tratta, e distribuirlo alla collettività, ad esempio rifinanziando l’assistenza domiciliare dei disabili gravi che giacciono, dimenticati, nei loro letti.
2) La causa della crisi della famiglia non sta nel capitalismo e nelle sue regolamentazioni spontanee, ma alla mancanza di organismi nazionali e sovranazionali capaci di spronare atteggiamenti economici più moderni ed etici, a scapito di atteggiamenti capitalisti monopolistici, spregiudicati ed erosivi.
L’andamento economico mondiale è fatto da oscillazioni costituite di fasi di profitto alternate a fasi di crisi, per lo più prevedibili: il problema sta nel fatto che i nostri politici non lo sanno e negli anni con hanno costruito un welfare state adeguato.
@ Ares
In verità, quando ho parlato della famiglia ‘ut talis’, così come dell’anti-famiglia ‘ut talis’, non ho inteso legittimare un atteggiamento (o il suo opposto), come se fosse vero ciò che affermano papi e reazionari di ogni specie: essere la famiglia la cellula della società. Dimenticando di precisare: di ‘questa’ società e ‘questa’ famiglia. Abbiamo forse messo in soffitta troppo presto autori come Reich, Cooper, Laing, naturalmente Marcuse e persino il più ‘serio’ Adorno, che ci hanno insegnato verità elementari sulla funzione della famiglia (patriarcale od omosessuale non fa differenza) nel perpetuare la società proprietaria e autoritaria. Lei è davvero convinto che un bambino che cresca in una famiglia con due mamme o con due padri non riprodurrà nella propria formazione quello schema che farà di lui un cittadino più o meno sottomesso e un cultore della proprietà e della sua ideologia? E non pensa che sia un paradosso il fatto che l’aspirazione a formare una famiglia di questo tipo replichi semplicemente un protocollo antropologico e sociale storicamente e materialmente esaurito? A Lei perciò mi permetto di consigliare la lettura di un libro di Joel Kovel, intitolato “Nevrosi, capitalismo e desiderio. Casi clinici di uno psicoanalista marxista”, che potrebbe aiutarLa ad individuare i molteplici nessi che non solo collegano il capitalismo alla famiglia, ma sussumono integralmente questa organizzazione sociale alla logica dell’accumulazione e della crisi del capitalismo.
Non ne individuo il paradosso…. queste famiglie chiedendo di entrare nel diritto di famiglia, chiedono cioè di poter giocare alla pari, sul medesimo terreno, con le stesse premesse economiche.
Un freno all’ideologia capitalista non lo si da penalizzando alcune famiglie a privilegio di altre, mantenendo vivo lo schema capitalista con politiche nazionale e sovranazionali corrotte: è da nuove politiche comunitarie che bisogna partire, di tutela dei singoli, in modo tale da poter progressivamente fare a meno del diritto di famiglia, la quale non si dissolverebbe ma non avrebbe la necessità di chiudersi e proteggersi, diventerebbe semplicemente solidale.